1. La complessità delle classi
Una pedagogia dell’integrazione si realizza soprattutto all’interno della quotidianità dell’aula, pertanto un’area che vale la pena esplorare è quella che interessa più nello specifico i bambini immigrati a scuola, che abbraccia tutta una serie di fattori, impliciti o espliciti, che riguardano, oltre che loro stessi, i loro coetanei, le figure adulte a cui fare riferimento (sia nel proprio gruppo sia in quello dei bambini italiani), gli insegnanti, l’istituzione scolastica e gli organi centrali e periferici preposti alla sua gestione. La scuola rappresenta ancor oggi uno dei lati dell’ipotetico triangolo del sistema formativo integrato immaginato una ventina d’anni fa da Frabboni1: gli altri due sono costituiti, dal sistema non formale (famiglia, enti locali, associazionismo, chiesa) e dal sistema informale: offerte del mercato, attività pomeridiane a pagamento, tv e (oggi) videogiochi e internet. La scuola, pur mantenendo una sua centralità, riempie soltanto per 1/3 lo zaino dei ragazzi di contenuti e abilità, parallelamente c’è da tener conto del fatto che anche pregiudizi e stereotipi possono pervenire da tutti e tre gli ambiti educativi, con il rischio di vanificare ciascuno il lavoro degli altri.
Lo stare bene a scuola dei bambini immigrati insieme agli altri presuppone una serie di elementi non sempre facilmente delineabili che, come in un disegno geometrico di cerchi concentrici, partono da loro stessi (per meglio dire: da ciascuno di loro, indipendentemente dall’origine etnica, dalla nazionalità, dalla lingua madre) per giungere fino all’amministrazione centrale della scuola e viceversa. Il linguaggio sintetico della sociologia dell’educazione ha delineato bene le sfaccettature sempre più articolate che è venuto assumendo il processo educativo: «Dalla classica dicotomia cognitivo/affettivo la teoria dell’apprendimento ha evidenziato l’importanza degli aspetti sociali e culturali del contesto educativo, oltre alle dimensioni organizzative e comunicative della relazione insegnante-allievi. [...] la dimensione sociale/relazionale si aggiunge alla dicotomia iniziale, ma accanto a questa sorge ben presto l’importanza di considerare gli aspetti organizzativi, legati alla gestione di risorse umane e fisiche (la scuola come organizzazione complessa). Un ulteriore allargamento di campo tende a includere la dimensione linguistico/comunicativa; un filone di studi e ricerche relativamente recente, proveniente dagli studi di tipo etnometodologico e sociolinguistico, ha sottolineato l’importanza del contesto conversazionale nella comunicazione fra insegnante e allievi in classe»2.
Negli ultimi due decenni è avvenuto in Italia quello che è già avvenuto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania e in Francia, cioè la crescita esponenziale delle minoranze etniche di immigrati da tutti i paesi del mondo. Questo cambiamento demografico fa aumentare la consapevolezza delle classiche dinamiche sociali, determinate dai vari fattori di background di tipo economico familiare e socioculturale ma fa emergere anche l’importanza dei fattori legati alla capacità di inserire le nuove culture nel contesto affettivo e cognitivo scolastico (cultural inclusion).
Una simile complessità, in qualunque tipo di situazione educativa ci troviamo, passa attraverso fattori di vario tipo, macroscopici o impercettibili, che possiamo strutturare in tre gruppi: fattori personali-relazionali, fattori del ruolo e fattori socio-istituzionali. In questo capitolo cercheremo di esaminare questa terna di fattori, partendo da un paradigma di tipo fenomenologico.
Si può parlare di una «via originale» imboccata dalle scuole italiane, alla base della quale vi è un fondo etico e pedagogico che induce a riservare uguale dignità al patrimonio linguistico/culturale dei vari gruppi etnici e dunque al patrimonio culturale – piccolo o grande che sia – che ogni allievo porta con sé, appreso nel corso degli anni durante i quali ha vissuto nel suo paese di origine (prima, dunque, di arrivare in Italia) oppure appreso quotidianamente (se non altro) dalle abitudini familiari.
Non si incontrano situazioni (di stampo assimilazionista) con l’obiettivo di una integrazione radicale e forzata nei tempi nella cultura maggioritaria, degli allievi appartenenti a minoranze etniche, con lo scopo immediato e ultimo di eliminare le loro diversità, linguistiche e culturali, intese come elementi di disturbo, in uno sfondo «artefatto» in cui gli insegnanti intendessero perseguire un ideale di omogeneità.
D’altro canto non si incontrano neppure testimonianze (di impostazione segregazionista) nelle quali la scuola appare interessata a garantire soltanto la trasmissione della lingua e della cultura d’origine dei bambini stranieri, auspicandone un rapido rientro nei paesi di provenienza.
I contatti con le scuole e con gli insegnanti nel corso di questi anni confermano che essi intendono rispondere a una situazione il più delle volte nuova per ciascuno di loro con una pedagogia del dialogo, inteso come esperienza più che come principio cognitivo. Si è osservato e si osserva un impegno reale ad attivare il dialogo, a tenerlo vivo, a ipotizzarlo reciproco, nonostante che gli insegnanti, gli educatori, i capi d’istituto sappiano perfettamente che l’esercizio del dialogo è difficile e faticoso.
L’impostazione fenomenologica per avvicinare, tentare di capire, provare a dare delle soluzioni è stata quanto mai utile e ricca di suggerimenti. Le osservazioni partecipative hanno accentuato la curiosità professionale e scientifica di indagare più a fondo, di interrogarsi su alcuni principi epistemologici possibili, di provare ad andare un po’ sotto allo strato dell’epifenomeno.
Si è fatta strada gradatamente l’ipotesi possibile di un approccio pedagogico multireferenziale, intendendo con ciò la necessità del riferimento a modalità differenziate, a paradigmi teorici che si possono integrare e completare, ai contenuti specifici di varie discipline, all’utilizzo di differenti percorsi didattici. Accanto a tutto questo, è consigliabile che chi insegna acquisisca un po’ per volta l’abitudine a rivisitare continuamente le attività proposte, le metodologie adottate. Piero Bertolini parla, più nello specifico, dell’abitudine a «riprendere, ripensare, approfondire, aggiornare alla luce di ciò che comunque e sempre di nuovo viene prodotto, nonché di ciò che la cultura (non necessariamente o solo pedagogica) produce quasi giorno per giorno». E dunque qui facciamo anche nostro il suo consiglio, la sua indicazione.
Le classi plurietniche mostrano che il rapporto educativo diventa sempre più complesso, con implicazioni di tipo cognitivo e affettivo, sociale e relazionale e mostrano quanto sia importante curare la dimensione linguistico-comunicativa, il contesto conversazionale, gli aspetti legati ai valori, ai comportamenti, agli stili di vita. E in un sistema conversazionale gli studenti apprendono perché c’è un accordo fra studenti e insegnante, cioè fra persone che hanno sistemi concettuali sì differenti ma che sono coerenti e stabili e che riescono a trovare, a costruire uno sfondo comune. Qualunque processo educativo simmetrico o asimmetrico mette in gioco a livello interpersonale visioni del mondo e culture che non sono mai uguali, che non possono mai coincidere, che hanno a che fare poco le une con le altre e che dunque si pongono in un rapporto inter-culturale fra di loro.
Quando si parla di educazione interculturale per cultura s’intende un sistema «storicamente creato di sensi e significati, di credenze e pratiche in base alle quali un gruppo di esseri umani comprende, regola e struttura le proprie vite individuali e collettive»3. È un sistema dinamico, mai statico, processuale: esiste nell’atto stesso di essere compreso e rielaborato; e non resta mai uguale.
Il termine ingloba al suo interno insiemi più o meno consapevolmente organizzati di emozioni, bisogni, ricordi, incontri, sentimenti, esistenze, letture, abilità, modalità di apprendimento, conoscenze.
La società italiana, così come altre società occidentali a sviluppo economico troppo rapido e a tecnologia avanzata, è per molti aspetti, al di là dei grandi flussi migratori da altri Paesi del mondo, una società pluriculturale. In essa accanto a fasce di individui che hanno familiarità con i linguaggi informatici, che sono in qualunque momento nella posizione di mettersi in contatto con i «serbatoi» culturali di tutto il mondo, come scrive Nicholas Negroponte4, convivono gruppi sociali transregionali ancora fermi a livelli poco più che alfabetizzati, sacche di individui emarginati portatori di culture alternative. I romanzi brevi di impostazione quasi sociologica raccolti sotto il titolo La bella estate di Cesare Pavese (Mondadori, 1965), il romanzo di taglio pedagogico Lingua di falce di Gavino Ledda (Feltrinelli, 1977), il romanzo breve, quasi un diario, di Giuseppe Culicchia Tutti giù per terra (Garzanti, 1994) pur essendo stati scritti in periodi politicamente, socialmente, economicamente molto diversi fra loro rappresentano testimonianze della difficoltà di intrecciare culture diverse appartenenti alla stessa realtà nazionale. Nel primo dei romanzi citati le culture collinari semplici e schiette dei giovani protagonisti originari di vari paesini delle Langhe si intrecciano con la cultura «emancipata», pretenziosa, legata all’apparenza e al profitto delle grandi città del Nord nelle quali essi vanno a vivere in cerca di lavoro e di una vita più varia. Nel secondo la cultura pastorale sarda, chiusa, legata agli eventi della sopravvivenza quotidiana del protagonista si intreccia con quella cittadina, aperta e molteplice che egli incontra quando arriva a frequentare la scuola superiore. Nel terzo, infine, il protagonista, nella fase della vita che coincide con la ricerca di un lavoro e di una collocazione nella società, nell’arco delle sue giornate ambientate in varie zone di Milano, viene a contatto con culture, linguaggi, modi di essere che niente hanno in comune fra di loro: gli sproloqui violenti, ripetitivi, anacronistici del padre; i discorsi condizionati dalla televisione della madre; il linguaggio colto dei compagni intellettuali di università; la disperazione inconsapevole degli amici e delle amiche punk e post-punk coi capelli tinti di verde e la mente rivolta alla droga e alla vita nelle discoteche; il mondo povero degli immigrati, con cui viene a contatto avendo trovato un lavoro presso l’ufficio immigrati del Comune; la cultura burocratica dei suoi capiufficio, ecc.
Questi tre libri/esempio raccontano casi reali di difficoltà e frustrazioni più o meno consapevolmente «interculturali». Le difficoltà nascono quando culture diverse come quelle appena dette (e perciò linguaggi, valori, comportamenti, stili) vengono a disporsi come su più binari paralleli, senza la possibilità di colmare lo stacco che c’è fra di loro, oppure senza avere gli strumenti per farlo. Seguendo la traccia indicata dal filosofo Pier Aldo Rovatti5 si può dire che l’operazione complessa che spetta a ciascuno di noi è quella di «abitare la distanza», cioè non tenere distanziate, separate, le culture che ci riguardano, ma «stare dentro la distanza, spostarsi verso e nella distanza». Le culture sono talmente tante e talmente diverse nei loro paradigmi e nelle loro espressioni che ciascuno di noi si trova sempre in una posizione doppia, in un gioco di fuori e dentro. La cultura per chiunque di noi è fatta di identità in cammino, tutti dovremmo imparare a muoverci sempre più verso un concetto di poliidentità, abbandonando un po’ per volta quello di monoidentità, rigida, immutabile.
Da quanto si è detto, se vogliamo dare una definizione all’espressione «educazione interculturale» la si può intendere in un significato condiviso6 come una maniera di concepire il ruolo dell’educazione in modo tale che più culture possano essere messe in relazione fra di loro, sia nel caso che gli individui soggetti del processo educativo abbiano radici etnico-culturali diverse sia nel caso che abbiano radici etnico-culturali uguali.
Lo scopo dell’educazione interculturale è di contribuire a far sì che individui diversi nelle loro radici linguistiche, religiose, etniche possano convivere senza conflitti (o con i minori conflitti possibili) all’interno della stessa società, in modo da salvaguardare il pluralismo delle culture.
L’educazione interculturale come disciplina trasversale a diverse altre (la storia, la geografia, la letteratura, l’educazione civica, ecc.) fonda i suoi metodi e i suoi contenuti nel vissuto delle culture di cui i soggetti stranieri (adulti, adolescenti o bambini) sono portatori, ne esalta le dimensioni materiali, culturali soggettive tenendo conto degli apporti che possono giungere da varie discipline. I presupposti dell’educazione interculturale non sono solo pedagogici ma anche di altra natura: sociologici, per esempio, antropologici, linguistici, psicologici, filosofici.
L’espressione «educazione interculturale» denota un campo ampio di studi, di interessi, di ricerche che costituisce un punto di raccordo di più discipline. Per immaginarne una rappresentazione visiva possiamo pensare ai frattali, le figure geometriche che si originano ripetendo infinite volte un piano nello spazio, che racchiudono a loro volta al loro interno altre porzioni di spazio.
Se si vogliono individuare confini ragionevoli al campo d’azione dell’educazione interculturale per conoscerlo e muoversi al suo interno si toccano inevitabilmente territori esterni alla scuola, che hanno con essa legami molto stretti.
Uno di questi è la sociologia, che studia la consistenza quantitativa dei fenomeni migratori. I nuovi disagi e le nuove marginalità, che si creano in ambiti urbani ed extraurbani per l’accumulo casuale, magmatico, informe di esistenze immigrate adulte e giovanili, sempre più numerose e spesso ignorate dall’impegno politico e legislativo, riguardano la sociologia con interconnessioni importanti con la psicologia e la pedagogia. Le difficoltà di adattamento, sfaccettate, difficili da riconoscere, mutevoli di adulti e bambini immigrati sui cui esiti futuri c’è da mettere più di una ipoteca abbracciano settori interconnessi di sociologia, educazione, politica.
Le differenze culturali fra gruppi etnici diversi che si trovano a convivere in una stessa nazione, in una medesima città, in un’unica scuola, come pure la difficoltà del mantenimento di una identità riconoscibile, pur nella consapevolezza del valore di «altre» identità alle quali riconoscere pari dignità interessano l’antropologia. Le questioni legate alla pluralità delle lingue che si vengono a creare in seguito alla convivenza di persone (e di allievi, dunque) che provengono dalle più lontane parti del pianeta riguardano la linguistica. Potremo continuare rammentando anche gli interessi specifici che hanno nel campo dell’educazione interculturale altre discipline: la psicologia, la filosofia, l’etnologia, la letteratura, la storia, le discipline giuridiche. Dire questo non significa sminuire la funzione e il valore della pedagogia. Semmai significa esaltarlo perché (forse per la prima volta) accade che sono altre discipline a farle da contorno, a spianare la strada per quelle che saranno le azioni specifiche della pedagogia e della didattica nella scuola, nell’extrascuola, nella formazione; in riferimento ai bambini, agli adolescenti e agli adulti.
1.1. Fattori personali-relazionali
In qualunque rapporto educativo si possono individuare alcuni elementi relazionali che si riferiscono ai tratti individuali degli educandi. È naturale che ciò avvenga anche in classi plurietniche. Le voci degli insegnanti, le loro espressioni, i modi di dire, dettati da canoni professionali, improntati qualche volta a formule ripetitive, dalle quali traspaiono anche tratti e modi patern...