Martedì 7 febbraio 1905, mattina presto
A Torino, quella mattina di febbraio il cielo era bianco di neve: cadeva a fiocchi grandi e copriva i tetti delle case, le strade, le rotaie dei tranvai. Il freddo pungeva, e Carlo camminava a passo svelto lungo la strada del Regio Parco battendo i piedi per terra. Era allegro, nonostante non si sentisse più le orecchie e le mani. E poi nella sua testa l’aria era rovente e umida: il clima della giungla, implacabile e disumano.
Le foreste, che circondavano la pagoda, erano in subbuglio. Le immense foglie dei banani cadevano lacerate come se una falce enorme piombasse di tratto in tratto su quelle superbe piante; gli alberi drago oscillavano sui loro tronchi esili ed elastici toccando il suolo. Solamente i tek, dal fusto enorme, dal legno incombustibile e duro come il ferro, sfidavano l’uragano senza che si potesse scorgere su quei colossi la menoma vibrazione.”a
D’accordo, quelli che spuntavano dai muri del cimitero erano soltanto cipressi, ma con un po’ di immaginazione lo stabilimento laggiù poteva somigliare a una pagoda. Del resto il grande Salgari, per cui Carlo nutriva una vera e propria venerazione, aveva scritto una pagina per ogni cosa: per il caldo afoso, le barche sul fiume, le bufere, e soprattutto l’amore. Per molto tempo la ragazza dei suoi sogni era stata Sai-Sing, la gemma del Fiume Rosso, la più bella e valorosa fanciulla del Tonchino, con i suoi occhi a mandorla capaci di accendersi improvvisamente d’una cupa fiamma. Poi era arrivata Margherita.
Di lei, poche settimane prima non sapeva nulla. L’aveva intravista nella grande cucina della signora Bruni Sperino, una delle migliori clienti della Premiata pasticceria fratelli Perosino, di cui Carlo era fattorino. Una figuretta esile, seduta su una sedia accanto alla finestra, intenta a ripiegare dei panni bianchi. Li carezzava delicatamente, stendendone piano piano le pieghe, e Carlo era rabbrividito.
«Margherita, lui è il fattorino dei Perosino!» aveva detto la governante della Sperino, un donnone sempre allegro e loquace di nome Tina.
Lei aveva alzato la testa e aveva accennato un sorriso, o forse Carlo l’aveva soltanto immaginato.
«Buongiorno, signorina» aveva mormorato Carlo.
«È la figlia di mia sorella. È arrivata dal paese qualche settimana fa, ma ancora non sa se le piace vivere a Torino… Troppa confusione! Dice che il rumore dei tranvai non la fa dormire.»
Per tutto il giorno, e anche dopo, aveva conservato negli occhi il gesto leggero di lei, e quel sorriso che forse non c’era.
Martedì 7 febbraio 1905, mattina
«Non stare a bamblinare, neh? Guarda che ti prendiamo il tempo!»
Carlo era ormai abituato a questi modi bruschi. Un po’ per scherzo e un po’ sul serio, i lavoranti dei fratelli Perosino non gli davano pace.
La governante della Sperino invece era sempre gentile con lui, o forse lo era con tutti i fattorini. Lo faceva entrare, gli permetteva di appoggiare la cesta a terra e di scaldarsi un pochino. Sapeva, la robusta signora Tina, che per i ragazzi che trottavano per le vie cittadine nei mesi invernali il freddo era il nemico da combattere: incamerare qualche scampolo di calore accanto a una stufa, magari bevendo qualcosa di tiepido, poteva cambiare la loro giornata.
Quella volta, si era a ridosso del Natale, la Bruni Sperino aveva ordinato alla Premiata pasticceria fratelli Perosino così tanta roba da meritare un viaggio interamente riservato a lei. Pacchetti di paste savoiarde, eporediesi al cacao, canestrelli, ventagli di pasta sfoglia, torcetti, amaretti, novaresi, anicini, baci di dama, torroni. E poi ben sei confezioni di diablutìn, cubetti di cioccolato amaro che erano il vanto dei Perosino e anche uno dei prodotti più costosi. Di acquisti Luisa Sperino ne faceva sempre tanti, con i nipotini che le invadevano la casa quasi tutti i pomeriggi, ma quegli ordini eccezionali avevano un altro scopo: la signora («un’anima pia!» diceva sempre la sua governante) come ogni anno avrebbe consegnato personalmente i pacchetti di delizie a famiglie bisognose della zona della Consolata. E, mentre gli scaldava un po’ di latte, Tina aveva raccontato a Carlo tante cose. «Una volta le dissi: “Non hanno niente da accompagnare al pane di crusca, e lei regala pasticcini?”. E sai che mi rispose? “Tina, è proprio per quello che gli porto il meglio! Perché anche chi non ha niente possiede un palato, e apprezzerà queste squisitezze ancor più di chi può mangiarle tutti i giorni.”» E poi Tina aveva aggiunto che ai pacchetti univa sempre una busta con un po’ di soldi, perché non era mica ingenua, la signora Sperino, e il bene lo faceva tutti i giorni, in mille modi. In gioventù aveva frequentato il salotto dell’anziana marchesa di Barolo, che alla sua morte aveva lasciato tutto ai poveri, e dire che Giulia Falletti con il suo patrimonio ci poteva comprare tutta Torino!
Mentre i piedi gli si scaldavano un po’, Carlo aveva bevuto a sorsi piccoli il suo tazzone di latte: la governante parlava e parlava, e la ragazza dei suoi sogni continuava a ignorarlo. Lui le aveva lanciato un paio di occhiate, ma con discrezione, perché intuiva che Tina non l’avrebbe gradito. Prima di afferrare la cesta vuota e tornare indietro, Carlo aveva salutato calorosamente, sperando che lei gli rispondesse (ancora non aveva sentito la sua voce!), ma non aveva emesso suono.
Era tornato pochi giorni dopo quella prima volta, però Margherita doveva essere impegnata in qualche altra stanza, perché in cucina non c’era.
«Come sta sua nipote?» aveva osato chiedere Carlo.
«Oh, bene, bene! Si è abituata al rumore dei tranvai, finalmente, e non è più così smaniosa di tornare a Santena! Noi veniamo da lì, sai? Mio nonno aveva della buona terra, e Cavour lo conosceva personalmente!»
Dopo un bel po’ di aneddoti edificanti sul conte di Cavour, Margherita non si era ancora vista e Carlo aveva dovuto riprendere a scarpinare.
Poi, era ormai metà gennaio, si erano parlati. Poche parole soltanto, alla presenza della zia, ma… che voce melodiosa! Lei aveva raccontato qualcosa su suo padre che non stava bene e di quanto fosse preoccupata, e lui aveva detto che la capiva, aveva perso il suo che era ancora bambino. E finalmente qualche giorno dopo, sulle scale, per la prima volta soli…
E ora era quasi certo di amarla, forse in modo irreale e romanzato ma intenso. Nelle sue lunghe marce quotidiane aveva tempo per ricamare i pensieri, e le storie di Salgari, che leggeva furiosamente, gli permettevano di issare Margherita sui ponti delle navi corsare, nei fastosi palazzi dei bramini, nelle stanze segrete dei rajah, di farla imprigionare per poi liberarla.
Così, quella mattina di febbraio, la speranza di una consegna in casa della Bruni Sperino, e di vedere Margherita, gli dava un’energia nuova ed esaltante.
Martedì 7 febbraio 1905, mattina
Mai sentito tanto freddo, e non era neanche a metà strada, e doveva accelerare: i titolari della Premiata pasticceria fratelli Perosino non tolleravano ritardi, e Carlo intendeva conservare il suo impiego. Perché lui era corsaro e avventuriero, ma era anche un pasticciere fin dentro le ossa. Le creme, i bignè, le cioccolate, i semi di vaniglia, i biscotti, erano un universo in cui finalmente era riuscito a entrare, seppure dalla porta di servizio. Se quei badòla dei suoi amici d’infanzia preferivano faticare in conceria, fra puzze e liquami, o nelle fonderie, in mezzo al fragore e al calore intollerabile dei metalli, facessero pure: lui, invece, avrebbe trascorso la vita in un posto accogliente, fra gli aromi più fini del mondo, e pazienza se per ora doveva trottare come un cavallo da tiro per le consegne a chi poteva permettersi un vassoio di paste e pure il fattorino che gliele portava a domicilio.
Prima o poi i padroni l’avrebbero fatto entrare in laboratorio, gli avrebbero consegnato un camice di cotone grigio chiaro e gli avrebbero messo in mano spatole e mestoli. Nel frattempo, Carlo osservava e segnava ogni cosa su un quaderno (ne aveva riempiti quattro o cinque, ormai).
Quando un bignè si sgonfiava o un pan di Spagna si ammaccava, veniva accantonato in un cesto grande e la sera il capo pasticciere distribuiva i malfatti ai dipendenti, dopo aver scelto il meglio per sé. Carlo era l’ultimo della fila: un semplice, semplicissimo fattorino, seppure con la scritta PREMIATA PASTICCERIA FRATELLI PEROSINO cucita sulla giacca di tela. Dunque, quando apriva il fazzoletto non capitava mai che il capo pasticciere glielo riempisse, ma qualcosa arrivava sempre: pezzi di anicini o biscotti garibaldi con l’uva passa, bignè, tocchi di pasta margherita, e un paio di volte perfino cioccolatini, pregiatissimi. Una parte la mangiava lungo la strada del ritorno, ma il grosso lo portava a casa. La mamma era contenta, suo fratello era felice, e lui era orgoglioso di sé.
Quella sarebbe stata una giornata pesante, perché la neve avrebbe reso le strade scivolose e difficili. E poi perché le ordinazioni sarebbero piovute senza sosta: le madamine, quando non potevano andare a passeggio, si sedevano in salotto a ricamare e chiacchierare. E che cosa c’è di meglio per ravvivare la conversazione di una tazza di cioccolata e un vassoio di pasticcini? Un pezzo di neve si staccò dal cornicione e gli sfiorò la manica. Pazienza, nella giungla della Malesia gli sarebbero caduti addosso enormi ragni velenosi e serpenti dal morso letale.
Sentì in lontananza battere le sette e mezza. Doveva sbrigarsi. Avrebbe trovato il laboratorio già in piena attività: i cannoli di pasta sfoglia ripieni di zabaione e le barchette di frolla con la confettura di ciliegie o con la frutta dovevano essere pronti per le otto e mezza e, poiché erano delicati e fragili, in media se ne spaccava uno su venti. Per questo Carlo non aveva toccato la fetta di pane scuro che la mamma gli aveva cacciato a forza in una tasca. Non voleva proprio capirlo: lui avrebbe fatto colazione con gli scarti della pasta sfoglia, burrosa e ancora tiepida, o con i ritagli della pasta frolla. Niente, non le entrava in testa.
Accidenti se il freddo mordeva! Lungo il muro del Cimitero Monumentale passò davanti a un uomo seduto per terra, coperto a malapena da un telo irrigidito dal gelo. Carlo rallentò per osservarlo: baffi e sopracciglia erano incrostati di ghiaccio. Si fermò a un paio di passi da lui.
«Stai male?» chiese battendo i piedi per terra.
L’uomo alzò la testa. «Male? Non più di te, fratello. Sono solo stanco.»
Che razza di risposta era quella?
«Allora buona giornata» rispose Carlo avviandosi.
Poi gli venne in mente la fetta di pane che gli gonfiava la tasca.
Tornò indietro e la porse all’uomo. «Tieni!»
L’altro str...