Clank. Clank.
Il Ventilatore Danzante stava ancora danzando, il piede di gomma batteva allo stesso ritmo sincopato persiano che avevo ascoltato per tutta la sera, ma non è stato quello a svegliarmi.
Sono scivolato fuori da camera mia, rimanendo sui tappeti finché potevo. Quando posavo il piede sul pavimento, le piastrelle erano fredde.
Clank. Swish.
Veniva dalla cucina.
«Mamma?»
Era in piedi al lavandino, in vestaglia, i guanti di gomma rosa acceso di Mamu tirati fin sui gomiti. Aveva i capelli ancora acconciati in casual persiano, tutti boccoli ricadenti, anche se diverse ciocche erano riuscite a sfuggire a quell’attenta disposizione.
I ripiani alla destra del lavello erano coperti di pile di pentole e padelle, piatti e bicchieri alte come la Porta di tutte le nazioni, e tazze.
Tantissime tazze.
«Ciao, tesoro.»
«Cosa stai facendo?»
«Non riuscivo a dormire.»
«Posso aiutarti?»
«Non preoccuparti. Torna a letto.»
Ho capito che era solo ta‘arof.
«Neanche io riesco a dormire.»
«Va bene. Ti dispiace asciugare questi?» Ha fatto un cenno in direzione dei vassoi nello scolapiatti. «Puoi impilarli sul tavolo.»
Ho tirato fuori uno straccio dal cassetto accanto al forno, poi ho preso il vassoio di ceramica per il riso e l’ho asciugato. L’enorme piatto era bianco, con anelli concentrici di piccole foglie verdi.
«Ehi. Questi non li abbiamo spediti tramite gli Ardekani l’anno scorso?»
La mamma si è rimessa a posto gli occhiali sul naso con l’avambraccio. «Sì. Per il loro anniversario.»
«Oh, già .»
Mamu e Babu erano sposati da cinquantun anni.
Ho pensato a tutti i litigi che dovevano aver avuto, e a tutte le volte che si erano perdonati a vicenda.
Ho pensato ai piccoli segreti che sapevano l’uno dell’altra e che non conosceva nessun altro.
Ho pensato che probabilmente non sarebbero arrivati al cinquantaduesimo anniversario.
«Mamma?»
«Sì?» Aveva la voce tutta schiacciata, come il collo di un palloncino che si sta sgonfiando.
«Mi dispiace. Per Babu.»
Lei ha scosso la testa e ha sfregato la pentola abbastanza forte da scavarci un buco dentro. «No. A me dispiace. Vorrei aver portato te e Laleh prima. Non è giusto che lo vediate soltanto così. Così stanco. E poi… be’, hai visto.»
Ha smesso di strofinare e si è spostata un capello dal viso con un soffio.
«Già .»
«I suoi medici dicono che peggiorerà .»
Ho deglutito e ho cercato un angolo asciutto sullo straccio.
«Sai cosa mi ricordo?»
«Cosa?»
«Un giorno… avrò avuto sette o otto anni, io e Mahvash eravamo andate a giocare al parco. Eravamo amiche da bambine. Te l’ho mai detto?»
Non me l’aveva mai detto.
Era strano, immaginarsi la mamma con gli amici d’infanzia.
Ma mi piaceva che la mamma fosse amica di Mahvash, e che ora io fossi amico di suo figlio.
«Comunque, eravamo andate a piedi scalzi, perché era una mattina fresca. Ma all’ora di pranzo, quando abbiamo provato a spostarci dall’erba, il marciapiede era troppo caldo.»
La mamma aveva un sorriso divertito sul viso.
«Quando non siamo tornate a casa, Babu è uscito a cercarci e ci ha trovate. Ma non sapeva perché fossimo lì e non ci aveva portato le scarpe.»
«Oh no» ho detto.
«Allora ha riportato Mahvash a casa, a cavalluccio, e ha lasciato me al parco. Mi ha detto che questo mi avrebbe insegnato a essere più responsabile.»
Mi è sembrata una cosa molto da Babu.
«Ma quando è tornato, si era dimenticato di ripassare da casa a prendermi delle scarpe. Così ha dovuto portare in braccio anche me.»
Questo mi ha fatto sorridere.
«Era così forte» ha detto la mamma. E poi ha tirato su con il naso.
Ho posato lo straccio e ho cercato di abbracciare la mamma di lato, ma lei mi ha allontanato.
«Sto bene.» Si è rimessa di nuovo a posto gli occhiali. «Mi dispiace di non averti insegnato il persiano.»
«Come?»
Non capivo. La nostra conversazione aveva subito una Fionda Gravitazionale particolarmente disorientante.
«Era mio dovere insegnartelo. Assicurarmi che sapessi da dove vieni. E ho combinato un casino.»
«Mamma…»
Ha posato la spugna e chiuso il rubinetto.
«È stata dura per me, lo sai? Trasferirmi in America. Quando me ne sono andata da qui ero sicura che sarei tornata. Ma non è stato così. Mi sono innamorata di tuo papà e sono rimasta lì, anche se non mi sono mai sentita veramente a casa. Quando sei nato tu volevo che crescessi americano. Così che sentissi che era quello il tuo posto.»
Questo lo capivo. Lo capivo davvero.
La scuola è già abbastanza dura così, da Persiano Frazionario. Non credo che sarei sopravvissuto se fossi stato ancora più persiano.
La mamma ha scosso la testa. «Assomigli così tanto a tuo papà . Sotto tantissimi punti di vista. Ma sei anche mio figlio. Ho cercato di fare meglio man mano che crescevi, ma temo che questo abbia aiutato più tua sorella di quanto abbia aiutato te.»
Insomma.
Sarebbe stato bello sapere il farsi come Laleh.
«Mi dispiace, Darius.»
Ora che eravamo da soli – che tutti i Veri Persiani erano andati a letto – era tornata a usare il mio nome americano.
La mamma si è chinata per baciarmi il lato della testa e poi ha riaperto il rubinetto. «Sarebbe più facile per te parlare con tuo nonno se potessi farlo in persiano. Non è mai stato molto a suo agio con l’inglese, nemmeno prima.»
Questo l’avevo già capito. A casa, quando ci chiamavamo su Skype, era Mamu che parlava in inglese per la maggior parte del tempo.
«Ti vuole davvero bene, sai? Anche se non dice sempre le cose giuste. Ti ama.»
«Lo so» ho detto.
«Penso ti voglia ancora più bene visto che non può vederti mai. Questo ti rende più speciale.»
«Sì. Anche io gli voglio bene.»
Questa forse è stata un’esagerazione.
Cioè, volevo bene all’idea di Babu.
Ma l’idea era molto diversa dalla realtà .
Laleh è stata la prima a svegliarsi il mattino dopo. È corsa su e giù per il corridoio, cantando a pieni polmoni, lo scalpiccio dei suoi piedi sulle piastrelle mentre ballava. Ha socchiuso la mia porta e sbirciato nella stanza.
«’Giorno, Laleh.»
«Sobh bekheir!»
«Vuoi fare un po’ di colazione?»
«Baleh.»
«Ok. Arrivo subito.» Mi sono infilato un paio di calzini e l’ho seguita in cucina.
Grazie a me e alla mamma sarebbe stato quasi impossibile dire che la sera prima c’era stata una festa per il Nowruz. Avevo perfino pulito il piano della cucina e i fornelli.
Laleh ha infilato il naso in frigo. Era talmente pieno di avanzi che la luce in cima non arrivava a illuminare oltre il primo ripiano.
«Nun-o-panir mikham.»
Laleh era entrata in modalità solo-persiano, anche se quantomeno si limitava a frasi che riuscivo a capire.
Ho preso della feta dall’angolo più alto dello sportello del frigo. «Vuoi che ti tosti del pane?»
«Baleh!»
Laleh ai piatti non arrivava, ma ha preso dei coltelli puliti per il burro. Quando il tostapane è scattato – avrei quasi voluto che facesse il suono dell’allarme rosso o qualcosa ...