Una notte il califfo Hârûn al-Rashîd in persona decise, com’era sua abitudine, di compiere un giro di ispezione della sua amata Baghdad, in compagnia del suo fedele visir Ja‘far e del giustiziere di corte, Masrûr. Durante la loro passeggiata notturna attraverso i quartieri della città , i tre uomini, passando di fronte alla porta delle «vergini», sentirono provenire da una casa lì vicino grandi schiamazzi di musica e allegria. Suonava un tamburo di Mossul, un’arpa, un tamburello… e sopra tutto quel baccano si sentivano le risate di tre fanciulle.
«Ja‘far,» disse allora il califfo al suo ministro «mi piacerebbe molto riuscire a entrare in quella casa, per assistere allo spettacolo che vi si sta svolgendo…»
«Oh, emiro dei credenti,» rispose allora Ja‘far «si tratta probabilmente di ubriachi. Non sapendo chi siamo potrebbero farsi trascinare dall’ebrezza e mancarci di rispetto, potrebbero persino tentare di aggredirci…»
«Sei tu che manchi loro di rispetto dicendo così» replicò il califfo. «Desidero vedere con i miei occhi cosa succede lì dentro. Usa la tua astuzia per farci entrare, senza farci riconoscere dagli abitanti della casa.»
«Ascolto e obbedisco!» si affrettò a dire il ministro.
E così bussò alla porta…
Una giovane portiera venne ad aprirgli, la quale Ja‘far, dopo aver baciato la terra ai suoi piedi, apostrofò con un lungo discorso:
«Signora, siamo tre mercanti di Mossul. Siamo a Baghdad da dieci giorni e questa sera abbiamo messo le nostre merci al sicuro in uno dei caravanserragli della città , dato che un nostro collega di qui ci aveva invitato a una serata di intrattenimento scelto, dove si poteva trovare tutto il necessario in fatto di mangiare e di bere. Avevamo speso parecchio denaro per provvedere a tutto l’essenziale, senza riserve. La vita ci pareva allora meravigliosa, tanto che avevamo deciso di convocare un’orchestra e delle cantanti, e di riunire il resto dei nostri compagni… che non si sono fatti pregare per raggiungerci.
«Mal ce ne incolse… perché proprio sul più bello, mentre le mani battevano sui tamburelli e i violini di Mossul dimostravano finalmente di cosa fossero capaci, sì, giusto quando la nostra gioia raggiungeva il picco più alto, ecco che siamo stati sorpresi da una retata organizzata dal capo della polizia in persona! Immediatamente tutti i partecipanti sono scappati in tutte le direzioni. Alcuni sono stati presi mentre cercavano di saltare in strada dalle mura, altri – tra cui noi – sono riusciti a fuggire.
«Perciò siamo venuti a chiedere rifugio in casa vostra… Essendo forestieri in questa città , temiamo che la polizia ci prenda se ci aggiriamo di notte senza conoscere i quartieri; e in tal caso la nostra sorte sarebbe presto decisa, dato che siamo ancora avvolti dai fumi del vino. Anche se per caso ritrovassimo il caravanserraglio dove abbiamo lasciato le nostre merci, dovremmo aspettare per strada fino all’alba finché riaprano i cancelli. Per farla breve, passando di fronte a casa vostra, abbiamo udito la musica e le conversazioni di gente di buona compagnia…
«Se ci fate la carità di accoglierci tra i vostri invitati, sappiate che saremo ben disposti a pagare profumatamente la nostra quota di spese per la festa; inoltre, accogliendoci, contribuirete a ridarci la gioia… Ma anche se non volete accettare la nostra compagnia, vi prego di lasciarci almeno dormire fino al mattino nel vostro ingresso: avrete così il merito di averci tolto dagli impicci. Vedete: la nostra sorte è nelle vostre mani. Fate come volete, ma sappiate che non lasceremo più questa porta, anche nel caso che rifiutate di farci entrare».
La portiera ascoltò attentamente. Dopo aver osservato i nuovi venuti, i quali erano vestiti in modo molto decoroso, non le era parso che il loro aspetto smentisse la loro versione. Così andò a riferire la storie alle sue sorelle, le quali compatirono le disgrazie degli sfortunati mercanti e senza esitazione decisero di accoglierli.
Perciò, preceduti dalla graziosa portiera, i tre entrarono nella casa.
Quando il califfo, Ja‘far e Masrûr entrarono in una grande sala, tutta la compagnia, composta da tre fanciulle, tre qalandar e un facchino, si alzarono per salutarli, e le tre sorelle fecero gli onori di casa:
«Siate i benvenuti in questa casa, come vogliono le più antiche tradizioni, e possa esservi gradita la nostra accoglienza! Ma permetteteci di porre una condizione al vostro soggiorno tra noi».
«Quale condizione?» s’informarono i nuovi venuti.
«Avrete due occhi per vedere, ma non la lingua per parlare. Non dovrete chiedere spiegazioni su niente di ciò che vedrete. Non dovrete immischiarvi di ciò che non vi riguarda… e dovrete fare a meno di ascoltare certi discorsi che rischierebbero molto di non andarvi a genio.»
«Accettiamo la vostra condizione» fu la risposta. «Non siamo soliti parlare di cose che non ci riguardano.»
Le fanciulle furono molto soddisfatte della risposta, e quando tutti furono seduti ognuno tornò alla propria piacevole conversazione, al suo discorso amichevole e al riempire e svuotare i boccali…
Il califfo era particolarmente incuriosito dai tre dervisci qalandar, avendo notato che tutti e tre erano ciechi dell’occhio destro. E la cosa lo stupiva incredibilmente. Inoltre osservava anche le tre ragazze e la bellezza perfetta dei loro visi, che tuttavia non avrebbe potuto suscitare la sua ammirazione quanto l’eloquenza delle loro parole e la gentilezza dei loro gesti. La ricchezza dei loro ornamenti e lo splendore delle decorazioni della grande sala facevano un singolare contrasto con l’aspetto dei dervisci, che parevano tre vecchi sacchi riempiti di fango, ciascuno bizzarramente sorvegliato da un unico occhio. Ma il principe aveva un bel meravigliarsi dello spettacolo, poiché non poteva porre alcuna domanda in merito, legato com’era dal patto di silenzio che aveva promesso di rispettare ai padroni di casa.
I commensali passarono un po’ di tempo a scambiarsi i tipici discorsi di quelle riunioni. Poi i qalandar, per onorare la compagnia, ripresero i propri strumenti e suonarono alcuni brani meravigliosi. Quando furono tornati a sedere, i boccali ricominciarono a circolare più frequentemente, e in capo a un’ora tutti erano in preda all’ubriachezza del vino. Allora la padrona di casa si alzò, salutò i commensali e, presa per mano la governante, le disse:
«Vieni, sorella, andiamo! È ora di saldare il nostro debito».
«Sì, è il momento» approvarono le altre due sorelle.
A questo punto anche la gentile portiera si alzò e cominciò a sparecchiare. Raccolse i resti del banchetto, spazzò per terra, mise altri granelli d’incenso a bruciare e spostò i mobili dal centro della sala. Poi invitò i tre dervisci ad accomodarsi in una saletta attigua che comunicava con la sala grande tramite un arco. Infine fece sedere il califfo, Ja‘far e Masrûr sulla panca che stava di fronte a esso. Poi disse al facchino:
«Tu, alzati e vieni ad aiutarci col nostro lavoro. Che scansafatiche! Forza, sbrigati. Ormai sei di casa…».
Il facchino si strinse la cintura e chiese cosa avrebbe dovuto fare.
«Resta fermo lì e sii pronto» gli venne risposto.
Allora la governante mise uno sgabello al centro della sala, andò ad aprire un armadio e, rivolta al giovane, fece:
«Vieni ad aiutarmi!».
Quegli si affrettò ad avvicinarsi e l’aiutò a far uscire dall’armadio due levriere nere, ognuna con il collo cinto da diverse catene. Le condusse fino al centro della sala e allora la ragazza che faceva da padrona di casa si alzò dicendo:
«Sì, è venuto il momento di saldare il nostro debito!…».
Si rimboccò le maniche e tirò fuori un frustino di corda intrecciata.
«Fa’ avvicinare la prima delle due cagne» ordinò.
Il facchino agguantò la povera bestia da una delle catene che portava al collo e la portò di fronte alla padrona. La cagna gemeva e scuoteva la testa guardando la fanciulla, ma il facchino non mollò la presa. A questo punto la ragazza cominciò ad assestare violente frustate sui fianchi della bestia, che abbaiava e uggiolava invano, sempre tenuta a forza dal giovane, e continuò a fustigarla così finché non ebbe il braccio pesante per la stanchezza. Infine, gettando il frustino, prese la catena dalle mani del facchino, attirò a sé la levriera e scoppiò in singhiozzi disperati. Anche la bestia piangeva, e per un’ora intera nella sala non si udirono che i loro gemiti. Poi la fanciulla asciugò le lacrime della cagna con la sua sciarpa, la baciò sul capo e ordinò al facchino:
«Riportala al suo...