30 NOVEMBRE 1872
SCOZIA VS. INGHILTERRA
Michela allenava la squadra di calcio femminile da ormai quindici anni.
Era stata dura, all’inizio. Il primo anno si erano iscritte appena sei ragazze, e due avevano mollato a metà stagione. Perché il calcio è solo per i maschi: così pensavano in tanti, allora, soprattutto tra i genitori. Ma Michela era convinta del contrario, e voleva dimostrare che si sbagliavano. Il calcio è uno sport per tutti, e lei e le sue giocatrici lo avrebbero provato.
Fortunatamente, col passare del tempo, la situazione era migliorata. Un po’ con il passaparola tra le ragazze a scuola, un po’ grazie all’incredibile successo dei Campionati Mondiali femminili. Proprio come quelli che si erano tenuti pochi mesi prima, nell’estate del 2019, in Francia: stadi sempre pieni, partite trasmesse in tutto il mondo, milioni e milioni di tifosi e spettatori seduti davanti alla tv… Così ora Michela allenava più di cento ragazze, di età e categorie diverse.
E tra loro c’era Espelancia. Dodici anni, i capelli lisci, i più neri che avesse mai visto, e un sorriso contagioso. Abitava lungo la strada che Michela percorreva per tornare a casa dal campo, perciò, ogni volta che ne aveva bisogno, la riaccompagnava alla fine dell’allenamento. E in quei venti minuti che servivano a uscire dal centro della città, mentre attraversavano i grandi viali che portavano in periferia, le due chiacchieravano un sacco: della scuola, delle amicizie, naturalmente di calcio, la grande passione di entrambe… e ogni tanto anche di Osvaldo Populizio, il professore di storia.
Osvaldo era l’insegnante preferito di Espelancia. Il motivo? Innanzitutto era riuscito con il suo entusiasmo a farle amare una materia che fino a poco tempo prima trovava noiosa e inutile. E poi l’aveva sempre incoraggiata e apprezzata per la sua decisione di giocare a calcio, scelta comunque ancora poco comune tra le ragazze. Che nervoso, quando qualcuno le diceva di dedicarsi a uno sport più femminile, come capitava spesso! Ma la cosa più bella di tutte è che, secondo il prof Populizio, anche la storia del calcio era importante: conoscerla significava conoscere molto altro, del mondo e della vita.
«Sai che cosa mi ha chiesto oggi Populizio, durante l’interrogazione?» disse Espelancia guardando oltre il finestrino, verso la strada buia bagnata dalla pioggia.
Michela alzò un sopracciglio, curiosa, senza spostare gli occhi dalla strada. «Che cosa?»
«Di spiegargli perché la nazionale italiana di calcio ha quasi sempre puntato sulla difesa e sul contropiede.»
La donna fece un fischio di approvazione. «Wow… e tu?»
Espelancia scrollò le spalle. «Be’, gli ho detto che secondo me è stata una scelta dovuta alle caratteristiche dei nostri giocatori: ne abbiamo sempre avuti di velocissimi, e allora abbiamo sfruttato questo vantaggio.»
Michela rallentò a un incrocio. «Ma lui non era d’accordo, scommetto» ribatté.
La ragazza ridacchiò. «Già. Ha schioccato la lingua, proprio così.» E imitò un suono tipo tsk. «Poi mi ha detto che è la storia che ci ha insegnato a difenderci: l’Italia è stata invasa, occupata, dominata… dagli austriaci, dagli spagnoli, dai francesi. Insomma, siamo stati costretti ad arretrare dentro la nostra area di rigore, ma poi abbiamo trovato la forza e l’unità per reagire, e abbiamo preso gli avversari in contropiede. Qualcosa del genere, ecco.»
Michela annuì, gli occhi sempre puntati davanti a sé per evitare le insidie del traffico serale sotto la pioggia.
«Ha perfettamente ragione!» esclamò. «Tutti i grandi momenti della storia dello sport sono in qualche modo legati all’epoca in cui sono avvenuti. A volte ne sono stati semplicemente il riflesso, ma spesso sono stati proprio quei momenti a condizionare o addirittura a cambiare il corso della storia.»
Gli occhi di Espelancia brillavano. «Ad esempio?»
Michela si sistemò un ricciolo dietro l’orecchio e, mentre il tergicristallo scandiva lo scorrere del tempo, cominciò a raccontare, dal principio.
Iniziò spiegandole che la prima partita della storia tra due nazionali di calcio si era giocata nel 1872, per la precisione tra Scozia e Inghilterra. Erano anni di relativa pace, quelli, almeno in Europa: invece che combattere tra di loro, gli eserciti europei imbracciavano i fucili all’estero, soprattutto in Africa. Anche se bisognava mettersi d’accordo su come dividersi quelle terre: Gran Bretagna, Germania, Francia, Portogallo, Spagna, Belgio e Italia sgomitavano tra loro per potersi accaparrare il continente e le sue preziose materie prime.
«Davvero? A quel tempo il calcio esisteva già?» la interruppe Espelancia, incapace di trattenere lo stupore.
Michela sorrise, e proseguì.
Il calcio c’era eccome, a inventarlo ci avevano pensato gli inglesi. Già nel Seicento gli studenti dei college e delle università oltremanica si sfidavano lanciando la palla con i piedi. E poiché le classi erano composte generalmente da dieci ragazzi, ai quali quasi sempre si aggiungeva il maestro (giustamente voleva divertirsi anche lui, e spesso faceva il portiere!), ecco che il numero dei giocatori per squadra era stato stabilito. A questi primi tentativi erano seguiti un paio di centinaia di anni di prove ed esperimenti vari – ci era voluto un po’, per esempio, per stabilire se si potessero usare pure le mani, o solo i piedi! – fino a che, nel 1863, in Inghilterra era stata fondata la Football Association, la federazione calcistica più antica del mondo.
Però sarebbe stato Charles Alcock, un uomo elegante con dei lunghi baffoni bianchi che si dilettava nel gioco del calcio, ad avere l’idea destinata a cambiare la storia di questo sport: riunire i migliori giocatori di ogni nazione, facendoli sfidare tra loro. Così organizzò una partita amichevole radunando alcuni giocatori inglesi e scozzesi che vivevano nell’area di Londra, e facendoli giocare gli uni contro gli altri nell’impianto che all’epoca si usava per il cricket: l’Oval. La partita però non venne ufficialmente riconosciuta, e poi gli scozzesi protestarono perché i loro atleti più forti giocavano in patria, mica a Londra.
«E così invitarono gli inglesi a casa loro…»
«Scommetto che ci andarono!» la interruppe di nuovo Espelancia. Il sorriso enorme della ragazza illuminò l’abitacolo beige dall’auto di Michela, che annuì: «Esatto. Per la precisione la partita si svolse il 30 novembre 1872, giorno in cui si festeggiava anche Sant’Andrea, il patrono di Scozia».
L’incontro si tenne a Glasgow, davanti a tremila persone che si godettero poco lo spettacolo per via di un nebbione spaventoso: era così fitto che si faticava a riconoscere i giocatori! All’epoca gli scozzesi non avevano idea di come mettere insieme una nazionale vera e propria, così avevano portato in campo in loro rappresentanza una squadra già esistente: il Queen’s Park FC di Glasgow. Gli inglesi, al contrario, si erano impegnati molto e avevano selezionato i propri calciatori tra ben nove club diversi. Questo però poteva rappresentare uno svantaggio: mentre i giocatori scozzesi erano abituati a giocare insieme, quelli inglesi non lo avevano mai fatto prima, non si conoscevano nemmeno. Quindi entrambe le nazionali possedevano punti di forza e di debolezza: si prospettava uno scontro molto interessante!
Michela continuava a raccontare. «Quel giorno Charles non poté giocare perché era infortunato, altrimenti nessuno gli avrebbe impedito di scendere in campo e dare del filo da torcere agli scozzesi. Però pensò di dare una mano all’arbitro, tale William Keay, che lavorava per il club scozzese.»
«Come sarebbe?» sbottò Espelancia. «Così non vale!» protestò ricordando le discussioni infinite con le compagne quando, a fine allenamento, facevano una partitella tra loro. C’era sempre il rischio che chi arbitrava fosse di parte. E spesso in effetti lo era, specialmente Roberta, che dava un sacco di punizioni in favore delle sue amiche, Stefania e Giorgia, anche se non lo ammetteva mai.
L’allenatrice ridacchiò, tamburellando con i polpastrelli sul volante.
«A quei tempi nessuno faceva polemica in campo, soprattutto perché le regole erano ancora tutte, o quasi, da stabilire. Per esempio, per fare la porta quel giorno legarono un nastro di stoffa a due pali a circa due metri e mezzo d’altezza, realizzando una sorta di traversa. E anche gli schieramenti delle squadre oggi sembrerebbero assurdi. La Scozia giocò con due difensori, altrettanti centrocampisti e ben sei attaccanti. Ma l’Inghilterra non fu da meno, con un solo difensore, due centrocampisti e addirittura sette attaccanti!»
Espelancia sussultò sul sedile. «Ma non è possibile! Sarà finita 7-3, 12-9… o 8 pari?»
Michela le lanciò un’occhiata, sempre più divertita dalle reazioni della ragazza.
In realtà, incredibilmente, quella partita si concluse con uno 0-0. Anche se non fu il risultato la cosa più sorprendente: il portiere e l’attaccante dell’Inghilterra a un certo punto si scambiarono di ruolo; e poi William Keay annullò ben due reti degli scozzesi perché il pallone era finito contro il nastro che fungeva da traversa tranciandolo di netto! Ma nessuno protestò. Anzi, al fischio finale gli spettatori si alzarono in piedi ad applaudire: ormai la passione per il calcio era esplosa, e sarebbe diventata inarrestabile!
Qualche anno dopo, le federazioni britanniche si sarebbero finalmente messe d’accordo sulle regole del calcio, costituendo l’International Football Association Board: ancora oggi l’unico, vero custode del regolamento di questo sport.
L’auto si fermò davanti al palazzo dove abitava Espelancia.
La ragazzina fissò l’allenatrice, con un’aria un po’ confusa. «Ma quindi che collegamento c’è tra quella prima partita tra nazionali e la storia?» si mordicchiò le labbra. «Mi sa che mi sono persa…»
«Devi sapere che proprio in quegli anni, mentre nascevano le prime squadre nazionali di calcio e si giocavano le prime partite, in Europa si stavano formando anche molte delle nazioni così come le conosciamo oggi, o quasi: in Francia, per esempio, nacque la cosiddetta “Terza Repubblica”, in Italia nel 1870 ci fu la famosa “breccia di Porta Pia”, con la quale anche lo Stato Pontificio e la città di Roma, che poi sarebbe diventata capitale, vennero annessi all’Italia unita… E, in tutta Europa, si costituivano i primi partiti e i movimenti politici.»
Michela rimase un momento in silenzio, fissando la via oltre il parabrezza, i lampioni accesi, un passante che sfrecciava in bicicletta sull’asfalto bagnato. Poi tornò a guardare Espelancia, i suoi capelli neri e il suo meraviglioso sorriso, e proseguì: «In un certo senso, le nazioni europee sono nate insieme allo sport del calcio. Del resto, anche nel Novecento e ancora oggi, le strade del calcio e della storia si sono intrecciate o hanno corso parallele. E non solo quelle che ne coinvolgevano i grandi protagonisti: il calcio ha unito e unisce spesso storie individuali, di persone comuni. Proprio come è successo a noi due: è il calcio che ci ha fatte incontrare».
Espelancia annuì, adesso le era chiaro ciò che intendeva Michela.
«E ora vai, che domani c’è scuola e prima, in spogliatoio, ho sentito che non hai ancora finito tutti i compiti…»
La ragazzina sbuffò, mentre apriva la portiera dell’auto e usciva. Prima di richiudersela alle spalle, salutò l’allenatrice curvandosi un po’. Poi prese coraggio e aggiunse, facendo l’occhiolino: «Pensavo… magari le presento il professor Populizio. È single, e avreste un sacco di cose da raccontarvi».
E dall’espressione che apparve sul volto di Michela, ebbe il sospetto che lei ci avesse già pensato. Eccome.