La pittrice di Tokyo
eBook - ePub

La pittrice di Tokyo

  1. 352 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La pittrice di Tokyo

Informazioni su questo libro

Palermo, 1938. Mentre le sue coetanee si sposano e crescono figli, Jolanda sfreccia in bicicletta per i campi indossando i pantaloni del fratello, con i capelli al vento e la macchina fotografica sempre in spalla. Vuole essere libera, ma sa bene che per una donna, in Sicilia, la libertà è fatta di piccole conquiste segrete: come le poesie scritte sotto falso nome che appende ai muri della città, o il lavoro da fotoreporter che suo padre le concede di svolgere in attesa che metta la fede al dito. Intanto, l'Europa è scossa dalle leggi razziali e dalla minaccia di una nuova guerra. Sognare una vita diversa sembra impossibile, ma il destino le riserva una possibilità inattesa: un biglietto per Tokyo pagato da una misteriosa benefattrice. È così, apparentemente per caso, che Jolanda si imbatte nella storia di O'Tama Kiyohara, straordinaria pittrice giapponese che per amore ha trascorso più di cinquant'anni a Palermo, creando con le sue opere un ponte invisibile tra le due isole del suo cuore. L'incontro con O'Tama e con il Giappone sarà per lei un nuovo inizio. Osservando l'eleganza dei kimono, la solennità del monte Fuji e la grazia dei pruni in fiore, scoprirà una terra fatta di bellezza e tradizione, e attraverso il suo obiettivo avrà l'occasione di guardare con altri occhi la natura, l'arte e la femminilità.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
Print ISBN
9788817160926
eBook ISBN
9788831806756
Argomento
Letteratura

1

Dicembre 1938

La mia campagna è silenzio, e vento.
Pedala, Jolanda, mi dico, usali, questi polpacci sottili.
Ho voglia di infilarmi nel sentiero che porta alla vecchia casa. Schiaccio i freni della bicicletta e striscio i piedi per terra tra le ginestre selvagge. Un sasso finisce in una pozzanghera e onde simili ai miei scarabocchi sui fogli smuovono la nuvola grigia che ci fluttuava dentro, alzo lo sguardo e allungo le dita verso il cielo, mi piacerebbe poterla afferrare.
Tutto attorno a me dorme, la pigrizia dell’inverno si nasconde tra le zolle di terra, nei tumuli marroni come sangue rappreso, scorre nel disordine dei fiori svuotati dal gelo.
Il tempo mi suggerisce orizzonti che sfilano veloci come i miei pensieri, capaci di incagliarsi tra i rami morbidi dei carrubi che danzano laggiù, nel mio posto fresco quando c’è caldo.
Sorrido per ieri sera, la mano dentro al cappotto mi svela le mille lire vinte a Pietro, soffiategli da sotto il naso. Finire due bottiglie di passito e riuscire ancora a pedalare da via Roma ai Quattro Canti, su fino a piazza Bologni, mentre lui ha mollato subito.
L’erba alta per il maggese mi solletica i gomiti, una manciata di centimetri in meno e potrei starci nascosta come una volpe, insinuarmi come le goccioline di rugiada che saltano dalle foglie al mio paltò di panno.
Non riesco a vedere neppure Stinco e Gemma, i cani del pastore, si saranno rintanati come santuzze.
Mi mancano le fragranze della primavera, gli aromi dolciastri dell’estate. Il freddo pizzica, ma sa di menta viva e si fa perdonare le dita intorpidite e il petto che brucia. Assaggio l’aria, amo questa stagione lenta anche se le cosce lottano col diaccio che si infila sotto la gonna come mani sconosciute. Ad agosto c’è un frinio assordante, adesso le mie scarpe graffiano questa pace come rane scontente sul fango appiccicoso.
Grido, mi va di gridare. I sentieri puntellati di case sono ormai alle mie spalle, questa è la Palermo delle erbe selvatiche, degli ulivi argentei alle pendici di montagne incastonate a mezzaluna, un mezzo abbraccio.
Dio! La libertà del vento in faccia, delle guance rigide come cartone.
Non appena la vecchia casa, appartenente ai primi Ajello che arrivarono in Sicilia dalla Spagna, spunta all’orizzonte il mio cuore batte felice. Restano pareti mangiate dai giganti, un angolo di tetto, erbacce mescolate a muschio nero e dorato al posto del pavimento. Mio padre, che qui c’è nato per combinazione, ha usato alcuni conci per le fondamenta della nuova villa perché per lui conservare, riusare, trasformare sono meglio di abbandonare.
Lascio che la bici sprofondi in mezzo alla lunaria selvatica cadendo senza un tonfo e mi siedo sul masso di tufo che sono riuscita a mettere esattamente al centro del rudere, è qui da anni.
C’è bellezza nel non servire più a nulla, nel cedimento. Vorrei lasciarmi andare anch’io, abbandonare i miei modi schietti e ribelli per diventare una porta oltre cui osservare il mondo, dove lo sguardo trova pace tra l’azzurro del cielo e il verde dell’erba, ma c’è così tanto che voglio fare che preferisco sorvolare sui miei desideri.
«Non essere debole!» mi ripete sempre mio padre con aria solenne. La prima volta me lo disse quando lo beccai a piangere dietro la nostra stalla. Al mio arrivo si era voltato per nascondersi la faccia, poi era venuto verso di me prendendomi per gli avambracci e stringendo fino a farmi male, fino a farmi credere che non fosse mio padre. «Scordatele, queste lacrime» gridava, e mi scuoteva come un ramo d’ulivo da raccogliere, quasi potesse scrollarmi di dosso i miei otto anni. «Tu… tu non hai visto niente. Muta.» Non potevo neppure rispondere, mi mancava la voce davanti al terrore dei suoi occhi rossi, liquidi, ripassati da fiumiciattoli di sangue, e mi mancò per una settimana intera finché mi fecero togliere u scantu da donna Tanina con una tazzina, l’aglio e le preghiere sibilate tra denti corti e stretti. Nessuno seppe perché restai muta, neppure io, il ricordo di quel giorno si è perso con la paura.
«Se gli altri conoscono le tue paure ne approfittano, figghia mia, ne approfittano» mi rimbombava in testa, e donna Tanina non me le aveva potute sradicare dal ventre rimasto duro, si era meravigliata che l’orazione non avesse avuto effetto.
In verità, giorni dopo, mio fratello Cico mi aveva pestato un piede e io alla fine avevo ritrovato la voce dal profondo del mio stomaco. Tutta in una vibrazione, come se uscissero frotte di farfalle. Le potevo percepire, quelle ali piccole che mi solleticavano fino a cercare ancora più spazio dentro la bocca.
Sentendomi urlare, mia sorella Anita aveva sbuffato: «Si stava così bene in pace!», mentre io diventavo paonazza e allungavo il collo, lenta come una pernice che tasta l’aria.
Da lì ho iniziato a meditare sul valore del silenzio.
Osservo la quiete dal mirino della Rolleiflex, la geografia del mio universo in quattro angoli. Sono indecisa, ho l’ultima fotografia disponibile nel rullino. Scatto, ma l’arrivo prepotente di spari selvaggi in lontananza mi mette agitazione. Mentre sento esplodermi i battiti in petto comincio a correre, temo che la guerra che tanto si paventa insegua anche queste campagne.
Pedalo a fatica sulla salita, casa mia si avvicina sempre più mentre ho già contato sette colpi. Lascio la bici dietro la siepe di allori, corro ad aprire la porta sul retro, poggio la mia sacca di cuoio sulla cassapanca e mi tolgo le scarpe imbrattate di fango, ansimo, la gola asciutta come pelle vecchia. La schiena sulla porta e la cucina davanti a me, zitta e immobile.
Quando ci metto piede è come se di colpo crollassero le mie difese, sospesa e legata a una radice ombelicale che non vuole saperne di seccare. Tendo le orecchie, non si sente anima viva.
Ho vent’anni e voglio decidere da sola cosa indossare, me lo ripeto e intanto frugo nell’armadio di mio fratello Cico e non trovo neppure l’ombra di un pantalone decente.
«Che stai facendo?» Avevo cantato vittoria troppo presto, sobbalzo e sbatto la testa sulla mensola di mezzo. Di solito a quest’ora non c’è nessuno, mia madre è a sparlare con le amiche, mio padre al lavoro, e Cico pure. È mercoledì.
«Chiudi la porta e non gridare.» Serro i denti mentre mio fratello entra in camera sua. «Chi ti ha visto?» lo incalzo.
«Come, chi mi ha visto? È casa mia, entro quando voglio.»
«Intendo se ti ha visto entrare Annina.» Annina è la domestica che alle tre, ogni giorno, si rifugia nella sua stanza per recitare il rosario, ma l’ho spiata dal buco della serratura così tante volte da poter dire che in realtà più che pregare dorme. Si distende sul suo letto come una salma stringendo i grani tra le dita, e poi silenzio, immobile finché la pendola del corridoio la rimette in piedi sempre alla stessa ora.
«Non ne tengo soldi nell’armadio!» Cico se ne frega della mia richiesta e mi prende per un braccio. Quando è diventato così forte? La sua presa mi passa una sorta di corrente che mi si disperde nel petto. L’energia dei suoi diciassette anni.
Lo strattono malamente e continuo a frugare. «Maledetti, non cerco soldi.» Gli sorrido perché ho trovato quello che volevo, i suoi vecchi pantaloni color mandorla. «Voglio questi.» Li indossava quando aveva quindici anni, ora sono almeno venti centimetri più corti, ma a me calzeranno discretamente.
«Jolanda, nostra madre se ne prende una malattia se ti metti i pantaloni.»
«Voglio stare comoda sulla bici e devo arrivare in orario al lavoro, per una volta, una dannatissima volta!», e afferro pure le bretelle.
«E non hai paura?»
Mi volto di scatto. «Di cosa?» Faccio tre passi verso di lui come se fosse un cane randagio da scacciare. «Non la devi nominare quella parola!»
«Paura.» Mi afferra mentre la ripete. «Jolanda, una santa volta ti chiedo di avere paura.»
«E di cosa dovrei avere paura?» lo sbeffeggio con l’accenno di una risata, e lui lascia la presa.
«Delle dicerie della gente, delle malelingue, di fare del male a qualcuno.»
«Quella non è paura, Cico, quella è sottomissione. Io della gente me ne fotto», e non mi copro la bocca per la parolaccia, quando lo capirà sarà troppo tardi. La paura è un’emozione che non mi permetto di provare, non più. «Le uniche parole del mio vocabolario sono libertà e… libertà.»
«E matrimonio…» mi punge nel vivo.
«Ci vuoi arrivare a domani?» Gli mostro il pugno.
«Lo sai che prima o poi ti tocca.» Me lo sta dicendo solo perché è quasi arrivato il suo momento.
«Non mi tocca niente. Nostro padre sa come la penso.»
«E sentiamo. Come la pensi?» Sfoggia quel sorriso beffardo che solo lui sa fare quando conosce già le risposte.
«Prima voglio fare quello che mi pare, poi chi vivrà vedrà!» Intanto osservo i pantaloni, la lana è spessa al tatto, ruvida. Il colore è perfetto, la riga è ben dritta e sono abbastanza nuovi e senza buchi.
«Ma che cosa mangi in paese che hai questa bocca così viperina? Che ci metti nel latte la mattina?»
«Pane e libertà!» Cico incassa. Lui è più piccolo di me di tre anni e, come erede maschio della famiglia, deve sottostare al volere di nostro padre, altrimenti Caput.
«Jolà, non mi far entrare in questa storia pure a me. Prima ti trovi un lavoro, poi te ne vai di casa a vivere con quei pazzi giù a Palermo, poi torni a fregarmi i pantaloni. La mamma ha il cuore che batte come una carrozza quando pensa a te. Fai la brava.»
«Fai la brava, fai la brava» cantileno mentre osservo il mio bottino. Vediamo un po’ come si mettono, saranno larghi ma andranno bene lo stesso. «Voltati.» Alzo il mento, lo provoco e rido perché Cico lo fa veramente e io invece li indosso infilando il vestitino di maglina dentro al pantalone. «Ora guarda.» Faccio un giro su me stessa.
«Sei sfacciata.» Me lo dice sempre anche mia sorella Anita.
«Prova tu ad andare in bicicletta con la gonna.» Infilo il cappotto ed esco fuori. Cico mi insegue, da piccoli era il contrario, mi rubava i giocattoli e a rincorrerlo per la campagna ero io. Lui era in grado di andare così veloce su quelle gambette che mi stupivo di non riuscire ad acciuffarlo. Gridavamo e ridevamo, forse era l’idea della corsa a piacerci. E ci infilavamo tra gli ulivi, alti come campanili, arrivavamo fino alla collina, la stessa che si staglia davanti ai miei occhi, verde come gli smeraldi che mia madre indossa ogni Natale.
Il sole d’inverno mi acceca sbucando audace, mi devo riparare con una mano, ma i raggi si fanno largo tra le dita arrivando sul viso con un tocco tiepido.
«Che devo dire ai nostri genitori?» Cico acchiappa il manubrio della bici e punta il suo fiato su di me. Si sente che ha bevuto qualcosa di forte, si aggiusta il ciuffo corvino che gli arriva fino agli occhi.
Salgo sul sellino e sono felice di essere vestita come un maschio. «Digli che è passata Jolanda e li saluta.» Strattono la bici, ma non abbasso lo sguardo, deve capire che deve lasciarmi andare senza ramanzine. «Digli anche che non te la vuoi sposare, la figlia di quelli, così smetterai di bere a tutte le ore.»
Ma lui non demorde e chiude gli occhi. «Come dovrei dirglielo?» La sua domanda mi spiazza, si tasta la giacca e tira fuori il portasigarette di radica ben lucidata. Con le mani a coppa ne accende una, tira il cerino ai suoi piedi e lo seppellisce con la punta dello stivale, giù, sotto allo sterrato color miele, forse infilandoci anche la disperazione. Vorrei proprio strappargliela dalla bocca, ma la sublime malinconia del suo volto scavato mi trattiene. «Per te è sempre stato più facile, sei quella di mezzo. Anita s’è sistemata, io sono condannato da quando Annina mi allattava, e tu… tu fai la bella vita.»
«Te lo sei scordato che papà non mi ha parlato per quasi un anno quando ho deciso di studiare all’università? L’hai capito o no che mi ha spedito dalla nonna, in Spagna, per farmici restare e sposare quel tipo», mi gratto la testa, «come si chiamava?», non me lo ricordo neppure, «Alvaro!» Cico annuisce, ma pare ancora più disperato per la sua situazione. «E come la mettiamo con quello che mi ha tolto quando mi sono trovata un lavoro?»
«Ma poi ti ha dato tutto, pure il denaro che ti serve per campare.» Si copre il volto con entrambe le mani e se le porta tra i capelli. Concedo a mio padre di aiutarmi economicamente solo per poter avere i soldi per sviluppare le mie fotografie, non ci mangio con quello che mi dà, ci compro quello che mi serve per lo sviluppo, e lui è felice.
«Per la facciata, perché non si possa dire che la figlia degli Ajello se la passa male. Perché nostro padre è orgogli...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La pittrice di Tokyo
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 0.1. Santa Rosalia
  9. 5
  10. 0.2. La notte dell’ascensione
  11. 6
  12. 0.3. Natura morta con uva e anguria
  13. 7
  14. 0.4. Fenicotteri rosa
  15. 8
  16. 0.5. Fiori su carta
  17. 9
  18. 0.6. Paesaggio ukiyo-e
  19. 10
  20. 0.7. Vincenzo Ragusa, ritratto
  21. 11
  22. 0.8. Paesaggio giapponese
  23. 12
  24. 0.9. Trionfo di Bacco
  25. 13
  26. 0.10. Capriccio giapponese
  27. 14
  28. 0.11. Tre conigli
  29. 15
  30. 0.12. Tavole: Tsube, porta medicine e porta pennelli
  31. 16
  32. 0.13. Fanciulla che scrive
  33. 17
  34. 0.14. Ragazza con kimono
  35. 18
  36. 0.15. Colomba su marmo
  37. 19
  38. 20
  39. 21
  40. 22
  41. 0
  42. Ringraziamenti
  43. Copyright