21, lunedì
Il corridoio è lungo, stretto, mal illuminato da finestroni che si affacciano sul cemento e da luci al neon gelide e mai contemporaneamente funzionanti. In genere ce n’è una intermittente. Predomina una raffinata nota cromatica grigia, che spazia dal fumo di Londra al pelo di topo, passando per il bianco sporco delle pareti su cui spiccano scritte poco edificanti malamente cancellate. Il pavimento cigola sotto i tacchi come quel triste linoleum che si usa negli ospedali, negli uffici pubblici o nei posti dove vai soltanto se sei obbligato. E, visto che l’obbligo scolastico vale per gli studenti ma più ancora per gli insegnanti, io qui sono obbligata a venirci. Perché questa è una scuola e le scuole non sono quasi mai belle, architettonicamente parlando. Sono edifici che non necessariamente sono sorti con lo scopo di ospitare tornate di venti adolescenti per aula; sono stati adattati, hanno visto virtuosi del cartongesso costruire pareti, demolire pareti, ricostruire pareti. Ci sono controsoffittature con le penne infilzate che sono lì dai tempi di Carlo Magno, armadi di metallo che si aprono con una pacca decisa, cassettiere di legno senza serratura dove i fogli sparsi di un professore andato in pensione quando era ancora in vigore la riforma Gentile ingialliscono e si impolverano senza che nessuno osi spostarli.
Percorro il tortuoso cammino che mi porterà nella mia aula, ignara di quali libri siano in adozione, ignara di quale sia il programma svolto da chi mi ha preceduta, ignara del numero e del nome degli alunni, tanto “sul registro elettronico non hanno ancora caricato i dati, vai in classe tranquilla che c’è il cartaceo”. Non so cosa mi ritroverò a dire, non so cosa deciderò di leggere o commentare o su quale argomento dovrò dibattere.
È la scuola e funziona così. A settembre ti catapultano da qualche parte, tu ci vai e vedi che c’è da fare. Preparare studenti per un esame, insegnare da capo l’ortografia, sedare una rissa, portarli in giro sperando di non fare troppe brutte figure, stendere scalette per centinaia di temi, correggere tesine. Non so se ci sia un altro lavoro in cui di colpo, da un giorno all’altro, si è chiamati a fare qualcosa senza preavviso, un anno una terza media, un anno una quinta superiore, un giorno spieghi l’Illuminismo, il giorno dopo la subordinata temporale. Giusto al pronto soccorso, dove oggi ti capita il tizio che ha fatto l’incidente d’auto e domani il ragazzino che si è infilato la Replay nell’orecchio. Non che il secondo caso non capiti anche a scuola, ma almeno non gliela dobbiamo rimuovere noi.
Comunque procedo spedita verso l’aula che mi è stata assegnata. “Vai tranquilla, le aule sono numerate.” Come no. L’aula 10, tanto per cominciare, è stata modificata in aula 1000. E sopra hanno scritto: OSTERIA NUMERO. Io devo raggiungere l’aula 27, che dovrebbe ragionevolmente stare tra la 26 e la 28 solo che, apprendo da un gentile studente a passeggio nei corridoi, la 26 è a piano terra, mentre la 27 è al primo piano e la 28 al piano terzo. Se le abbiano numerate attaccando le targhette a caso o ci sia un preciso ordine cabalistico non lo so, ma prima o poi intendo scoprirlo. Certo, se prima trovo l’aula 27.
Ho tempo: la campana suona tra un quarto d’ora, passo davanti alle porte delle classi e sbircio la mia futura utenza. I ragazzi delle superiori. Dopo anni passati a pascolare i piccoletti delle medie, eccomi alle prese con gli impressionanti giovani d’oggi, cresciuti a omogeneizzati dopanti: non mi spiego altrimenti come possano essere tutti così alti. Ne ho visto uno, nell’atrio, con il torace delle dimensioni del mio armadio a muro, alto più o meno come un giocatore professionista di pallacanestro. Vestito più o meno uguale, tra l’altro, e no, non credo che oggi ci sia già qualche torneo sportivo scolastico. Spero tantissimo che non sia nelle mie classi, perché sarebbe capace di contare tutti i miei capelli grigi anche se io indossassi dei tacchi da tredici centimetri.
Curiosa, continuo a sbirciare nelle aule con la porta aperta. So che, se la porta è aperta, vuol dire che l’insegnante è fiducioso del clima di disciplina che ha creato in classe, oppure che fa così caldo che non gliene importa nulla. Vedo felpe e cappellini, volti infossati col mento premuto sul petto, non per pregare ma verosimilmente per buttare l’occhio al cellulare sotto il banco. Vedo i fili delle cuffiette spuntare qua e là. Sento il familiare monologo di qualche collega di lettere che sta introducendo la storia medievale, che sta commentando le ultime riforme della maturità. Altre aule hanno la porta chiusa e le porte antipanico a doppia mandata a stento contengono le urla che arrivano attutite dall’interno. Dante qua avrebbe scritto almeno altri centocinquanta canti dell’Inferno, traendone gioiosamente ispirazione per una serie TV in sei stagioni.
Arrivo a destinazione. Aula 27. Porta chiusa. Dentro, un silenzio irreale. Bene, ottimo, sarà una classe disciplinata e già domata, l’ideale per familiarizzare con questo incarico in una scuola nuova dove non conosco nessuno e dove non mi è neanche ben chiaro cosa studino i ragazzi, oltre alle solite cose. Meccanica, idraulica, elettronica… ho letto distrattamente il volantino di presentazione dell’istituto, cercando di non chiedermi troppo come far appassionare all’endecasillabo sciolto uno che passa il tempo dilettandosi con tubi e turbine. Quando la campana suona, mi sembrano le trombe del giudizio. Poi mi rendo conto che la campanella si trovava esattamente sopra di me, nella porzione di corridoio tra la porta dell’aula e l’estintore che stavo per brandire come un’arma. Aspetto dieci secondi. Non accade nulla. La porta resta chiusa. Inspiro. Mi passano davanti agli occhi tutte le dispense di pedagogia e di didattica, la teoria delle intelligenze multiple, la dottrina cognitivista, il caro vecchio comportamentismo, qualche cenno di montessoriana memoria. Vado, entro, è ora, mi presento, e che ci vuole. Il primo giorno di scuola non si può spiegare, è come andare in scena.
Spingo la maniglia antipanico pronta a tutto e mi trovo di colpo da sola. L’aula è vuota. Esco sulla porta, controllo il foglio scritto a pennarello. AULA 27. Controllo il foglietto che mi hanno dato all’ingresso: “Orario prima settimana – provvisorio”. Sono nell’ora giusta, nell’aula giusta. Decido di affacciarmi sul corridoio per chiedere lumi a qualcuno, quando un’orda di bufali mi travolge. Una via di mezzo tra la carica dei trecento Lacedemoni impegnati a sgominare i Persiani e una mandria di cinghiali in fuga dalla sagra dello stufato. Non mi vedono e se mi vedono pazienza, sono un apostrofo rosa tra l’ingresso e il loro banco.
Sguscio verso la cattedra, mi ci seggo sopra guadagnando qualche centimetro in altezza, aspetto che si siano placati.
Non si placano.
Questa è una tattica piuttosto obsoleta: stare in silenzio finché non si ottiene silenzio. Ho colleghi che sono ancora così, in silenzio con le mani giunte sulla cattedra, dal 1996, in attesa che la platea davanti a loro si plachi. La pensione li coglierà mummificati.
Dopo alcuni eterni e frastornanti minuti tutti hanno raggiunto il loro banco, ci hanno rovesciato sopra il contenuto del loro zaino, composto perlopiù da cibarie, si sono dati qualche virile manata e hanno iniziato a guardarsi attorno, sempre continuando a parlare come fossero al mercato ittico di zona.
A questo punto, nei film sulla scuola, l’insegnante fa qualcosa di epico. Chessò, strappa una pagina dal libro, sale sulla cattedra, si esibisce in dimostrazioni di arti marziali, qualcosa che cattura per sempre l’interesse della classe, attira gli sguardi su di sé e conduce anche i più ribelli a una condotta esemplare. Io apro la borsa ed estraggo il libro di letteratura che mi ha prestato una collega mezz’ora fa. Non intendo strapparne i fogli, sia chiaro. Sono settecentocinquanta pagine. Quattro chili di peso. Lo lascio cadere con un potente tonfo sordo sul banco vuoto davanti a me e nemmeno sento il suono della caduta. Di urlare non se ne parla, troppa fatica.
Allora attuo una sopraffina strategia psicologica.
Scendo dalla cattedra ed esco. Conto fino a tre. Busso con vigore.
Da dentro abboccano all’amo e dicono: «Avanti!» in coro. Mi fanno tenerezza quando si fanno fregare con niente.
Rientro e sfrutto quel microsecondo di silenzio interdetto nel vedersi di nuovo davanti una che già stava in aula per augurare buongiorno e tentare una presentazione.
«Lei è Quella Nuova?»
Immagino che “Quella Nuova” sarà il mio nome per un po’, qui. La scuola è l’unico posto dove, indipendentemente dall’età, quando arrivi e prendi una classe in carico, a settembre sei automaticamente “Quella Nuova”.
Decido che l’unica per sfangarla, stamattina, è buttarla un po’ in caciara e cercare di capire chi ho davanti. Non è il caso di esordire con: “Il programma prevede”, “Le verifiche saranno” o, tantomeno: “Vediamo cosa vi ricordate di”. Punto agli obiettivi minimi: arrivare viva alla fine dell’ora e capire chi sono. Loro.
Sono tanti, sono ventotto, o forse trenta. Se stessero fermi li conterei più facilmente. Il registro cartaceo è rimasto nel laboratorio in cui erano prima.
«Scusami, giovane Skywalker» chiedo a un ragazzone con il cappuccio della felpa tirato su, «mi andresti a cercare questo fantomatico registro cartaceo, così che io possa fare almeno l’appello ed evitare di chiamarvi “Ehitù” e “Cosolà”?»
Il giovane cavaliere jedi mi guarda con l’occhio bovino di chi non ha capito, bofonchia: «Che sbatti!» e si alza controvoglia. Tornerà dopo venti minuti, quando io ormai mi sarò fatta dire i nomi di tutti esercitandomi a pronunciarli correttamente, nomi italici e nomi esotici, pienamente consapevole che ci metterò due mesi ad abbinarli alle facce. Uno, comunque, insiste per essere chiamato “Ehitù”. Dice che gli piace.
Fatte le presentazioni, mi metto in modalità damigella in pericolo. Sono tanti ragazzoni e dovrebbe funzionare: «Visto che sono Quella Nuova, mi date due dritte sulla scuola? Mi spiegate gli indirizzi, le materie di laboratorio che seguite? Mi aiutate a capire chi sono i colleghi?». Ah, se c’è una cosa che piace ai ragazzi è sapere le cose. Il problema è che a scuola non chiediamo mai niente di quello che sanno e insistiamo a chiedere loro cose che non sanno.
Sono un fiume in piena, devo arginarli. Parlano senza sosta, affastellandomi la testa di nomi, aneddoti, leggende metropolitane. Mi forniscono un dettagliato elenco dei professori della loro classe, con tanto di caratteristiche fisiche.
«Di mate c’è ancora quella dell’anno scorso?» s’informa un tipo con il cappellino al rovescio che per tutta l’ora non abbandona la sua postazione sopra il termosifone.
«Ma va’, era una supplente, ma solo perché il prof era in malattia. Peccato che è tornato.»
«E quello là troppo fuori che avevamo di laboratorio? Prof, quello era più fumato di noi. Aspe’, glielo facciamo vedere…» E mi mostrano sul telefono la foto profilo di un ragazzone poco più vecchio di loro che fa il segno della vittoria con una mano e regge quello che mi sembra un mojito nell’altra. «Comunque, prof, questo non c’è più, ha lasciato lo scorso anno. Un giorno ha sclerato così tanto che ha messo la nota anche agli assenti. Non ce la faceva.»
Io spero di farcela. Intanto inizio a distinguere qualche fisionomia dalla massa informe. Il gruppetto che sta in fondo e non si unisce alle chiacchiere alla cattedra, il solitario immerso nella sua felpa e nella sua musica, il caciarone che vuol rubare la scena a tutti per forza, Ehitù che ormai è il mio braccio destro e probabilmente mi darà anche delle dispense alla fine dell’ora. Mi raccontano che nessuno vuole portarli mai in gita, «Prof, lei ci porta in gita?». Mi raccontano che hanno un sacco di note, «Prof, io l’anno scorso tredici, solo nel secondo quadrimestre» dice quello seduto sul termosifone. «Bravo, vantati, anche» gli risponde uno che in mezzo a tutte quelle felpone sembra fuori posto, con il suo maglioncino scollato a V e i pantaloni senza strappi. Mi raccontano dei laboratori in cui mancano certi macchinari, delle aule in cui mancano le LIM, dei bagni in cui manca la carta – «Ma è colpa nostra, prof, le bidelle non ce la mettono più da quella volta che abbiamo fatto fare la mummia a uno di prima. Minchia, cinque rotoli ci sono voluti. C’è da dire che era uno alto».
L’ora è quasi passata, inizio a pensare che mi sono simpatici. Non voglio farmi fregare già il primo giorno, ma finisce sempre così.
La campana suona, mi appunto mentalmente che il collega con il maglione a rombi è quello del laboratorio di meccanica e che non devo mai farmi fare le fotocopie dalla bidella bionda perché c’è il serio rischio che dia fuoco alla fotocopiatrice e alla scuola intera. Intanto mi chiedo come diamine ho fatto a finire qui.
Poi me lo ricordo. L’ho scelto io.
Alle nomine.