Sento il dardo della pistola spara tranquillanti sibilarmi accanto all’orecchio, e mi volto di scatto in tempo per vedere un uomo stempiato sulla cinquantina, con una camicia bianca strappata e la cravatta rossa, che barcolla, batte le palpebre velocissimo e stramazza al suolo.
Tutti ammutoliscono, impietriti, gli sguardi che guizzano tra il Ghignante stordito e l’Alt.
Con una mano tremante, Tyco sposta la canna della pistola e stavolta la punta decisamente contro di me.
Deve averla raccolta dal pavimento fuori dalla mia cella, dove l’avevo fatta cadere. Come ho fatto a non accorgermi che non c’era più?
«Perché mi hai liberato? Lo sai che ti voglio morto. Perché l’hai fatto?»
Apro la bocca per parlare, ma non mi vengono le parole. Non so nemmeno io perché l’ho salvato, quando l’unica cosa logica da fare era lasciarlo morire in prigione.
«Non lo so» rispondo.
«Hai ucciso mio fratello» ringhia con voce tremula. «L’hai spinto giù dal tetto del Verticale Black Road.»
«Tyco, ascoltami. Sai che cosa ha scoperto Happy quando ha effettuato il test per il calcolo delle probabilità ? Ha detto che c’era un quattro per cento di probabilità che avessi commesso quel crimine.»
«Sono solo parole» urla, «parole che escono dalla bocca di un bugiardo!»
«È la verità . L’unico motivo per cui mi hanno messo in prigione è perché ho confessato.»
«Stronzate!» grida lui, le lacrime che cominciano a rigargli le guance. «Ho visto la registrazione della telecamera panottica di mio fratello. Ti ho visto spingerlo.»
«Hai visto qualcuno con una maschera spingerlo.»
«Chi era allora? Perché ti saresti addossato la colpa di un omicidio commesso da qualcun altro?»
«Perché è stata Molly, mia sorella» rivelo, tornando con la memoria a quei momenti cruciali sul tetto. Il silenzio dopo che il ragazzo era precipitato, interrotto solo dal vento che fischiava incanalandosi nello spazio tra il gigantesco collettore d’acqua piovana e la bizzarra selva di tubi che lo collegava alle migliaia di appartamenti sotto di noi. Lei si era girata lentamente, togliendosi la maschera da strega di Halloween, e mi fissava con le lacrime agli occhi. In quel momento decisi che non era stata lei a spingerlo, ero stato io. Io lo avevo ucciso.
«Perché dovrei crederti?» mi incalza Tyco. «Perché non me l’hai detto anni fa?»
«Non sapevo chi fossi. Te l’ho chiesto migliaia di volte e tu mi hai sempre risposto soltanto che mi avresti ucciso. Immaginavo che fossi il fratello del ragazzo, o magari un suo amico, ma non ne avevo la certezza. Ma se anche l’avessi saputo, che cosa potevo fare? Urlarti la verità dall’altro capo del cortile? Pensi che non fossimo spiati? Che non ci fossero microfoni piazzati in ogni centimetro quadrato di quel buco? Sarebbe stata la condanna a morte per mia sorella.»
Tyco fa un passo avanti, la canna della pistola che gli trema in mano, ma è ancora puntata verso di me. È in evidente conflitto con le sue emozioni. Lancia un grido di frustrazione, abbassa l’arma, me la punta di nuovo in faccia. «Perché tua sorella l’ha ucciso?» La sua voce è calma adesso, anche se le lacrime continuano a scorrergli sul viso. Per la prima volta provo per lui qualcosa che non sia odio o paura.
«È stato un incidente» rispondo. «Non voglio certo dirti che noi eravamo i buoni. Avevamo intenzione di rapinarlo. Lui spacciava Ebb ai Regolari dei Verticali, era nella tua stessa banda. Sapevamo che aveva parecchi coin, volevamo costringerlo a trasferire tutto quello che aveva su un conto criptato. Ci servivano quei soldi. Nostra madre stava morendo di una malattia misteriosa e…» Mi manca la voce, poi riprendo. «Mi dispiace per tuo fratello, Tyco. Vorrei tanto che non fosse mai successo, e non solo perché è stato il motivo per cui sono finito nel Loop, ma perché una persona ha perso la vita. Ti giuro, non te lo sto dicendo solo perché vuoi uccidermi, ma perché è la verità . Ogni giorno mi rammarico di quanto è successo.»
Tyco tira su col naso, si asciuga le lacrime e abbassa la pistola. Malachai gli si avvicina e gli sfila l’arma di mano.
«Questo non significa che siamo amici» dice Tyco. «Solo che non ti ucciderò.»
Io annuisco.
«Oh, mio dio.» La voce di Pander, per una volta, è sommessa e atterrita.
Ci giriamo tutti nella direzione del suo sguardo e gli altri vedono quello che io ho già visto: la città dove siamo cresciuti sta bruciando, gli edifici crollano. Persino il City Due, il colossale condominio di lusso largo un chilometro, costruito su palafitte di grafene, è avvolto dalle fiamme come il resto.
«È orribile» mormora Akimi.
«Allora c’è davvero la guerra?» chiede Pod.
«C’è davvero sì, porca puttana» gli risponde Igby.
«Muoviamoci» ci esorta Malachai, superando il gruppo per scendere sul binario.
Kina fa per prendere la mano di Blue, ma lui la tira indietro di scatto. «Non sono un bambino.»
Quando mi passa davanti, Blue mi scocca un’occhiataccia, poi salta giù e si incammina.
Pander appoggia una mano sulla banchina di cemento e con un agile volteggio atterra fra le rotaie. «Almeno non è più un fifone lagnoso» mi dice, e segue Malachai.
Pod e Igby si calano con prudenza sul binario, poi aiutano Akimi a scendere. Poi tocca a me e Kina, con Tyco che chiude la fila.
«Ascoltate» dico ad alta voce, cercando di attirare l’attenzione del gruppo. «So che vogliamo tutti trovare le nostre famiglie, che è la nostra priorità , ma dobbiamo anche pensare a come arrivare all’Istituto, dove ci incontreremo fra due giorni.»
«Non ti preoccupare» mi risponde Malachai dalla testa della fila. «Andiamo nella direzione giusta.»
«Come facciamo a sapere da che parte è l’Istituto?» chiede Akimi, stringendo i denti quando il piede ferito sfiora il terreno. Guarda Malachai, che a quanto pare si è autonominato leader del gruppo.
«Perché abitavo all’altro capo della città » risponde il Naturale, indicando l’orizzonte. «Verticale Gallow Hill. Il Treno Nero passava di tanto in tanto, e siccome viene usato solo per il trasporto di criminali e rifornimenti, e non era diretto a sud verso il Loop, vuol dire che era diretto all’Istituto. Quindi l’Istituto si trova a nord.»
Pod e Igby annuiscono, colpiti dal ragionamento che non fa una piega. Mi trafigge una punta di gelosia. Mi domando perché, e mi rendo conto che il motivo è che gli altri considerano Malachai il leader, quando sono stato io il primo a evadere, a salvare la vita di tutti quanti, ad aver attraversato la galleria dei ratti per ben due volte da solo.
Sei ridicolo, mi dico, non ti va nemmeno di essere il capo.
Mi sforzo di accettarlo, ma non posso fingere che non mi dia fastidio.
Camminiamo in silenzio, alzando lo sguardo verso la città di quando in quando; dopo un po’ Pander comincia a cantare, solo che stavolta non trasmette la malinconia a cui eravamo abituati nel Loop. Sembra più un canto di speranza. Forse siamo le uniche persone capaci di nutrire una scintilla di speranza in una situazione del genere, forse il fatto che ci eravamo rassegnati a un triste conto alla rovescia verso una morte atroce ci ha dotati di una prospettiva diversa sulla fine del mondo. Devo ammettere che camminare senza muri o porte sbarrate a ostacolarmi il passo è una sensazione inebriante.
Kina accelera e si affianca a Malachai in testa al gruppo. Avverto di nuovo quella fitta di gelosia, più acuta stavolta. La respingo, mi dico che non sono affezionato a Kina in quel senso, eppure c’è qualcosa nel modo in cui ride per qualcosa che lui ha appena detto che mi impedisce di credere alle mie stesse parole.
Ma cresci una buona volta, idiota!, mi rimprovero.
Camminiamo per un’altra ora, oltrepassiamo il comprensorio di ville per le vacanze e attraversiamo le fattorie aeree alte cento metri, dove ci fermiamo a raccogliere qualche carota da una delle grandi vasche di coltura. Quando c’è la corrente, le ruote panoramiche delle fattorie girano lentissime, in maniera quasi impercettibile, fornendo prodotti agricoli all’intera città senza occupare lo spazio delle coltivazioni di un tempo. Ricordo che io e mia sorella un’estate ci infilammo in una vasca di patate, malgrado i notiziari riportassero che ogni anno parecchi bambini cadevano e si sfracellavano al suolo. Ci sdraiammo sulla schiena mentre l’enorme vasca ci trasportava adagio verso il cielo per poi tornare giù. I droni della sorveglianza ci colsero in flagrante, ci scansionarono e trasmisero le informazioni alla polizia. Ci costrinsero a lavorare per quindici giorni alla fattoria, fianco a fianco con i robot, per pagare l’ammenda. Però ne era valsa la pena e, qualche mese dopo, lo rifacemmo.
Proseguiamo, accompagnati dall’odore acre degli incendi e delle sostanze chimiche che a mano a mano si intensifica, dagli schianti delle strutture che cedono e dal ruggito delle fiamme sempre più assordante. La tensione tra di noi è palpabile, e cresce il timore di esserci sbagliati sulle vaccinazioni: forse da un momento all’altro cominceremo a ghignare e a battere le ciglia velocissimi, e ci azzanneremo a vicenda come cani rabbiosi.
Sono un paio d’ore che ho i crampi alla mano che impugna il detonatore, i muscoli si contraggono e fremono per essere costretti nella stessa posizione da troppo tempo. Cerco di non pensarci, ma più mi impongo di ignorare il dolore, più lo avverto. Non sono sicuro di quanto riuscirò ancora a resistere.
D’un tratto, come se mi avesse letto nel pensiero, Kina rallenta e mi si affianca.
«Come va la mano?»
«Bene» mento con un’alzata di spalle.
Kina ride e mi prende la mano tra le sue.
«Attenta» le dico, e lei alza gli occhi al cielo.
Mi sfila il detonatore e mi sorride. «Attentissima, te lo prometto.»
E in quel preciso istante si sente un suono provenire dal mio petto. Un lungo bip seguito da tre più brevi. Mi prende un colpo. Kina spalanca gli occhi.
«Non l’ho mollato, Luka. Non ho…»
«Tutto okay» mormoro, riprendendo fiato. «Non so che cosa sia successo, ma sto bene.»
Kina esala un lungo sospiro. «Mi sono spaventata a morte!»
«Tutto okay» ripeto. «Sto bene.»
Ci scappa una risarella nervosa e cerchiamo di non pensare all’anomalia. Riprendiamo a camminare e ben presto raggiungiamo la periferia.
Lo scenario si apre sull’area solcata dai sentieri in terra battuta scavati dall’uomo, dove i senz...