La Spirale del Tempo
eBook - ePub

La Spirale del Tempo

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Esiste un'isola sulla quale il tempo scorre in un modo tutto suo, abitata da creature bizzarre e magiche. Un'isola a cui può approdare solo chi la porta nel cuore.
La vita di Lucas segue da tempo binari prestabiliti, ma non da lui, che è sempre più insoddisfatto anche se non sa, o non ricorda, bene perché. Alla vigilia della partenza per l'Università si imbatte per caso in un pezzo del suo passato che aveva del tutto dimenticato, o forse rimosso, schiacciato dal dolore per la malattia del padre.
Poco alla volta, Lucas ricorda di aver avuto amici straordinari che crescendo aveva creduto di aver immaginato e che invece esistono davvero, solo in una dimensione diversa da quella della sua vita di tutti i giorni. E ora gli stanno chiedendo di tornare, perché hanno bisogno di lui, ma forse ancora di più perché è lui ad aver bisogno di loro.
Realtà e fantasia si fondono nella ricerca di una verità che lo porterà di nuovo nei luoghi fantastici che aveva abbandonato insieme all'infanzia, e lo accompagnerà in un viaggio di crescita e riscoperta di se stesso dalle conseguenze imprevedibili.

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Informazioni

Print ISBN
9788817160711
eBook ISBN
9788831806817
1

INFUSO D’ARGENTO

Successe tutto una domenica come tante. Reduce da una serata in discoteca con Jonathan e gli altri, non facevo che trascinarmi dal letto alla scrivania e dalla scrivania al letto. In altre situazioni non ci avrei pensato due volte e avrei passato il pomeriggio a dormire, ma non quella domenica. Guardai il muro sopra lo scrittoio e lo vidi, come una manetta infuocata al mio polso: un cerchio rosso sul calendario intorno alla data che avrebbe potuto segnare la mia rovina. Il giorno dell’esame di ammissione all’università. Mancavano poco più di due settimane e più di tremila pagine da studiare. Ci tenevo a entrare alla facoltà di Economia, anche se non per lo stesso motivo di mia madre: lei mi voleva direttore di banca o qualcosa di simile, io volevo solo prolungare il mio dolce far niente. Da studente universitario avrei potuto partecipare a una festa ogni sera e conoscere un’infinità di ragazze. Godermela, insomma.
Per essere la fine di agosto, era un pomeriggio stranamente freddo. Seduto alla mia scrivania con la testa sul palmo della mano, guardavo annoiato il cielo plumbeo attraverso la finestra.
Abitavamo in quella casa da una decina di anni, anche se io avevo trascorso il periodo del liceo e delle medie in un esclusivo collegio privato. Lì avevo conosciuto Jonathan, il mio migliore amico. A mia madre era piaciuto subito: il fatto che fosse figlio di un influente uomo d’affari aveva fatto passare in secondo piano la sua passione sfrenata per il divertimento. Io ci andavo d’accordo proprio per il suo carattere intraprendente e scatenato. Avevamo passato gli anni delle superiori a minacciare le matricole, partecipare alle feste dei ragazzi più grandi, flirtare con le ragazze più popolari della scuola. Insomma, a prenderci tutto ciò che volevamo, esattamente come avevamo fatto la sera prima in discoteca.
Una vibrazione del cellulare: era Jonathan. «Ieri sera?» mi chiedeva, aggiungendo subito dopo una serie inequivocabile di emoji: silhouette di una donna che balla, bomba seguita dal punto di domanda, bandiera bianca, nuovo punto di domanda e infine occhiali da sole.
Sorrisi. La sera prima avevo conquistato Eva, una ragazza davvero favolosa, disinvolta e con un corpo perfetto. E Jonathan mi aveva guardato con invidia per tutto il tempo.
Aprii e chiusi la chat in modo che si accorgesse che avevo visualizzato, ma non risposi al suo messaggio. Mi arresi e mi buttai sul letto.
Nelle orecchie avevo ancora il ronzio della discoteca, un tunnel ovattato che mi portò dritto al sonno. Improvvisamente, però, una scarica di colpi mi risucchiò fuori. Mi alzai di soprassalto e andai verso la finestra, dove vidi solo le foglie degli alberi mosse dal vento. Aprii la porta della stanza: la casa era vuota, mia madre era ancora fuori, all’asta di beneficenza della parrocchia. Mi convinsi di aver sognato e mi ributtai sul letto, affondando la testa nel cuscino. Pochi attimi dopo, però, i colpi tornarono, più forti di prima. Corsi di nuovo alla finestra e la aprii. Una folata di vento sollevò le tende e le pagine dei libri sulla scrivania. Mi sporsi in avanti: non c’erano rami vicini al vetro e per strada non si vedeva nessuno.
Ma proprio allora lo notai. Sulla grossa quercia del giardino, più o meno alla mia altezza, un gatto tigrato accovacciato su un ramo mi fissava. Era così in ombra da confondersi con i rami e se non fosse stato per gli occhi, tondi, grossi e di un luminoso verde acqua, non lo avrei notato. Il modo in cui mi fissava, immobile, aveva qualcosa di inquietante. Il vento ululava e scuoteva le foglie, ma il gatto non sembrava sentirlo.
Il cellulare squillò: di nuovo Jonathan.
«Studi o dormi?» mi chiese quando risposi.
«Mi stavo riposando.»
«Dove sei finito ieri sera?»
Emise un rantolo che voleva essere una risatina. Risi a mia volta, mentre con lo sguardo cercavo il gatto oltre la finestra: sembrava sparito. Raccontai a Jonathan di Eva, senza tralasciare alcun dettaglio. Anzi, per scatenare la sua invidia, ne aggiunsi anche qualcuno di mia invenzione.
«Eva! Sei il mio eroe. Sei proprio il mio eroe!»
«Dai, non esagerare. È una ragazza come tante.»
«Sai benissimo che non è vero.»
Invece di rispondere lanciai un urlo di terrore e feci cadere a terra il telefono: il gatto che poco prima mi fissava dall’albero era piombato sul davanzale della finestra. Gli occhi sembravano ancora più grandi. Il micio inarcò la schiena e strofinò il naso e la nuca sul vetro. Una macchia bianca a forma di cuore sul collo emise un bagliore come se fosse una pietra preziosa. Non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi.
Jonathan intanto continuava a parlare. Raccolsi il telefono dal pavimento.
«Non puoi capire: c’è un gatto che mi fissa dalla finestra!» Scattai una foto e gliela inviai.
«Dagli una spintarella, così vediamo se è vero che i gatti hanno sette vite.»
Ridemmo entrambi.
«Dai, passo a prenderti più tardi» disse infine Jonathan prima di riagganciare.
In quel momento la porta della mia camera si aprì: mia madre era rientrata. «Tesoro, sono a casa. Stai studiando?»
Spaventato dal rumore, il gatto si lanciò dal davanzale all’albero e poi da un ramo all’altro fino a sparire chissà dove.
La conversazione che seguì con mia madre fu una cascata di domande e rimproveri, a cui replicavo sbuffando e ruotando gli occhi, un atteggiamento che di solito le faceva perdere la pazienza. Lei allora si sedette sul letto e sfoderò l’ultima carta: il senso di colpa.
«Ti prego, non farmi fare una brutta figura. Per Albert non sarebbe un problema farti entrare all’università – basterebbe una piccola raccomandazione – ma vorrei comunque che facessi un buon esame.» Albert, sempre Albert. Mia madre lo nominava di continuo, come se fosse una divinità a cui appellarsi. Sbuffai nuovamente, lei finalmente perse la pazienza e uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Tornai a letto e mi lasciai cullare dal ticchettio della pioggia, cadendo infine in un sonno profondo. E sognai.
Mi trovavo sul sedile posteriore di un’auto, alla guida c’era un uomo sconosciuto. Passammo accanto a un bar, sulla porta c’era una ragazza dallo sguardo assorto. L’uomo mi raccontò che, nonostante la cortesia della proprietaria, in quel locale non metteva piede mai nessuno. Incuriosito, chiesi di fermare l’auto ed entrai. La ragazza doveva avere la mia età, era senza trucco e portava pantaloncini e T-shirt da maschio. Non appena mi vide, mi porse una tisana in una tazza da tè bianca. Al centro galleggiava un infusore. «Lasciala in infusione per un po’» mi disse con uno sguardo intenso. «È polvere di argento.»
Mi svegliai di soprassalto: mia madre era entrata in camera per avvisarmi che Jonathan mi stava aspettando in cortile. Guardai il cellulare: avevo dormito per più di tre ore. Mi preparai in fretta, ma non fu sufficiente a placare il mio amico: «Oh, ma è possibile che ogni volta devi farmi aspettare secoli?». Salii sulla BMW di suo padre e partimmo.
Non avevo sentito nulla mentre dormivo, ma le nuvole dovevano aver portato un bell’acquazzone: le strade erano bagnate e piene di pozzanghere. Avevamo appuntamento con gli altri alla sagra del paese. La via principale era un ingorgo di macchine che procedevano a passo d’uomo e strombazzavano. Forse per via del traffico o del risveglio brusco di poco prima, mi sentivo stranamente agitato.
Jonathan tentò una conversazione. «Ho sentito Max, mi ha detto che ci saranno anche le ragazze alla festa. Forse anche Eva.»
«Non girare qui, che restiamo bloccati. Vai dritto, verso il sottopasso» ribattei io, ignorando le sue allusioni. Solo allora mi resi conto che avevo visto lo stesso sottopasso anche nel sogno.
«Ma che hai, oh? Sembri un cadavere da quanto sei bianco.»
«Non ho niente, lascia perdere.» Quella sensazione di déjà-vu mi stava innervosendo e incuriosendo al tempo stesso.
Attraversammo un vicolo di periferia dai muri grigi ricoperti di graffiti. Sui balconi dei palazzi spiccavano grandi parabole accanto agli abiti stesi ad asciugare. All’imbocco della via vidi un negozio. All’entrata c’era una signora con i capelli bianchi e un vestito scuro sgualcito. Era seduta su una sedia accanto a una vetrina piena di cianfrusaglie e accarezzava un micio che le stava accoccolato in grembo.
«Frena!» urlai e Jonathan inchiodò. Un automobilista ci sorpassò tra insulti di ogni genere. «Oh, che c’è?» sbraitò il mio amico.
«Accosta!» dissi e scesi dalla macchina prima ancora che si fosse avvicinato al marciapiede.
«Dove vai? Siamo in ritardo!»
«Arrivo subito, aspettami qui» gli dissi mentre avanzavo verso il negozio come attratto da un’invisibile calamita.
La donna mi sorrise. La salutai e oltrepassai una tenda di fili di plastica. All’interno c’era un mercatino dell’usato, con scaffali stipati di pentole e utensili da cucina, abiti, giocattoli, scatole e vecchie valigie, macchine da cucire, quadri, raccoglitori, album di fotografie. Sembrava di stare in un magazzino; oltre ai piccoli manufatti, spiccavano casette da esterni in plastica, cucce per cani e persino un grosso confessionale.
«Cerchi qualcosa, ragazzo?» chiese la voce rauca dell’anziana proprietaria.
«No, grazie. Non avevo mai notato il suo negozio prima d’ora, mi ha incuriosito.»
«Eppure sono qui da tanti anni.»
Tossicchiando si sedette su una sedia di vimini. Era davvero vecchia, rughe profonde solcavano il viso smunto e i capelli bianchi erano radi.
«Si sente bene, signora?» chiesi notando il respiro affannoso.
«Bene come una novantenne!» sghignazzò. «Guarda in quella stanza» aggiunse indicando una porta seminascosta da un grosso cactus fiorito. «Non ci entra mai nessuno, sono sicura che troverai qualcosa che fa al caso tuo.»
Non me lo feci ripetere. Spostai la pianta, abbassai la maniglia ed entrai in un piccolo locale in penombra. Dall’altra stanza, la signora mi disse di tirare la catenella che pendeva dal soffitto. Obbedii e una luce bianca proveniente da una lampadina penzolante illuminò delle reti da pescatore, luci da imbarcazione, canne da pesca e grossi forconi. Notai anche una barchetta di legno appoggiata alla parete, era piccola e vecchia, dipinta di una vernice bianca ormai scrostata.
«Lucas, ti muovi? Siamo in ritardo.» La voce di Jonathan mi richiamò nell’altra stanza. La signora lo scrutava con occhi severi.
«Va bene, andiamo» dissi spingendolo fuori nella speranza che la smettesse di sbraitare.
«Tornerò a trovarla con più calma» dissi alla donna, che mi osservava con uno strano sguardo compassionevole.
«Spero di essere ancora qui, caro.»
«Ha intenzione di chiudere?» domandai preoccupato.
«Oh, certo che no! Resterò qui finché non mi chiameranno da lassù. Ma il tempo non gioca certo a mio favore.»
Ricambiai il suo sorriso amaro e feci per incamminarmi. Sulla soglia, però, mi venne un dubbio: «Di chi era quella barca?» chiesi.
«Non lo so, ragazzo, non conosco i nomi dei proprietari. Il mio povero marito, forse, avrebbe saputo risponderti.»
Jonathan, da fuori, picchiò un piede sull’asfalto per richiamare la mia attenzione.
«Devo proprio andare» dissi indicando con gli occhi il mio amico.
«Voi giovani di oggi siete così iperattivi, dovete sempre correre. Ai miei tempi era tutto diverso, non c’era questa frenesia: il massimo che potevo fare era invitare le amiche a casa per il tè.» Sorrise con un’espressione enigmatica. «E non ti dico quanto tempo lasciavamo l’infusore nella tazza: più restava lì, più tempo avevamo per chiacchierare. Non c’erano quelle bustine già pronte.»
Un’altra coincidenza legata al sogno.
«I pomeriggi duravano il tempo di un’infusione. Oggi, invece, le vostre giornate fuggono, rapide come una tazza di tè liofilizzato» disse scuotendo il capo. «Ma dove diavolo andrete, mi domando? Il tempo va assaporato, in ogni attimo. Non trangugiato. Non avrete ricordi, se continuate così: vi resteranno solo immagini schizofreniche come le luci delle vostre discoteche.» Mi tese la mano, per chiedermi di aiut...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1. Infuso d’argento
  4. 2. La grotta
  5. 3. Follia
  6. 4. Riflessi del passato
  7. 5. Un passato da sogno
  8. 6. Un sogno nel cassetto
  9. 7. L’Albero del Tempo
  10. 8. Lontano da tutti
  11. 9. Come averti al mio fianco
  12. 10. Il regno dei ricordi
  13. 11. L’Isola
  14. 12. Il ritorno
  15. 13. In viaggio
  16. 14. Il Consiglio dei Cinque
  17. 15. Vera
  18. 16. Il Mondo Capovolto
  19. 17. La Foresta del Sortilegio
  20. 18. Tutubi
  21. 19. I Creatori del Tempo
  22. 20. I Creatori di Ombre
  23. 21. L’Occhio della Spirale
  24. 22. Il tempo mancato
  25. 23. Il traditore
  26. 24. La crepa
  27. 25. I ribelli
  28. Per sempre
  29. Ringraziamenti
  30. Copyright