Villa d’Este era come un miraggio. Un palazzo gigantesco, panna e bianco, che si affacciava sul lago di Como. Dietro, svettavano le Alpi. Se prendevi una barca e andavi un po’ al largo, era il primo edificio di Cernobbio che vedevi. Grossa com’era, sembrava fuori scala rispetto al resto del paese, con le sue case basse e la chiesetta a due passi dal porticciolo. Era un hotel di lusso, ovviamente, ma per me Villa d’Este significava solo una cosa: tennis.
Conoscevo quel posto da sempre, perché la casa in cui sono cresciuto era lì accanto. Solo un muro divideva il nostro giardino dall’enorme parco che si estendeva dietro la villa. La nostra era una casa immersa nel bosco, con una vista bellissima. Nel cortile c’erano i cani, avevamo il giardiniere e una governante che assisteva mia madre Giuliana. Quando ero piccolo, guardavo quel muro e mi chiedevo quanto difficile sarebbe stato scavalcarlo.
Il giorno in cui ci provai davvero avevo dieci anni. In effetti superare il muro si rivelò un gioco da ragazzi: era alto appena due metri e, se sapevi in che fessure ficcare i piedi e a che rami aggrapparti con le mani, arrivavi dall’altra parte in un batter d’occhio. Quella prima volta, però, mi sembrò una grande avventura.
Arrivato nel giardino dell’albergo, mi misi a correre a perdifiato. Sentivo il cuore battere all’impazzata per la gioia. Mi sentivo già nel mio mondo, anche se non ne facevo ancora parte ufficialmente: e soprattutto, già allora, quando mi mettevo in testa qualcosa nessuno poteva farmi cambiare idea. È un tratto del carattere che non ho mai cambiato. Il mio obiettivo non era la piscina (per quanto fosse incredibilmente bella) né il gruppetto di amici della mia età. Il mio obiettivo erano i campi da tennis.
Smisi di correre solo quando li vidi comparire davanti a me. Rettangoli rossi che luccicavano nel verde del parco, le palline bianche, i giocatori anch’essi vestiti di bianco. Regolai il respiro e rallentai. Non volevo dare nell’occhio e lì dentro tutti sembravano calmi. Come facessero a restarlo, con lo splendore di quei campi davanti, io proprio non riuscivo a capirlo.
Quando arrivai a bordocampo, mi sedetti e cominciai a guardare la partita. Anche se dovrei dire: “mi persi” nella partita. Il tennis aveva un effetto ipnotico su di me. Le ore sembravano minuti e i minuti secondi. Non avevo idea se i due che stavano giocando fossero semplici appassionati o grandi campioni, ma non mi importava. In un modo confuso, sapevo che quello era esattamente il posto dove volevo essere.
«E tu che ci fai qui?»
Mi voltai verso l’uomo che aveva parlato. Fu solo un istante: subito tornai a concentrami sul campo. «Guardo la partita.»
«Tu sei il figlio di Renato, giusto?» Poi, senza attendere la mia risposta, continuò: «Dov’è il tuo papà?».
Io alzai le spalle e non risposi.
«Ti piace il tennis?»
Sempre senza dire niente, feci cenno di sì con la testa. Un movimento deciso, su e giù.
«Fai bene» disse lui. «Il tennis è una cosa bellissima.»
Non aggiunse altro. Restò un po’ con me a guardare la partita, poi se ne andò. Io continuai a fare quello che stavo facendo finché il sole non cominciò a tramontare e i giocatori non raccolsero i propri borsoni. Le palline vennero radunate e il campo si svuotò. Allora, come risvegliandomi all’improvviso da un sogno, capii che stava scendendo la sera. Dovevo tornare a casa.
Quando scavalcai il muro, scorsi in lontananza mia madre affacciata al balcone. Dal terrazzino di casa nostra si vedevano i campi da tennis di Villa d’Este: mia mamma doveva aver passato la giornata a osservare quel suo figlio strano, così piccolo ma già fissato, che non aveva fatto altro che guardare la pallina bianca andare da una parte all’altra della rete.
Era il 1968. Per il tennis mondiale una data fondamentale, perché nacque il tennis Open: la separazione tra i giocatori professionisti e quelli dilettanti, che impediva ai primi di disputare le quattro prove dello Slam, venne a cadere e, di lì a poco, la fama di questo sport esplose ai quattro angoli del mondo. In Italia, Nicola Pietrangeli – che aveva vinto due edizioni del Roland Garros, 1959 e 1960 – era a fine carriera, e in televisione mi capitava di vedere i nostri migliori atleti in azione: Massimo Di Domenico, Ezio Di Matteo detto “Pancho”, Pietro Marzano, mentre Adriano Panatta, che avrebbe raccolto il testimone di Pietrangeli, era appena maggiorenne e stava iniziando a mostrare il suo talento.
L’uomo che aveva parlato con me quel primo giorno cominciò a tenermi d’occhio. Ma non lo faceva perché temeva che potessi combinare qualcosa di male, lo faceva perché aveva intuito che la mia passione per il tennis era qualcosa di totalizzante. Tutti lo chiamavano Capèt ed era il gestore del tennis club di Villa d’Este. Ben presto cominciò a coinvolgermi nelle attività del club, da quelle meno entusiasmanti come passare lo straccio sui campi in terra o aiutarlo, se del caso, a portare gli asciugamani in albergo, ai primi palleggi: mezz’ora qua, un’ora là... In cambio, mi faceva giocare un po’ con lui.
Crescendo, cominciai a passare tutte le estati a Villa d’Este. E quando posarono i primi campi in Mateco, l’innovativo cemento poroso brevettato dalla Maggi Tennis Costruzioni (MaTeCo, per l’appunto), iniziai a giocare anche in inverno. Coi giacconi, beninteso: a Villa d’Este non c’erano i palloni riscaldati. Mio padre era un membro del Tennis Club e, al sabato, disputava doppi con gli amici che duravano anche cinque, sei ore. Io stavo inchiodato lì, un po’ a guardare, un po’ a giocare.
Più crescevo, più venivo attirato dal tennis: il numero uno del posto era un certo Dario Mainardi, che iniziò a farmi palleggiare con lui. Nei mesi caldi, facevamo match al meglio dei cinque set, dalle due del pomeriggio in poi. Finivamo distrutti.
Mia madre avrebbe preferito vedermi sudare sui libri, però sopportava tutto quel trasporto per il tennis: un po’ perché a scuola me la cavavo, un po’ perché aveva sposato uno sportivo (mio padre, oltre che grande appassionato di tennis, era stato campione di vela e di sci nautico) e comprendeva il mio amore. Soprattutto, era tranquilla, perché poteva tenermi d’occhio dal balcone.
A casa Piatti c’erano poche regole ma precise.
Alle sette di mattina, mia madre veniva a svegliare me, mio fratello Roberto e mia sorella Carolina. Noi, cascasse il mondo, dovevamo fiondarci in bagno. Lì ci sciacquavamo, ci lavavamo i denti, ci pettinavamo, poi ci vestivamo. Infine, scendevamo in cucina.
«Buongiorno, ragazzi» diceva mio padre.
Era in giacca e cravatta, pronto per andare al lavoro. Era un imprenditore tessile. Lui usciva alle otto e noi a quell’ora dovevamo essere tirati a lucido, pronti per salutarlo. A prescindere da quella che sarebbe stata la nostra giornata, se lui usciva a quell’ora, non è che noi potessimo alzarci quando volevamo.
Alle sette di sera, si ripeteva una scena molto simile. Mia madre veniva a chiamarci: io e mio fratello, di regola, ci stavamo accapigliando, prendendoci a botte, promettendoci castighi infernali. Qualunque cosa stessimo facendo, però, dovevamo lasciarla perdere e fiondarci in bagno. Lì ci sciacquavamo, lavavamo le mani, ci pettinavamo, poi ci mettevamo in pigiama. Infine, scendevamo in cucina.
«Buonasera, ragazzi» diceva mio padre.
Era in giacca e cravatta, appena tornato dall’azienda. Lui tornava alle otto e noi a quell’ora dovevamo avere un grande sorriso stampato in faccia, pronti per salutarlo. A tavola, poi, si stava seduti: mio padre veniva servito per primo e quello che c’era nel piatto doveva essere finito.
Insomma, da noi non c’era spazio per il dissenso. Già da piccolo mi fu inculcato il valore del rispetto delle regole. Non sto dicendo che fosse tutto giusto, ma erano le regole, punto e basta. Figlie di tempi lontani. Ma si trattava di valori che, in qualche modo, mi sarebbero rimasti dentro e di cui mi sarei servito quando avrei cominciato a lavorare nel tennis. Mi avrebbero aiutato in tante situazioni.
Da padre, ora sorrido se penso a quei tempi, in cui avevamo il privilegio di trovare in tavola la frutta di stagione perché Marino, il contadino vicino di casa, ci portava tutti i giorni il latte caldo e, a seconda dei periodi dell’anno, i fichi, le castagne, i cachi, le ciliegie, le albicocche e le fragole. Sorrido perché a mio padre, purtroppo, le fragole piacevano molto e, siccome erano poche, mia madre gliene preparava una ciotola intera. A noi figli arrivavano solo nel caso avanzassero. Altrimenti niente, e direi che spesso finiva così. Adesso, con mio figlio, succede l’opposto.
Siccome mio padre lavorava parecchio non aveva troppe occasioni per trascorrere giornate intere con noi. Quindi il pater familias sostituto era mio fratello Roberto, più grande di me di ventidue mesi. Un sacco di volte, mi faceva da scorta e mi toglieva dai guai in cui mi ficcavo, a scuola e con gli amici. Quando mi capitava di litigare con altri ragazzi e ricevevo la classica minaccia «Ti aspetto fuori», solitamente mandavo avanti lui, che era più grosso di me.
Io, lui e nostra sorella Carolina ricevevamo una paghetta settimanale. E, come direbbero oggi i giovani, dovevamo “starci dentro” con le spese: il panino, il biglietto del pullman da Cernobbio a Rovenna… Roberto e io eravamo un po’, come dire, “comaschi”. Taccagni. Quindi andavamo a scuola a piedi e ci tenevamo i soldi per comprare, di nascosto, qualche gioco o qualche dolcetto. In più, a quell’età, fare sette-otto chilometri di salita al giorno era un bell’allenamento: andavamo pure veloci. Anche la frugalità, lo starci dentro con poco, è un tratto del mio carattere che avrei costudito con cura per tutta la vita.
Quando la Rai passava sul primo canale le partite di Wimbledon, io me le sorbivo tutte: mia madre mi preparava l’amarenata con il gelato e io mangiavo con la bocca la merenda, e con gli occhi Rod Laver, Pancho Gonzales e tutti gli altri campioni del periodo. Poi andavo in campo e fingevo di essere uno di loro.
Avevo la vaga percezione di usare il tennis per trovare me stesso e il mio posto nel mondo. A poco a poco, mi resi conto di essere una persona, come amo dire, “monopensiero”: mi interessavano solo quella palla bianca, il campo rettangolare e ciò che ci capitava dentro. Limitante? Banale? A me andava benissimo così.
Più respiravo tennis, più mi sentivo sicuro di me: imparare ogni giorno qualcosa di nuovo, capire una cosa che mi era sfuggita in precedenza mi faceva sentire tranquillo. Vedevo il tennis come un oggetto sconosciuto ma irresistibile, un oggetto da “smontare” come farebbe un meccanico con un motore, per comprendere in profondità come funziona. E per saperlo aggiustare, se si fosse mai rotto. Il problema, semmai, era che avvertivo l’urgenza di dover imparare ancora tonnellate di concetti. Ecco perché avevo tempo soltanto per il tennis.
Inevitabilmente, la scuola non era in cima ai miei interessi. Ma i miei genitori erano stati chiari: volevano che dessi l’assoluta priorità all’istruzione, volevano risultati. Cercai di barcamenarmi. Per esempio, l’anno scolastico era diviso in due quadrimestri: avevo capito che, se mi offrivo volontario per l’interrogazione nei primi giorni di entrambi i periodi, usando la memoria a breve termine della lezione appena sentita, riuscivo a spuntare un buon voto e, poi, spesso venivo lasciato tranquillo dai professori per il resto del quadrimestre.
Era una scorciatoia, di quelle che sul lavoro non avrei mai usato. Ma a scuola ero piuttosto svogliato: quelli, peraltro, erano gli anni delle proteste studentesche e io non ero tipo da assemblee o rivendicazioni politiche: non mi interessavano per nulla, mi “scaldava” solo il fatto di poter restare a casa nei giorni di sciopero.
Se proprio devo individuare un momento nel quale il tennis è passato dall’essere un divertimento a una ragione di vita, mi viene in mente il giorno in cui Dario Mainardi mi chiese se fossi pronto a fare il doppio con lui, al torneo di Menaggio. A voi non dirà niente ma, per me, era come giocare a Wimbledon insieme a Lew Hoad o a Ken Rosewall, due dei più famosi campioni australiani del tempo. Io avevo quattordici anni, Dario ventiquattro. Lui non era solo il mio socio in campo, ma il mio idolo. Arrivammo in semifinale. Già allora, amavo il tennis senza alcun fine che non fosse il piacere di giocare, giocare, giocare. Fino allo sfinimento.
La mia prima racchetta fu una TED, rigorosamente usata; se rompevo le corde, l’incordatura ce la facevamo da soli, con la consulenza del Capèt. A volte, ma solo a volte, riuscivo a usare il budello, che era l’incordatura più pregiata ma anche più costosa, quella dei campioni, ricavata dalle interiora della mucca. Insomma, mi arrangiavo; un giorno, poi, mio fratello, che già aveva l’anima imprenditoriale, usò i suoi risparmi per comprare una macchina incordatrice con i pesetti e iniziò a incordare telai, per noi e per i soci, in modo da intascare qualche soldo extra.
Fu in quel periodo che iniziai a fare sul serio. Presi a frequentare il Circolo Tennis Como, dove c’era a disposizione un pallone pressostatico: con quello, potevo allenarmi dodici mesi l’anno, anche quando fuori nevicava. Verso i diciassette anni ero migliorato parecchio, la mia classifica era passata dalla C, la terza categoria, alla B, la seconda (in serie A c’erano i professionisti, per intenderci). Pian piano diventavo più forte degli altri ragazzi, finché mi chiesero di giocare per una squadra di Busto Arsizio. A poco a poco mi convinsi di poter diventare un professionista, anche se conoscevo i miei limiti e, infatti, professionista non lo sarei mai diventato.
Andai poi a giocare per il circolo T70 di Milano. Fu là che conobbi Beppe Merlo, ex giocatore di Coppa Davis e responsabile tecnico del club, persona eccezionale e grande amante del tennis, che mi tenne con sé per due anni. In seguito giocai anche a Crema e, in doppio con il lecchese Enrico Rigamonti, arrivammo in finale nei campionati italiani assoluti di specialità.
Nel frattempo, mi ero diplomato. Mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza alla Cattolica di Milano, senza obbligo di frequenza. La mia carriera universitaria può essere racchiusa in un verbo: “arrancare”. Come già fatto allo scientifico, anche qui elaborai una, chiamiamola così, strategia: in certi esami, studiavo cinquanta pagine sì e cinquanta no. Non era una tattica, era un azzardo. Come andare al casinò e giocare al rosso e al nero. Mi fermai a otto esami dalla laurea, anche perché Beppe Merlo mi trovò un posto di lavoro part-time alla Scaglia, un’azienda di corso San Gottardo, sempre a Milano. Sono convinto che il foro non si sia privato di un fenomeno.
L’in...