Pax correva.
Correva sempre; quasi un anno dopo essere stato in gabbia l’ultima volta, i suoi muscoli conservavano ancora il ricordo della rete di ferro.
Quella mattina la corsa era diversa, però. Quella mattina la volpe correva perché sotto il suolo duro e infeltrito della foresta, sotto gli strati di neve rimasti tra le ombre più scure dei pini e i sottili fogli di ghiaccio che abbracciavano gli stagni, la sentiva: primavera. Nuova vita che sgorgava – dalle cortecce, dai boccioli e dalle tane – e l’unica possibile risposta era correre.
E poi di colpo si fermò. Coniglio.
Peloritto in quei giorni aveva sempre fame.
Pax prese la direzione dell’odore e trovò la tana. Era stata abbandonata solo poche ore prima. Conteneva due carcasse di cuccioli, uno morto da molti giorni, l’altro da una sola notte.
Era la terza volta in altrettanti giorni che Pax s’imbatteva in cuccioli morti. Prima, un cunicolo di topi campagnoli che ne celava un’intera cucciolata. Aveva portato a casa il cadavere più fresco, ma Peloritto aveva storto il muso per il disgusto.
Poi un nido di scoiattoli striati. Peloritto aveva rifiutato anche quel pasto a base di scoiattolini morti, perciò ora Pax lasciò perdere i conigli. Invece, improvvisamente stanco, si girò verso la Fattoria Abbandonata che lui, Peloritto e Scricciolo avevano occupato dopo aver lasciato il luogo in cui quest’ultimo aveva perso la zampa.
Peloritto non si vedeva, ma era vicina. Pax trotterellò seguendo il suo odore fino a un vecchio capanno. Sotto i gradini era stato scavato un buco, e tutt’attorno era sparsa terra raschiata via di fresco. Pax entrò.
Peloritto era accoccolata in fondo alla nuova tana; aveva la pelliccia fulva sporca di terra. Aprì un occhio assonnato per guardare il compagno, poi risistemò il muso sulle zampe.
Pax era confuso. L’aria del mattino si andava già scaldando e non minacciava tempesta. Ancora più strano era il fatto che ci fosse un odore nella tana nel quale non si era mai imbattuto prima, ma che conosceva bene quanto il proprio. Era quello di Peloritto, ma non era Peloritto.
Le annusò il collo, chiedendole di saggiare l’aria. Nuovo?
Sì, nuovo. Noi.
Pax continuava a non capire.
Peloritto si rotolò sulla schiena e allungò il ventre arrotondato. Cuccioli. Presto. Poi tornò ad accoccolarsi nella sabbia pulita.
Pax rimase a osservare ogni suo respiro finché non si fu riaddormentata.
Uscì dalla tana indietreggiando ed emise un latrato.
Poi corse. Questa volta corse perché se non l’avesse fatto sarebbe esploso.
Peter si accovacciò sull’asse del pavimento incriminata e seguì con le dita la cresta che la attraversava da un’estremità all’altra. Vola aveva detto che le assi erano abbastanza piatte, che poteva cominciare a carteggiarle, ma lui voleva che fossero perfette, non “abbastanza piatte”, quando lei sarebbe venuta a vedere il pavimento completato.
Aggiustò la ruota della pialla finché la lama non emerse quel poco che bastava per limare superfici sottili come carta. Avrebbe anche potuto sistemare tutto con un unico taglio più spesso, ma procedere strato per strato avrebbe dato un risultato migliore.
A Peter piaceva lavorare con la pialla: era forse la sua attività preferita, tra quelle che aveva imparato costruendo la casetta. La pialla era un vero strumento di forza, non come, per dire, un cacciavite. Si usa l’intero corpo con una pialla. Uno strumento da uomo, non da ragazzo.
La posizionò sull’estremità dell’asse, strinse il pomello con la mano destra e vi appoggiò il peso, poi cominciò a spingere la pialla in avanti con la sinistra. Dal pino giallo vecchio di cent’anni, recuperato nel fienile di un vicino, si staccò un ricciolo uniforme, che odorava di legno tagliato di fresco. Gli piaceva il modo in cui il legno era sempre pronto a ricominciare da capo, e come…
Di colpo, la pialla si bloccò contro un nodo. La mano che la spingeva scivolò sul pomello e Peter si spellò il palmo.
Ricadde sui talloni, imprecando. Quando avrebbe imparato? I nodi erano fatti così: subdoli, nascosti sotto la superficie. Man mano che il sangue sgorgava e cominciava a gocciolargli sul polso, lo colpì la frase: sudore e sangue. Aveva versato litri di sudore in tutta la casetta. Una firma col sangue non sarebbe stata fuori posto. Premette il taglio contro l’asse e guardò colare una piccola fiamma rossa. La macchia che andava espandendosi somigliava a una coda di volpe.
Peter ritrasse di colpo la mano, sconvolto dalla violenza del ricordo. L’anno prima, durante il viaggio verso il luogo in cui era stato obbligato ad abbandonare la sua volpe domestica, Pax, si era tagliato apposta il polpaccio per fare un giuramento di sangue a forma di coda volpina sulla gamba. Tornerò da te, aveva promesso.
Si premette la ferita al centro del petto. I ricordi erano proprio sleali. Sempre in agguato sotto la superficie, pronti ad aprirsi un varco e a pugnalarti al cuore non appena abbassavi la guardia.
Sapeva cosa doveva fare per neutralizzare questo in particolare. Una specie di penitenza che aveva ideato, in realtà. Ogni volta che si distraeva così e ripensava a Pax, si obbligava ad affrontare il medesimo esercizio. Meglio farlo subito.
Peter chiuse gli occhi. Rivide il pomeriggio nel quale aveva trovato una volpe morta al lato della strada. Ripassò in dettaglio i propri movimenti: aveva preso in braccio il corpo rigido e sporco di fango; lo aveva portato via in cerca di un posto dove seppellirlo; aveva notato la chiazza sabbiosa accanto a un muro di pietra e vi aveva scavato una fossa poco profonda con lo stivale.
Anche se in quel punto gli si strinse il cuore come al solito, si obbligò a ricordare di aver trovato l’ingresso alla tana della volpe. Ora gli faceva male anche respirare, ma rievocò di nuovo la scena: tre cuccioli morti e un sopravvissuto tutto tremante.
Aveva allungato un braccio e aveva sollevato il cucciolo ancora vivo: un volpacchiotto maschio. Se lo era stretto al petto, dove il piccolo aveva riempito un vuoto che Peter non sapeva di avere dentro di sé. Ma ora, per penitenza, virò verso una scena diversa: quello che avrebbe dovuto fare, secondo suo padre.
«Era suo destino morire con il resto della famiglia. La cosa giusta da fare sarebbe stata renderglielo indolore.»
Peter stringeva il cucciolo, indignato. «Troppo tardi» aveva urlato. «E lo tengo!»
Suo padre si era irritato. Ma nella sua espressione – per la prima volta, forse – Peter aveva visto rispetto.
Ora capiva che aveva ragione. Avrebbe dovuto porre fine alle sofferenze di Pax, e alle sofferenze che lui stesso avrebbe causato a entrambi cinque anni dopo.
Completò la penitenza. Anziché allungare il braccio, immaginò di svellere uno dei pesanti massi che coronavano il muro adiacente e farlo cadere sull’entrata della tana. E poi andarsene subito senza nemmeno voltarsi indietro.
Fallo. Vattene. Non guardarti indietro.
Avrebbe potuto evitare quel dolore.
Peter ripeté tutto due volte. Aveva letto che ne servivano tre per riprogrammare il cervello.
La penitenza stava funzionando. Pensava sempre meno a Pax. Se avesse potuto evitare di vedere il procione di Vola, sarebbero passati giorni prima di ricordarsi che aveva avuto un cucciolo.
Si alzò e mise a posto la pialla. Il taglio aveva smesso di sanguinare, ma per un po’ non avrebbe usato lo strumento. Non si doveva lasciare la minima via d’accesso ai ricordi.
Prese un pezzo di tela da un trogolo nell’angolo. Ci aveva ammucchiato dentro muschio essiccato, cenere della stufa a legna e argilla. Vi aggiunse un po’ d’acqua per ottenere un impasto grezzo. Ne mise una parte in un secchio con una paletta e cominciò a sigillare gli spazi tra i tronchi della parete nord.
Mentre era al lavoro si concesse un attimo per ammirare la casetta. Aveva deciso di costruirla a settembre, quando era tornato a casa dopo il primo giorno di scuola, aveva rovesciato i libri sul tavolo della cucina di Vola e si era reso conto che la situazione era impossibile. La casa di Vola era perfetta per lei, ma era troppo piccola per due. Avevano concordato che a Peter servissero spazio e privacy, e lei lo aveva aiutato a progettare un luogo in cui dormire e studiare. Solo tre metri per quattro: uno spazio sufficiente per un letto e una libreria, una scrivania e una sedia. Quella semplicità gli piaceva.
Aveva abbattuto lui stesso i tronchi, li aveva segati uno per uno della lunghezza giusta e intagliati tutti. Aveva tagliato ogni trave e asse, aveva messo le scandole sul tetto e lo aveva impermeabilizzato. La settimana prima aveva trovato tre finestre e una porta da un rigattiere e le aveva comprate con il denaro che il nonno gli spediva ogni mese. Il giorno seguente, dopo la scuola, avrebbe cominciato a costruire i telai.
I vicini lo avevano aiutato ad alzare i tronchi per sistemarli al posto giusto, ma per il resto aveva fatto tutto da solo. Vola lo aveva guidato, certo, ma non aveva quasi mosso un dito. Era quello il patto – lui voleva costruire qualcosa interamente da solo – e lei lo rispettava. Questo gli piaceva di Vola.
Proprio in quel momento, quasi l’avesse chiamata, la vide scendere lungo il sentiero. Pareva a disagio, si tirava giù la gonna come se non si fosse ancora abituata a vestirsi bene per le giornate in cui lavorava in biblioteca.
Vola salì sul blocco di cemento che aveva sistemato per lei sulla soglia – si muoveva molto bene con la protesi, ma gli scalini alti erano difficili – e bussò su un tronco. Un’altra cosa che a Peter piaceva era che lei rispettasse i suoi spazi.
Stese un’incerata per nascondere il pavimento non ancora finito e le fece cenno di entrare. «Com’è andata oggi?»
Vola sorrise. «La piccola Williams mi farà diventare matta. Ma ha un talento naturale per le marionette. Bea ti saluta. Ha ordinato quel nuovo li...