Il ritornello della fame
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Il ritornello della fame

  1. 204 pagine
  2. Italian
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Il ritornello della fame

Informazioni su questo libro

Nella Parigi sospesa e febbrile degli anni Trenta, Ethel Brun percorre l'età inquieta dell'adolescenza. Una famiglia di coloni, la sua, arrivata dall'isola di Mauritius per mescolarsi alla ricca borghesia della capitale, senza riuscire a dimenticare la terra a cui appartiene. A tredici anni incontra Xenia, figlia di esuli russi, e con lei sperimenta la vertigine del desiderio. A quindici sente risuonare con insistenza il nome di Hitler e stringe una silenziosa alleanza di sguardi con il timido Laurent, senza sapere che i loro destini si legheranno in modo indissolubile. Ma quando lo spettro dell'occupazione si allarga sulla Francia, Ethel conosce abissi ben più tormentosi della voracità della giovinezza: quelli della miseria e del bisogno, che le accenderanno in corpo la forza di sopravvivere in un mondo che va a fuoco sotto i suoi occhi. Con superba misura narrativa Le Clézio traccia l'indimenticabile ritratto della donna che sarà sua madre, per raccontarci l'ostinata fame di vita di un'intera generazione: il ritornello che accompagna l'esistenza di chi come Ethel, è stato travolto dalla Storia.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
Print ISBN
9788817146975
1

LA CASA COLOR MALVA

Ethel. Davanti all’entrata del parco. È sera. Una luce morbida, color perla. Sulla Senna forse brontola un temporale. Lei stringe forte la mano di Monsieur Soliman. Ha solo dieci anni, è ancora piccola, arriva appena alla vita del prozio. Davanti a loro, costruita fra gli alberi del Bois de Vincennes, c’è una specie di città, si intravedono torri, minareti, cupole. Nei viali lì attorno la folla si affretta. All’improvviso l’acquazzone che minacciava si scatena, e la pioggia calda avvolge la città nel vapore. Immediatamente si aprono centinaia di ombrelli. L’anziano signore ha dimenticato il suo. Quando le grosse gocce cominciano a cadere ha un attimo di esitazione. Ma Ethel lo tira per la mano, e insieme attraversano di corsa il viale verso la tettoia del cancello d’ingresso, passando tra carrozze e automobili. Ethel lo tira per la mano sinistra, e con la destra il prozio tiene il cappello nero in equilibrio sul cranio appuntito. Mentre corre, i suoi favoriti sussultano ritmicamente; la scena fa ridere Ethel e, vedendola ridere, ride anche lui, tanto che si fermano per ripararsi sotto un ippocastano.
È un luogo incantevole. Ethel non ha mai visto né sognato nulla di simile. Superato l’ingresso, arrivando da Porte de Picpus, hanno fiancheggiato l’edificio del museo, davanti al quale si accalca la folla. Monsieur Soliman non è interessato. «Di musei potrai vederne quanti ne vuoi» dice. Monsieur Soliman ha un’idea in testa. Per questo ha voluto venire qui con Ethel. Lei ha cercato di scoprirla e sono giorni che lo copre di domande. È una furbetta, dice il prozio. Riesce a sciogliere la lingua a chiunque. «Se è una sorpresa e te la dico, che sorpresa è?» Ethel è tornata alla carica. «Potresti almeno lasciarmi indovinare.» Il prozio è seduto nella sua poltrona, dopo cena, a fumare un sigaro. Ethel soffia sul fumo. «È qualcosa che si mangia? Che si beve? È un bel vestito?» Monsieur Soliman non cede. Fuma il suo sigaro e beve il suo cognac, come ogni sera. «Lo scoprirai domani.» Ma dopo, Ethel non riesce a dormire. Passa la notte a rigirarsi nel piccolo letto di ferro che cigola rumorosamente. Si addormenta soltanto all’alba, e fatica a svegliarsi alle dieci, quando sua madre viene a chiamarla per andare a pranzo dalle zie. Monsieur Soliman non è ancora arrivato. Eppure boulevard du Montparnasse non dista molto da rue du Cotentin. Un quarto d’ora di cammino, e Monsieur Soliman cammina di buon passo. Ben eretto, il cappello inchiodato sul cranio, il bastone con la punta d’argento che non tocca terra. Nonostante il trambusto della via, Ethel dice di sentirlo arrivare da lontano, il battere cadenzato dei tacchi in ferro degli stivali sul marciapiede. Dice che fa un rumore da cavallo. A lei piace paragonare Monsieur Soliman a un cavallo, e la cosa a lui non dispiace affatto. Qualche volta, nonostante i suoi ottant’anni, se la carica sulle spalle per andare a passeggio ai giardini dove, siccome è molto alto, lei riesce a toccare i rami bassi degli alberi.
La pioggia è cessata, camminano tenendosi per mano fino alla riva del lago. Sotto il cielo grigio il lago sembra enorme, curvo, simile a un grande acquitrino. Monsieur Soliman parla spesso dei laghi e delle paludi che ha visto in passato, in Africa, quando era medico militare nel Congo francese. Ethel ama farlo parlare. Monsieur Soliman racconta le sue storie solo a lei. Tutto ciò che la bambina conosce del mondo, lo conosce grazie a quei racconti. Sul lago scorge alcune anatre e un cigno un po’ giallastro che ha l’aria di annoiarsi. Passano davanti a un’isola su cui è stato costruito un tempietto greco. La folla si accalca per attraversare il ponte di legno e Monsieur Soliman le domanda – ma è chiaro che lo fa per scrupolo: «Vuoi…?». C’è troppa gente, e Ethel tira il prozio per la mano. «No, no, andiamo subito in India!» Costeggiano il lago risalendo il fiume di folla. La gente si scosta di fronte a quest’uomo alto col cappotto militare e il cappello antiquato, e a questa ragazzina bionda tutta in ghingheri, con il vestitino a punto smock e le polacchine. Ethel è fiera di stare al fianco di Monsieur Soliman. Ha l’impressione di essere in compagnia di un gigante, di un uomo capace di aprirsi una strada attraverso qualsiasi disordine del mondo.
La folla adesso si muove in senso contrario, verso la fine del lago. Al di sopra degli alberi, Ethel vede strane torri color cemento. Su un cartello, con difficoltà, legge la scritta: «Ang… kor…».
«Vat!» completa Monsieur Soliman. «Angkor Vat. È il nome di un tempio in Cambogia. Pare sia venuto bene, ma prima voglio farti vedere una cosa.» Ha un’idea in testa. E poi Monsieur Soliman non vuole camminare nel senso della folla. Diffida degli spostamenti collettivi. Del prozio Ethel ha spesso sentito dire: «È un eccentrico». Sua madre lo difende, magari perché è sua nipote. «È molto gentile.»
Monsieur Soliman l’ha cresciuta con rigida disciplina. Alla morte di suo padre è stato lui a farsene carico. Tuttavia lo vedeva di rado, era sempre lontano, all’altro capo del mondo. Lei gli vuole bene. E la passione che il grande vecchio ha per Ethel forse la commuove anche di più. È come se, al termine di un’esistenza solitaria, finalmente vedesse il suo cuore indurito aprirsi.
Un sentiero laterale si allontana dalla riva. Qui il passeggio è meno fitto. Un’insegna dice: EX COLONIE. Sotto ci sono i nomi. Ethel li legge lentamente:
ISOLA DELLA RIUNIONE
GUADALUPA
MARTINICA
SOMALIA
NUOVA CALEDONIA
GUYANA
INDIA FRANCESE
È qui che Monsieur Soliman vuole andare.
In una radura un po’ discosta dal lago. Alcune capanne col tetto di paglia, altre in muratura, con pilastri che imitano i tronchi di palma. Sembra un villaggio. Al centro, una sorta di piazza ricoperta di ghiaia dove sono state disposte delle sedie. Alcuni visitatori sono seduti, ci sono donne in abito lungo con l’ombrello ancora aperto che adesso, con il bel tempo, fa loro da parasole. I signori hanno steso dei fazzoletti sulle sedie perché assorbano le gocce di pioggia.
«Com’è bello!» non ha potuto fare a meno di esclamare Ethel davanti al padiglione della Martinica. Sul frontone della casa – anche quella tipo capanna – sono raffigurati a tutto tondo fiori e frutti esotici di ogni genere, ananas, papaie, banane, cespi di ibischi e di uccelli del paradiso.
«Sì, è molto bella… vuoi visitarla?»
Ma Monsieur Soliman glielo domanda come prima, con lo stesso tono esitante, inoltre la tiene per mano e rimane immobile. Lei capisce, e risponde: «Magari più tardi…».
«In ogni caso dentro non c’è niente.» Attraverso la porta Ethel intravede un’antillana con un turbante rosso che guarda seria verso l’esterno. Pensa che le piacerebbe avvicinarla, toccarle il vestito, parlarle, il suo viso ha un’espressione così triste. Ma al prozio non dice nulla. E lui la conduce all’altro capo della piazza, verso il padiglione dell’India francese.
La casa non è molto grande. Attira pochi visitatori. La gente passa senza fermarsi, in un movimento costante, abiti neri, cappelli neri e il leggero fruscio dei vestiti delle signore, i loro copricapi piumati, a veletta, ornati di frutti. Alcuni bambini rimasti indietro lanciano sguardi furtivi verso di loro, Ethel e Monsieur Soliman, che risalgono la corrente, la attraversano. Si dirigono verso i monumenti, le rocce, i templi, quelle grandi torri che fluttuano al di sopra degli alberi simili a carciofi.
Ethel non ha neanche domandato che cos’è quello laggiù. Lui deve aver biascicato una spiegazione: «È la copia del tempio di Angkor Vat, un giorno se vuoi ti porto a vedere quello vero». Monsieur Soliman non ama le copie, gli interessa soltanto la verità, nient’altro.
Si è fermato davanti alla casa. Il suo volto sanguigno esprime assoluta soddisfazione. Stringe la mano a Ethel senza una parola e insieme salgono gli scalini di legno che portano alla gradinata esterna. È una casa molto semplice, di legno chiaro, circondata da una veranda a colonne. Le finestre sono grandi, chiuse da grate di legno scuro. Sopra il tetto quasi piatto, di tegole verniciate, c’è una torretta merlata. Quando entrano nella casa è vuota. Al centro, un cortile interno, illuminato dalla torre, è immerso in una strana luce color malva. Su un lato del patio, una vasca circolare riflette il cielo. L’acqua è così calma che per un istante Ethel ha creduto fosse uno specchio. Si è fermata, col batticuore, e anche Monsieur Soliman rimane immobile, la testa un po’ inclinata all’indietro per guardare la cupola sopra il patio. Dentro nicchie di legno che formano un ottagono dei neon diffondono un colore tenue, irreale come fumo, un color ortensia, un color crepuscolo sul mare.
Qualcosa trema. Qualcosa di indefinito, un po’ magico. Sarà perché non c’è nessuno. È come se fosse questo il vero tempio, abbandonato in mezzo alla giungla, e a lei sembrasse di sentire lo strepito fra gli alberi, i versi acuti e rauchi, i passi felpati delle belve nel sottobosco. Ethel rabbrividisce e si stringe al prozio.
Monsieur Soliman non si muove. È immobile al centro del patio, sotto la volta di luce, il chiarore elettrico gli tinge il volto di malva e i suoi favoriti sono due fiamme azzurre. Adesso Ethel l’ha capito: è l’emozione del prozio a farla rabbrividire. Se un uomo grande e grosso come lui rimane immobile, vuol dire che in quella casa c’è un segreto, un segreto meraviglioso e pericoloso e fragile, e che al minimo movimento tutto finirà.
Ed ecco che il prozio parla come se tutto fosse suo.
«Qui metterò il mio scrittoio, qui le due librerie… Qua la spinetta, e là in fondo le statue africane di legno nero, con quest’illuminazione saranno perfette, e finalmente potrò srotolare il mio grande tappeto berbero…»
Lei non capisce bene. Lo segue mentre passa da una stanza all’altra, con una sorta di impazienza che non conosceva in lui. Alla fine Monsieur Soliman torna nel patio e si siede sulla gradinata, a guardare la vasca specchio del cielo, ed è come se insieme contemplassero un tramonto sulla laguna, lontano, da qualche parte all’altro capo del mondo, in India, nell’isola di Mauritius, il paese della sua infanzia.
Sembra un sogno. Quando ci pensa, Ethel si sente pervadere dal color malva, dal disco scintillante della vasca che riflette il cielo. Da un fumo che proviene da un tempo molto lontano, antichissimo. Ora tutto è scomparso. Quelli che restano non sono ricordi, come se lei non fosse stata bambina. L’Esposizione coloniale. Di quel giorno, quando camminava sui viali di ghiaia con Monsieur Soliman, ha conservato poco o nulla.
«Qui metterò la mia vecchia sedia a dondolo, sarà come sotto la veranda, e quando pioverà guarderò le gocce pizzicare l’acqua della vasca. Piove molto a Parigi… E poi alleverò dei rospi, giusto per sentirli annunciare la pioggia…»
«Che cosa mangiano i rospi?»
«Moscerini, farfalle notturne, tarme. Ci sono molte tarme a Parigi…»
«E ci vorranno delle piante, piante piatte, che fanno fiori viola.»
«Sì, dei fiori di loto. O piuttosto delle ninfee, il loto in inverno morirebbe. Però non nella vasca tonda. Per i rospi ne avrò un’altra, in fondo al giardino. Questa, la vasca specchio, voglio che resti liscia come un vassoio perché il cielo vi si guardi.»
L’idea fissa di Monsieur Soliman, soltanto Ethel poteva capirla. Dopo aver visto i disegni dell’Esposizione, aveva subito scelto il padiglione dell’India, e l’aveva comprato. Aveva liquidato i progetti del nipote. Sul suo terreno niente costruzioni, guai a toccare anche un solo albero. Aveva fatto piantare paulonie, cocculus laurifolius, allori indiani. Tutto era pronto ad accogliere la sua follia.
«Io non ho la vocazione del tenutario.»
Per contrastare i progetti di Alexandre aveva nominato Ethel sua erede. Naturalmente lei non ne sapeva nulla. O forse gliel’ha detto, un giorno. Era poco tempo dopo la visita all’Esposizione. I pezzi del padiglione dell’India francese cominciavano ad accumularsi nel giardino di rue de l’Armorique. Per proteggerli dalla pioggia, Monsieur Soliman li ha coperti con un brutto telone nero. Poi ha condotto Ethel fino alla staccionata che nascondeva il giardino. Ha aperto la porta e lei ha visto quelle cataste nere e luccicanti in fondo al terreno, ed è rimasta di stucco.
«Sai che cos’è?» ha domandato Monsieur Soliman malizioso.
«È la Casa color malva.»
Lui l’ha guardata con ammirazione.
«Be’, hai indovinato.» E ha aggiunto: «La Casa color malva, sarà questo il suo nome, sei stata tu a trovarlo». Le stringeva la mano e a lei pareva già di vedere il patio, i portici e la vasca specchio che rifletteva il cielo grigio. «Sarà tua. Soltanto tua.»
Ma non ne ha più parlato. Monsieur Soliman era fatto così: diceva una cosa una volta e non la ripeteva mai.
Monsieur Soliman aveva aspettato a lungo. Forse troppo a lungo. Forse preferiva sognare quello che sarebbe stato piuttosto che realizzarlo. I pezzi della Casa color malva erano ancora sotto il telone impermeabile in fondo al giardino, e i rovi cominciavano a invaderli. Però, almeno una volta al mese, portava religiosamente Ethel su quel lotto di terra. D’inverno gli alberi intorno erano spogli, ma quelli fatti piantare da lui resistevano. I cocculus e gli allori indiani formavano dei pennacchi di foglie verde scuro che più di un giardino di città ricordavano l’entrata di una foresta. Il terreno vicino apparteneva a un certo M. Conard, e non è uno scherzo.a Era uno dei più vecchi abitanti del quartiere, figlio dell’uomo che aveva costruito la via, nel 1887. Si credeva investito di chissà quale autorità, e un giorno se l’è presa con Monsieur Soliman: «Ho constatato che per colpa del fogliame dei suoi alberi esotici, i miei ciliegi, tra mezzogiorno e le tre, sono in ombra».
Il prozio di Ethel gli aveva dato una risposta folgorante: «E io, signore, le dico che me ne frego». Era la prima volta che Ethel sentiva quell’espressione, riportata da suo padre tra le risa. Che lo zio potesse avere un linguaggio da carrettiere o, meglio, da soldato (così aveva commentato Alexandre) la estasiava. Allo stesso tempo sapeva che non avrebbe potuto ripetere quelle parole, soprattutto davanti a colui che le aveva pronunciate. Ma andava bene così.
I lavori della Casa color malva non erano neanche iniziati quando Monsieur Soliman si è ammalato. L’ultima volta che Ethel l’ha accompagnato sul suo terreno, ha visto una cosa strana. L’incredibile vegetazione che aveva invaso il giardino era stata falciata via, e il telone impermeabile liberato dai rovi. Sulla porta di legno che dava sulla strada, un cartello attestava il permesso di costruire. E precisava, Ethel non l’ha dimenticato: «Costruzione di casa in legno a u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il ritornello della fame
  4. So che cos’è la fame
  5. 1. LA CASA COLOR MALVA
  6. 11. LA CADUTA
  7. 111. IL SILENZIO
  8. Copyright