Se il nostro racconto dovesse cominciare con un “C’era una volta...” non ci sarebbe molto da meravigliarsi, perché proprio di una bellissima fiaba si tratta. Molto appassionante e con una grande quantità di colpi di scena e originali e impensabili svolte nella storia.
Chi si immagina tre ragazzi che nascono e crescono in un piccolo paese alla periferia di Napoli, magari nello stesso palazzo, e che diventano amici, giocano a pallone insieme, frequentano lo stesso bar, la stessa parrocchia, la stessa comitiva e poi, alla fine, si inventano La Smorfia non ha assolutamente idea di quanto sia stata più intricata, fantasiosa, inusuale, complessa e ingarbugliata la sequenza di eventi che hanno consentito a me, Massimo ed Enzo Decaro di essere protagonisti di questo evento così particolare.
Quando ero piccolo, ma anche adesso, avendo raggiunto un’età che giustifica e consente una nuova sintonia con gli elementi più illogici e irrazionali dell’esistenza umana, ero convinto di sapere chi fossero i responsabili di quella esaltante congerie di fatti e avvenimenti.
Avevo anche dato nome e forma a queste due forze magiche e misteriose, l’una contrapposta e fermamente ostile al volere e ai desideri dell’altra, che si scontravano, e ancora si scontrano, nel tentativo di gestire destini, persone, avvenimenti e opportunità...
TAFFULAH D. per me è femmina, forza vitale, energia creativa, nido protettivo. Soffio delicato capace di trasformare in vita il nulla. Ma potente e invincibile come il nome che si nasconde dietro la D puntata, DURASTELLA.
All’epoca avevo anche capito che Taffulah D. si prendeva cura di quei soggetti un po’ asincroni, trasversali, di quelli fuori dal coro, a corrente alternata, contromano, di tutti i diversi incolpevoli della loro diversità.
Come me. Come noi.
Ed ero più che sicuro che, se Tafullah D. avesse adocchiato fra questi un ovulo dai semi unici e pregiati, lo avrebbe trasformato prima in fiore poi in ovario, proteggendolo a costo della sua stessa vita, fino a farlo diventare un frutto profumato e saporito.
SIRESANGRO SUR invece era maschile, spietato.
Aveva già nel suo nome terribile il sangue, il dolore, la prepotenza, il dominio, l’acido corrosivo e malefico, il terrore che voleva spargere nella vita di tutti quelli che gli capitavano a tiro.
Con un’attenzione e una dedizione particolare verso i più deboli, i più indifesi.
Come me. Come noi.
Tutto quello che è bellezza, futuro, prospettiva, risorsa, opportunità, traguardo, azione, slancio, passione, speranza, ideale, cuore, impulso, emozione, scatenava irrimediabilmente i suoi devastanti poteri, la sua ferocia, senza pietà e senza scampo.
Invincibile. Inarrestabile. Irresistibile.
E con un solo scopo.
Il deserto, intorno a noi.
Per crearlo era pronto a procurare, alle persone che gli si mettevano contro, la maggior sofferenza possibile, le peggiori frustrazioni, le umiliazioni più cocenti.
Se poi si ritrovava davanti qualcuno che, pur essendo fragile e delicato, riusciva a generare flussi capaci di moltiplicare le potenzialità altrui, a diventare per tutti fonte di ispirazione, e a restare per sempre impresso nel cuore grazie alla propria arte e al proprio talento, allora la furia e la violenza di Siresangro Sur diventavano incontenibili.
Realizzo solo adesso che forse è la prima volta, in assoluto, che lo racconto a qualcuno... Insomma, così mi sentivo allora e così mi sento, qualche volta, ancora oggi.
Taffulah D. da una parte, Siresangro Sur dall’altra, e noi in mezzo.
Ribadisco. Chi ha immaginato il racconto di tre amici per la pelle che crescono assieme nello stesso paese, giocano a pallone, a boccette, a biliardo, che poi si fidanzano con tre amiche ed escono con la stessa comitiva... purtroppo ha comprato il libro sbagliato.
Questa è la cronaca di un progetto straordinario e, per molti versi, impossibile da realizzare. Perché destinato, di proposito, a un gruppo di tipi abbastanza sperduti, sparpagliati ad arte un po’ qui un po’ là, assolutamente male assortiti e, soprattutto, completamente inconsapevoli di dover diventare protagonisti di questa inconsueta faccenda.
Classi, formazione, posizioni geografiche accuratamente diverse per essere più che sicuri che mai sarebbero entrati in sintonia l’uno con l’altro.
Caratteri, temperamento, permalosità a compatibilità zero.
La squadra giusta per ottenere un nulla di fatto.
Tante idee ma molto confuse da desideri, aspettative, programmi, sogni, smanie e passioni divergenti e inconciliabili.
Una miscela perfetta per produrre di sicuro tragedie senza precedenti e non certo esiti leggendari destinati a restare per sempre nell’immaginario collettivo.
Era l’anno 1953...
Era da un bel po’ di tempo che Taffulah D. non riusciva a trovare qualcuno che potesse essere enzima, lievito, antidoto, sollievo e motore per l’intera comunità.
Non era facile neanche per lei perché, se si fosse sbagliata, Siresangro Sur avrebbe comunque scatenato contro il prescelto tutte le contromosse e le terribili angherie insostenibili già per chiunque, ma a maggior ragione per chi fosse fuori ruolo e senza parte nella loro contesa.
La sfida tra i due poderosi avversari funzionava così.
Taffulah D. aveva, di diritto, la possibilità di esercitare la sua scelta e di mettere sotto la sua egida e protezione un soggetto qualsiasi, a suo insindacabile giudizio.
Da quel momento, Siresangro Sur era autorizzato a muovere intorno all’eletto tempo, persone e avvenimenti con il solo scopo di impedirne la crescita e consapevolezza di sé; e ancor di più si impegnava a cancellare per sempre ogni traccia della bellezza, della gioia, di ogni forma di pensiero o ispirazione derivante dall’arte e dal talento del prescelto.
E devo dire che in questo era davvero piuttosto bravo e inesorabile.
Quando Siresangro Sur aveva finalmente steso la sua rete malefica e nefasta, solo allora e di nascosto, a Taffulah D. era permesso di inventarsi, qua e là, delle scappatoie o dei fantasiosi e furbi stratagemmi per aiutare il suo protetto. La speranza era che il Padrone di Ogni Sofferenza non se ne accorgesse, e che questo potesse essere rimedio per molti dei danni da lui escogitati per il futuro.
Così è sempre stato e così ancora è.
E purtroppo, ancora sarà!
Era il 1953.
In quell’anno veniva scoperta la struttura a doppia elica del nostro DNA, moriva Stalin, scoppiava la rivolta a Cuba, Hemingway vinceva il premio Pulitzer con Il vecchio e il mare.
In Italia nasceva l’Eni con lo scopo di contrastare lo strapotere delle sette sorelle, e si andava al voto con quella che venne poi chiamata Legge Truffa.
Tutte queste cose non impedivano, il 19 febbraio a San Giorgio a Cremano, a Elena Adinolfi (casalinga) e ad Alfredo Troisi (capotreno delle Ferrovie dello Stato) di accogliere nella propria famiglia il loro penultimo figlio, Massimo.
In anni molto più lontani, alla nascita di uno come lui, si sarebbe parlato di bambini indaco, cristallo, diamante, arcobaleno.
Ma facendogli comunque torto.
Perché lui brillava di una luce di un colore unico e indefinibile. E solo suo.
Nel bene e nel male, tutti i suoi amici sarebbero stati costretti a confrontarsi, ad avere a che fare, a scoprire qualcosa di speciale e senza eguali.
Perfettamente inconsapevole del suo destino e di tutti i suoi talenti, Massimo rifuggiva da qualsiasi fatica, delegando agli altri ogni sforzo fisico, solo perché, diceva, il suo compito era pensare, cercare e specialmente trovare soluzioni utili per sé ma anche per tutti quanti.
Massimo avrebbe comunque cominciato, sin dall’infanzia, a dare prova del suo estro e della sua particolarità, magari guidando battute di caccia per stanare dalla vegetazione una gallina già decapitata, o facendo scavare ai suoi amici un cunicolo sotterraneo per “rapinare” una banca vicina, dando anche precise istruzioni su come non farlo crollare, pur senza avere nessuna competenza in materia.
O ancora convincendo tutti a giocare a nascondino ma senza andare mai lui sotto, alla conta. Così, mentre gli altri erano costretti a cercarlo, lui si nascondeva, con enormi scorte di frutta raccolta nel frattempo dagli alberi vicini.
E, mentre si abbuffava e gli amici si disperavano perché non riuscivano a trovarlo, Massimo poteva stare lì per delle ore senza dare minimo segno di noia o di stanchezza.
Oppure facendo costruire a tutti un suo progetto: una casa su un albero, completa di ascensore perfettamente funzionante , un gioco di funi e carrucole che tirava su un pianale di assi di legno dal livello terra fino all’ingresso della casa sospesa in alto tra i rami e che stava su a meraviglia.
Tutto, o quasi tutto, avveniva nella casa e nella masseria di Alfredo Cozzolino, di cui parleremo a lungo fra un po’, che avrebbe fatto qualunque cosa per vedere Massimo contento.
E allora lui lo metteva a giocare come portiere della squadra avversaria alla sua, perché sapeva fare un tiro a rimbalzo che per Alfredo era assolutamente imprendibile. In questo modo era certo, già in partenza, che la sua squadra avrebbe vinto ogni partita.
Come si può ben vedere, a nessuno sarebbe mai potuto venire in mente di collegare la nascita di Massimo con quello che sarebbe successo a Napoli qualche mese dopo.
Finalmente, dopo una serie di rocambolesche disavventure che avrebbero fatto sembrare l’Odissea una bazzecola, mio padre e mia ma...