«Guidobaldi.»
Che poi sono io. Vasco Guidobaldi, l’ultimo, valoroso discendente del crociato Guidobaldo Guidobaldi, caduto eroicamente nel 1187 in difesa del Santo Sepolcro.
Il brusio in classe è quello che si sente a teatro quando si apre il sipario. Sanno che sta per iniziare lo spettacolo. L’Angelo si alza dall’ultimo banco.
«Sono Rabbia Pura, hai diritto alla paura.»
Ho in testa una specie di coppola di capelli biondi, nuca e tempie sono perfettamente rasate, e indosso un’immacolata tuta bianca H&M. Io adoro il bianco, anche perché nella mia famiglia è praticamente bandito. Poi vi spiego. Vesto solo di bianco. Non sembro un angelo? L’Angelo Vendicatore.
Incamminandomi lento verso la lavagna incrocio il sorriso perfido del Verme e schiaffeggio la manona di Eco, che mi dà la sua benedizione: «Dalle una labbrata… Borda!».
In questi casi dovrei essere io quello preoccupato, e invece il terrore sta tutto in cattedra, negli occhi spenti della signorina Catena Licordari da Lentini.
Sa bene a cosa sta andando incontro, ma sono l’unico della III B che non è ancora stato sentito sul Manzoni, perciò è stata costretta a chiamarmi. Ha rimandato l’interrogazione fino all’ultimo, come faccio io con il dentista: ci vado solo quando il dolore diventa davvero insopportabile e mi perfora le tempie.
Le riconosco il merito di non aver cercato lo scontro.
Anzi, ha cominciato con una di quelle domande-salvagente che sembrano buttate lì apposta per non farti annegare. Praticamente una dichiarazione di non belligeranza.
«Partiamo dal Cinque maggio. Come lo descriveresti il Napoleone del Manzoni? Che impressione ti ha lasciato?»
Volessi, nella risposta potrei metterci di tutto, come in uno zaino Fjallraven Kanken: la gloria, le sconfitte, la conversione, la provvida sventura e tutte quelle ciance lì. Volessi.
Invece preferisco dare una lettura molto più personale della storia: «L’impressione più forte del 5 maggio resterà quello scudetto incredibile perso dall’Inter nel 2002, all’ultima di campionato. Quel giorno sarebbe bastata una vittoria contro la Lazio, che non aveva più nulla da chiedere. L’Inter passò addirittura in vantaggio all’Olimpico con Bobone Vieri, ma poi si fece rimontare incredibilmente, perse la partita, e lo scudetto lo vinsero i gobbi… come al solito. Dall’altare alla polvere. Una sventura per niente provvida. Ma mi chiedo ancora: quella della Juve fu vera gloria?».
Il teatro mi regala la prima ovazione, la mia claque personale applaude esaltata. Ringrazio con un inchino e riporto la calma tra i banchi con un gesto elegante della mano.
Devo dare ancora atto alla prof di un comportamento molto conciliante.
Non reagisce male, non strilla, non tira pugni sul registro, non richiama la classe. Esegue solo una lunghissima inspirazione, come se stesse per battere il record di immersione in apnea e, dopo aver buttato fuori tutta l’aria dai polmoni, commenta: «Ok, lo spettacolino l’hai fatto. Bravo, Guidobaldi. Adesso vogliamo cominciare con l’interrogazione?».
Allargo le braccia, abbasso gli angoli della bocca e mimo tutta la disponibilità del mondo.
«Napoleone è prigioniero a Sant’Elena» prova la prof. «Gli inglesi, che lo hanno battuto, lo hanno spedito su un’isola sperduta in mezzo all’oceano, che diventerà la sua tomba. Dove ha subito la sconfitta decisiva?»
Butto un occhio furtivo tra i banchi, fingo uno sforzo di concentrazione e rispondo sicuro: «Bagnoli».
Il teatro ruggisce di nuovo. I vetri tremano per le risate. Il Grillo si copre la faccia con le mani.
«Fuochino…» spiega la Licordari. «Il disegno che ti ha mostrato Grillanzoni effettivamente ritrae la tazza di una toilette, ma andava interpretato con “water” e non con “bagno” e le lettere che ha scritto accanto sono tre e non due: “loo”, non “li”. Perciò la soluzione del rebus del tuo suggeritore era Waterloo e non Bagnoli.»
Faccio lo splendido. «Waterloo, tradotto in italiano, dà Bagnoli. I conti tornano.»
La prof cambia espressione.
Sotto la pelle del viso, il muscolo della mascella guizza come un delfino: «Lo sai, invece, che cosa significa il nome Guidobaldi, che deriva dall’antico tedesco Wido? “Istruito.” Non ti sembra il colmo? Tu… istruito».
Rispondo con la serenità di un vero angelo: «Vasco, o Basco, deriva invece dalla regione della Guascogna e significa, appunto, “guascone”, cioè “spaccone”, “simpatico”, “estroverso”… Come vede, i conti tornano anche qui. E comunque il mio cognome non significa solo “istruito”, signorina, ma significa anche il Senatore Vieri, mio nonno, il Conte, che conosce molto bene il nostro caro preside».
Su questa minaccia, la Catena va giù… il suo autocontrollo frana di brutto.
Ruota lentamente sulla sedia per fissarmi meglio negli occhi: «Ascolta, guascone. Lo sai che sono stata io a bocciarti l’anno scorso lottando contro tanti colleghi e colleghe che volevano darti il classico calcio nel sedere per buttarti fuori da questa scuola? Lo sai, vero? Non mi interessa se la tua famiglia è la più ricca di Firenze e se tuo nonno, Conte e Senatore, conosce bene il nostro preside. Io non ti ammetterò agli esami di terza media neppure stavolta. E mi ci vorrà anche meno fatica per convincere i colleghi, perché quest’anno stai andando molto peggio di quello scorso. Io sono abbastanza giovane per tenerti in questa scuola per altri quindici anni. Poi, un giorno, quando diventerai più anziano del bidello, forse accetterò l’idea del famoso calcio nel sedere. O forse non uscirai mai da qui e l’Istituto Collodi sarà la tua Sant’Elena».
Sotto la pelle ormai le guizzano branchi di delfini. Ha totalmente perso il controllo dei nervi. Nessuno ha mai osato dirmi in faccia cose del genere.
Infatti in classe è calato di colpo un gelo silenzioso, da ghiacciaio artico.
La signorina Catena Licordari ha appena commesso un errore strategico madornale. Si vede che non gioca a Fortnite.
Giocasse a Fortnite, saprebbe che non si attacca mai un avversario che è in una posizione migliore e possiede armi molto più potenti delle tue. Praticamente è come se mi avesse attaccato dal centro del campo da calcio di Parco Pacifico con in pugno il solo piccone con cui è sbarcata sull’Isola, completamente allo scoperto, mentre io sono in cima alla torre che mi sono costruito, al riparo di un box 1×1, e la tengo sotto tiro con un fucile di alta precisione Bolt Action. Ho guadagnato l’high ground. Ho un’arma Leggendaria e lei ha solo il piccone. Praticamente è spacciata.
E infatti, mentre cerca di controllare la mano che trema per la rabbia e prova a scrivere un numero piccolissimo sul registro all’altezza del mio nome, io avvicino l’occhio al mirino e premo il grilletto.
«Aspetti, signorina, non mi ha chiesto nulla sui Promessi Sposi. Li conosco a memoria. Ci sono due giovani che si vogliono sposare. Hanno già parlato con il parroco e fissato la data della cerimonia, solo che il giorno delle nozze lei si presenta in chiesa e lui no. E non per colpa di don Rodrigo o del latinorum, no, lui ha proprio deciso che non la sposa più e se l’è data a gambe! Così lei è lì, con il suo bel vestito bianco, i capelli acconciati e ornati di fiori, tutta profumata e felice, emozionata come mai nella sua vita, ma lui è sparito… Dev’essere stato terribile, vero, signorina?»
Lo sanno tutti che la prof, quand’era ragazza, una ventina di anni fa, è stata mollata sull’altare. In Sicilia. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla. Omertà, come si dice da quelle parti.
Pare che quell’umiliazione le abbia guastato la vita per sempre, come il verme nella mela. Ha lasciato casa ed è scappata verso nord come inseguita da un incendio o, meglio, da qualcuno che voleva farle del male, infatti ha cambiato aspetto per non farsi riconoscere. È ingrassata di almeno venti chili, mi hanno detto. Strano, perché nei film chi ha problemi di cuore di solito smette di mangiare e dimagrisce. Ma a dire il vero, io dell’amore so ancora poco. Per ora ho capito solo che è come la Tempesta di Fortnite che cerchi in tutti i modi di evitare, ma prima o poi ci finisci dentro e quando ti prende può gonfiarti o sgonfiarti come una zampogna.
In realtà, si intuisce che un tempo la signorina Licordari è stata una ragazza carina, di quelle che gli uomini di Lentini probabilmente ammiravano in piazza alla domenica mattina. Ha un naso regolare, una bocca carnosa e tutte le cose al posto giusto. Eppure, se a un test Invalsi dovessi crocettare su “carina” o “bruttina”, sceglierei la seconda casella, perché lei fa di tutto per peggiorarsi, a cominciare dagli occhiali da vista troppo grandi, per finire con le scarpe ortopediche, passando per certi vestiti da nonna, color tronco d’albero, che indossa imperterrita anche d’estate. Sembra una delle tante vedove che entrano ed escono dalla Gagliarda. Forse si sente proprio così, o forse si traveste per non correre il rischio di innamorarsi e ritrovarsi un’altra volta ad aspettare un Renzo che non arriva.
L’ho colpita.
Il fucile di alta precisione Bolt Action, arma Leggendaria, non può sbagliare.
La prof mi guarda come la vittima ferita a morte guarda il suo carnefice, non so se più sorpresa o più sofferente. Mi lancio giù dalla torre a bordo di uno X-4 Stormwing e la raggiungo per il colpo di grazia.
«E chissà che imbarazzo per gli ospiti: la chiesa piena, i tavoli al ristorante, l’orchestra che aspettava… Magari dovevate fare anche il karaoke dopo il lancio del bouquet. Di sicuro si era già messa d’accordo con qualche amica zitella per farlo prendere a lei, vero? Ce l’avevate il karaoke, prof?»
Non mi risponde, cerca qualcosa nella borsetta appoggiata sulla cattedra, probabilmente fazzoletti. Le dighe degli occhi stanno cedendo. Un Vajont.
«Piantala, Vasco» mi ordina Bice dal secondo banco.
Ma non la pianto. Tiro fuori dalla tasca della tuta un libretto blu. Eccolo, il colpo di grazia.
«Le ho lette le sue poesie d’amore, sa, prof? Belle. Anche il titolo, La sera del cuore, è molto suggestivo. Sono un filo angoscianti, forse, ma ci sta. Non è che i testi di Sfera Ebbasta facciano sbellicare dalle risate… Mi chiedevo però se qui, a pagina 16, dove lei scrive “nel buio della notte mi accarezzo la pelle e la mia mano diventa la tua”, intende la mano del tipo che se l’è squagliata davanti all’altare. È lui? È Renzo? E anche qui, a pagina 23, dove vorrebbe “mordicchiare la polpa di granchio delle tue labbra”, dobbiamo pensare al fuggiasco, scappato tra gli scogli come un granchio, appunto?»
La classe ribolle di risolini come una pentola pronta per gli spaghetti.
«Smettila, Vasco» m’interrompe Nabil, che è grosso e fa per alzarsi, ma Eco, che è anche più grosso di lui, lo rimette a sedere con una manata tipo rugby sulla spalla: «Chetati o ti do una labbrata…».
Si alza Bice, che porge alla Licordari un fazzoletto dei suoi. Lei ringrazia con un sorriso e si asciuga gli occhi lucidi.
«Mi fai schifo» sillaba Bice guardandomi con disgusto.
A me invece lei fa esattamente il contrario. Se non sto attento alla Bandinelli, rischio di ritrovarmi in una Tempesta di Fortnite con l’amore che mi gonfia o mi sgonfia come una zampogna.
«Devo andare dal preside?» chiedo.
Ripeto la domanda, visto che la prof non risponde. Le tremerebbe la voce.
«Devo andare dal preside?»
Fa cenno di sì con il mento.
Sollevo le braccia verso il mio pubblico. Ecco la Vittoria Reale!
Rappo come Rabbia Pura: «Prof la tua lezione è una vera lagna / Mi mando da solo dietro la lavagna / Lo vedo anch’io è attaccata al muro / Infatti esco dall’aula, poco ma sicuro».
Qualche coniglio mi insulta a bassa voce. La folla acclama e applaude. La solita apoteosi. Giù il sipario.
L’Angelo Bianco scivola radioso verso la presidenza.
Mi adorate già?