UNO SCAMPANIO ACUTO SI DIFFONDE nei miei orecchi, svegliandomi di soprassalto. Per quanto sia rimasta per poco tempo al sicuro tra le mura del rifugio, so cosa significa ogni suono diverso. Campane basse commemorano l’arrivo dei nuovi maji. Una melodia ammiccante annuncia l’ora di ogni pasto. Ma questo timbro acuto è un’aggiunta recente. Una chiamata all’addestramento.
Alzo la testa dalla scritta in ankara sul mio cuscino: una lama di giallo filtra dal mio balconcino. Emetto un brontolio e mi seppellisco sotto le coperte. Solo Mama Agba ci farebbe alzare prima dell’alba.
Man mano che lo scampanio continua, la voragine di sensi di colpa che mi perseguita da Chândomblé affonda come un mattone nel mio stomaco. Come dovrei affrontare i miei Mietitori sapendo che non sono all’altezza di guidare il mio clan?
Sono passati giorni, eppure la mia mente non ne vuole sapere di smetterla di ripropormi il ricordo di Mâzeli che corre giù dalle scale del tempio. Avevo promesso di mantenere il mio Secondo al sicuro. Di proteggerlo a costo della vita. Invece, non appena ho visto Inan, ho abbandonato il mio voto pur di ottenere vendetta. In quel momento, avevo alle mie dipendenze un solo Mietitore. Cosa sarebbe successo se avessi guidato l’intero clan?
Tanto per cominciare, di Mietitori ce ne sono pochissimi: Oya non dona a tanti la nostra capacità. Se vogliamo vincere questa guerra e ricostruire ciò che la monarchia si è presa, non possiamo permetterci di perderne neppure uno. Hanno bisogno di un anziano di cui fidarsi fino in fondo.
Qualcuno bussa delicatamente alla mia porta, costringendomi ad alzare la testa. Mi aspetto di trovare gli orecchi esagerati di Mâzeli quando la porta viola si apre con uno scricchiolio, ma è un lampo ondeggiante d’argento a sbirciare al suo interno.
«Mama Agba?»
Sorrido alla vista della tunica argentea sulla sua pelle scura. L’indumento increspato le fluttua alle spalle a ogni suo movimento. È come se avesse una brezza tra le pieghe della seta.
Prima del Raid, gli anziani dei clan del passato indossavano mantelli come questo, abiti indicanti la loro condizione di figure riverite. Indossare questa tunica era speciale tanto quanto portare il copricapo da anziano del clan.
«E kàárò ìyáawa.» Mi trascino giù dal letto, inginocchiandomi di fronte a lei, malgrado il forte bruciore alle cosce. Nel momento in cui sfioro la terra col naso, penso a quante volte avrei dovuto farlo. A quante volte ci saremmo dovuti inchinare tutti in sua presenza.
Da ex anziana, Mama Agba andrebbe celebrata. Riverita da tutti. Invece, per anni ha nascosto chi era, senza indossare nient’altro che caffettani dai colori spenti, al contempo cucendo splendidi abiti per i nobili, fino a farsi sanguinare le dita.
«Alzati, figliola.» Mama Agba fa schioccare le labbra, ma i suoi occhi color mogano palpitano di emozione. Mi stringe in un abbraccio caldo e, dall’aroma di chiodi di garofano e spezie súyà che la seta del suo abito promana, capisco che ha già lavorato per ore in cucina.
«Volevo vederti prima che cominciassi l’addestramento.» Infila una mano nella sua borsa e ne estrae un grandioso collare di metallo. Questo splendido pezzo è fatto su misura per il mio collo e la sua base mi copre la clavicola.
«È bellissimo» riesco a dire, sfiorandone la spettacolare sagoma. Dozzine di placche triangolari sono state cucite insieme fino a formarne il rivestimento, una miscela unica delle sue capacità di cucitrice e dell’abilità di Tahir nella lavorazione dei metalli.
«Avevo pensato di realizzare un copricapo, ma con tutte le battaglie in cui sei coinvolta mi è parso più adatto.» Mama Agba mi indica di girarmi, ma io non mi muovo.
«Non ti piace?» chiede.
Scuoto la testa, facendo scorrere le dita dei piedi sulle mattonelle a mosaico del pavimento.
«Non merito di indossarlo. Non credo di poter essere la loro anziana.»
«Per via di ciò che è accaduto nel tempio?» Mama Agba mi posa una mano sulla spalla, indicandomi di avvicinarmi. «Essere un’anziana non significa che tu non possa commettere degli sbagli. Significa solo che, malgrado quegli errori, seguiterai a combattere.»
«Hai sentito cos’è successo a Mâzeli?» chiedo.
«Figliola, tra queste pareti la parola viaggia più rapidamente di una leopardera in corsa. So di voi tutti più di quanto io desideri sapere.» Mama Agba scuote la testa, facendomi voltare verso lo specchio. «A quanto pare, Kenyon ha messo gli occhi su Na’imah, ma Na’imah ha messo gli occhi su Dakarai…»
«Ma a Dakarai piace Imani!»
«Lo so» dice Mama Agba, con un sospiro. «E quella donna Cancro se lo mangerà vivo. È un pasticcio di proporzioni gigantesche!»
Sorrido tra me, mentre lei fa per prendere il collare. Spero che non abbia sentito le dicerie su Inan. O quelle su Roën.
Un palpito mi si propaga in tutto il petto al pensiero del mercenario, un pensiero che vorrei tanto cancellare. Senza la minaccia costante della battaglia, mi ritrovo a pensare al suo bel sorriso. Ricordo le sue mani callose. Ogni tanto mi sorprendo a fissare l’ingresso del rifugio, in attesa che lui faccia una nuova comparsa nella mia vita, nell’ambito di una missione rabberciata.
Ma persino lui sparisce dalla mia mente quando Mama Agba mi sistema il collare sui segni dorati della mia gola. Quando faccio scorrere le dita tra i solchi che dividono ogni placca triangolare, un orgoglio inatteso mi riempie il petto.
Mi fa venire in mente quando mi sono seduta a bere tè nel suo ahéré di canne, dopo aver completato l’allenamento, prima che mi mettesse in mano il bastone del passaggio di grado. In qualche modo, la sensazione è identica. Non fosse che ogni cosa e ogni persona nel nostro mondo sono cambiate.
«Zélie, se non fosse stato scritto che tu debba essere un’anziana, la tua ascesa sarebbe stata respinta» dice Mama Agba. «Oya ti ha dato un ìsípayá per indicare che sei degna. Non avresti visto nulla se lei non ti avesse ritenuta la persona migliore per guidare questo clan.»
Medito sulle sue parole, pensando a ciò che Oya mi ha mostrato. Se chiudo gli occhi, riesco tuttora a vedere il nastro di luce viola che mi è mulinato fuori dal petto come un filo intrecciato a un nastro d’oro. L’energia creata era la stessa che ho colto in Amari.
Nel tempio, ero certa che fosse un simbolo dei cêntri. Ma tutti i fili di Amari erano blu cobalto. Se avessi osservato quelli di Nehanda, sono certa che avrei visto soltanto sfumature di verde smeraldo. Dov’erano le sfumature viola? Quelle d’oro? Quelle color mandarino?
«Mama Agba.» Mi volto dalla sua parte. Persino nella mia testa, la domanda che attende sulle mie labbra ha un che di ridicolo. Ma non so come spiegare i colori della luce che non ho visto. «È possibile combinare diverse magie?»
«Be’, la natura stessa dei cêntri…»
«Non in quel senso» la interrompo. «È possibile combinare diversi tipi di magia? La magia di persone che non appartengano allo stesso clan?»
Gli occhi di Mama Agba si dilatano e lei fa un passo indietro, corrucciando la fronte in un’espressione cogitabonda. «Perché me lo chiedi?»
«Nel mio ìsípayá ho visto diversi colori. Ho visto sfumature di viola mescolarsi a sfumature d’oro. Un arcobaleno di colori» spiego. «Un arcobaleno di energia.»
«Capisco.» Mama Agba torce le labbra. «Combinare la stessa magia è piuttosto raro, ma mischiare diverse magie… per quanto ne so, è stato fatto una sola volta. È il motivo stesso per cui Orïsha dispone della majacite.»
Resto a bocca aperta mentre Mama Agba mi racconta la storia dello Scavatore e del Cancro che hanno messo insieme le loro magie, un legame talmente potente ed esplosivo da creare depositi di majacite in tutto il Paese.
«L’impatto ha ucciso i due maji» mi spiega Mama Agba. «Ma l’effetto del loro legame si percepisce tuttora. I depositi che hanno creato sono quelli a cui la monarchia attinge da oltre un secolo.»
«Potrebbe succedere ancora?» chiedo.
«In teoria.» Mama Agba scuote la testa. «Se si potesse tollerare un legame del genere, se chi lo brandisce riuscisse a sopravvivere, nessuno può sapere cosa succederebbe. Uno Scavatore e un Bruciatore potrebbero far sorgere vulcani dalla terra. Un Mietitore e un Guaritore potrebbero addirittura far risorgere i morti.»
Annuisco, pensando al potenziale che mi trovo di fronte. Un’energia simile è difficile da comprendere. Sembra ancora più possente degli dei.
«Ma, Zélie, imboccare quella strada…»
«Lo so» la rassicuro. «Per ora, non è nei nostri piani.»
Un garbato chiacchiericcio si leva dal basso man mano che i maji abbandonano i loro dormitori e Mama Agba e io ci avviciniamo al mio balcone. Li osservo attraversare a gruppi il ponte di pietra in direzione del terzo monte, oltre i bagni naturali, per incontrarsi presso i templi dei rispettivi clan.
Mâzeli guida Bimpe e Mári: i suoi grandi orecchi si notano facilmente nella folla. Mama Agba sorride quando posiamo lo sguardo su di loro. Fa scorrere una mano su e giù lungo il mio braccio.
«Ti ricordi ancora il tuo ìsípayá?» chiedo e Mama Agba espira. Un sorrisino appare sul suo viso, talmente scintillante da illuminare la stanza.
«Ho dato una sbirciata nell’ignoto» dice Mama Agba, con un filo di voce. «Mi sono inginocchiata sulla vetta della montagna. Madre Cielo mi ha accolta a braccia aperte.»
«Deve essere stato bellissimo» sussurro.
«Lo è stato.» Mama Agba annuisce. «Sono passati decenni, ma ricordo ancora quel calore speciale. Quell’amore.»
Mama Agba mi raddrizza il collare e mi sfila il copricapo, scuotendomi i riccioli, prima di accompagnarmi fuori dalla porta.
«Sei la persona di cui hanno bisogno i tuoi Mietitori, anziana Zélie. L’unica persona a cui devi dimostrarlo sei tu stessa.»
QUANDO mi dirigo verso il terzo monte, buona parte dei clan sono già pesantemente al lavoro. Fatta eccezione per i Mietitori, ogni altro clan dispone di almeno una dozzina di maji in grado di combattere.
I maji si radunano davanti ai templi dei rispettivi clan, addestrandosi sotto gli occhi degli indovîni. Quando gli passo accanto mentre mi dirigo verso la torre dei Mietitori sulla sommità della montagna, la poca sicurezza che Mama Agba ha instillato in me inizia a sgretolarsi.
«Non così» insegna Na’imah, scuotendo la testa con tanta forza che dai suoi riccioli cade una doccia di petali di fiori arancioni. Alcune libellule le orbitano intorno alla testa mentre lei risistema le mani di un maji intorno alle tempie della sua ghepardera. «Cogli il legame che ti sta davanti, pri...