Mi sveglio all’alba, pronta per l’inseguimento del mattino. La luce color miele che stilla dalla finestra della mia camera accende un caldo e profumato bagliore sulle pareti di pino. Drizzo la schiena e guardo fuori, nella luce, finché non distinguo la sagoma di Babusya. Avanza con il suo passo incerto nell’erba alta e gialla del prato, appoggiandosi ai bastoni. Ha un grosso zaino di corteccia di betulla sulle spalle, ed è già a metà strada verso il frutteto che si trova sulla sponda del lago. Socchiudo gli occhi e comincio a contare.
Uno. Infilo i piedi nudi negli spessi calzettoni di lana che mi ha fatto Babusya.
Due. Supero con un salto il tappeto di stracci che ho intrecciato con Mama, spalanco la porta e svolto nel lungo corridoio del terzo piano.
Tre, quattro, cinque. Faccio tre passi di corsa, poi scivolo lungo il corridoio, con i calzettoni che slittano sulle tavole levigate di abete rosso più svelti dei pattini sul ghiaccio.
Sei. Raggiungo la prima rampa di scale, salto sull’ampio corrimano di quercia e sfreccio giù così veloce che sento il cuore accelerare per tenere il passo. Diversi ritratti dei miei antenati reali mi guardano con disapprovazione, ma io li ignoro con un grido.
Sette, otto, nove, dieci. Scivolo lungo altri due corridoi e supero il profilo spettrale della porta segreta che conduce alla cupola che chiamo la Cupola del Musicista, perché ci ho trovato una viola e alcuni antichi spartiti scritti in bella calligrafia che si sono sgretolati quando li ho presi in mano.
Undici, dodici. Ci sono altri due corrimani su cui sfrecciare, altri antenati arcigni da superare e un logoro arazzo scolorito dello stemma reale che sbuffa polvere nell’aria, infastidito.
Tredici. Atterro sulle piastrelle traballanti del piano terra e comincio a correre, perché i calzettoni non slittano molto bene sui motivi a mosaico.
Quattordici. Filo come il vento nella mia parte preferita del castello, la cucina, salutando con la mano il mio papà dai capelli scuri, che sta friggendo quelli che dal profumo sembrerebbero grenki – fette di pane e uova – sull’enorme stufa di ceramica, e la mia mamma dai capelli rossi, che sta versando il caffè da un pentolino di rame con il manico lungo. L’unico segno visibile della mia sorellina è un setoso ciuffetto di riccioli che spunta dalla fascia verde brillante che Mama indossa per tenersi Rosa stretta al petto.
Quindici, sedici. Freno di colpo davanti alla porta di servizio della cucina, infilo gli stivali e il cardigan troppo grande che mi ha fatto Babusya e sorrido, perché sto tenendo un ottimo tempo.
Diciassette. Mi precipito oltre la soglia e volo nel mondo tinto d’oro e di ruggine dell’autunno. Inspiro a fondo e strillo di felicità perché è tutto così bello.
Diciotto, diciannove. Sfreccio lungo la collina verso la sponda del lago. L’aria è fresca e carica dei profumi dolci e terrosi delle foglie cadute e delle noci mature.
«Venti!» grido quando raggiungo Babusya. «Due secondi meno di ieri.»
«Ma sei ancora in pigiama» replica lei senza alzare lo sguardo. «E non hai fatto colazione.» Si sta concentrando su dove appoggiare i piedi e i bastoni sul terreno sconnesso.
«Il pigiama è comodo e non ho ancora fame.»
Allungo un braccio.
Un brontolio seccato rimbomba in fondo alla gola di Babusya, ma mi passa uno dei suoi bastoni e afferra il mio gomito per sostituirlo. «Non occorre che tu mi segua ogni mattina, Olia. Cammino benissimo con i bastoni.» Babusya solleva la testa e i suoi grandi occhi scuri brillano con il riflesso del sole che sorge.
«Lo so. È che mi piace l’inseguimento del mattino. E…» Esito, mentre mi chiedo se svelare a Babusya il motivo per cui la raggiungo qui fuori tutti i giorni. «Quando sono con te, penso di avere più probabilità di vedere la magia.»
Lei ridacchia. «La magia è ovunque tu credi che sia.»
Aggrotto la fronte. Babusya ha un modo di spiegare le cose che sembra allo stesso tempo semplice e complicato, e il vero significato delle sue parole spesso mi sfugge.
Giungiamo all’ombra del folto frutteto, e Babusya mi guida fino al gruppetto disordinato di alberi dalle foglie gialle in fondo. «Allora, oggi che cosa raccogliamo?» domando.
«Mele renette.» Babusya si ferma, io l’aiuto a togliersi lo zaino e le restituisco il bastone. Sbirciamo tutte e due fra gli alberi. Sui rami più bassi sono già state raccolte, ma quelli più alti sono carichi di piccole mele rosse.
Mi sfilo stivali e calzettoni in un lampo e mi arrampico sull’albero più vicino, i piedi nudi che si aggrappano al tronco spesso e ruvido e le mani che afferrano ogni ramo, finché non sono circondata di frutti. Poi faccio passare una gamba oltre un ramo robusto, mi siedo e raccolgo tre mele perfette. Cerco di passarle a Babusya, ma lei si è già avvicinata all’albero successivo. Solleva un bastone, percuote un ramo, e cinque mele cascano ai suoi piedi. Si china a raccoglierle.
«Cosa cucinerai?» chiedo, facendo cadere nell’erba quelle che ho raccolto.
«Una torta di mele sharlotka, per la festa del plenilunio di domani sera» replica Babusya, colpendo un altro ramo con il bastone finché non cadono altri frutti.
Mi lecco i baffi, non solo al pensiero della torta di mele, ma di tutte le cose buone che ci saranno alla festa. Una volta l’anno, quando la luna si fa tonda e rossa per il plenilunio d’autunno, Castel Mila luccica come una mora matura e la Sala Grande si riempie di gente, che porta gli ultimi frutti di stagione sotto forma di torte e marmellate di ogni colore e gusto immaginabili.
Ci saranno musiche e danze per tutta la notte, finché la luna tramonterà e il sole sorgerà di nuovo sul lago Mila. Quest’anno, i festeggiamenti saranno più grandi e gioiosi che mai, perché è il cinquecentenario di Castel Mila.
Sono eccitatissima per la toppa che ho realizzato. È un piccolo quadrato di stoffa, grande più o meno quanto il palmo della mia mano, con una scena applicata sopra. Un membro della mia famiglia ne prepara una ogni anno, e domani aggiungerò la mia alle altre quattrocentonovantanove che compongono la nostra coperta patchwork di famiglia.
Ho sempre sognato di avere un fratello o una sorella, e da quando è nata Rosa non desidero altro che essere la miglior sorella possibile per lei. Sento che la mia toppa è un buon inizio. Mostra quanto le voglio bene, e quando l’avrò cucita sulla coperta attesterà per sempre quanto sono felice che sia parte della nostra famiglia.
Mi volto a guardare il castello, pensando a tutte le avventure che voglio vivere qui insieme a Rosa quando sarà più grande. Le enormi cupole rotonde riflettono così tanta luce che devo schermarmi gli occhi per guardarle.
«Ogni anno brillano di più.» Babusya drizza la schiena e segue la direzione del mio sguardo.
«Papa dice che le tegole di pioppo che rivestono le cupole diventano più argentate col tempo, per questo riflettono più luce.» Tendo il braccio verso un ramo talmente carico di mele che si incurva sotto il peso.
Babusya sbuffa, facendo un verso di scherno. «Tuo padre è un bravo carpentiere che sa tutto del legno di Castel Mila, ne sono certa. Ma non ha mai badato alla magia del castello, nemmeno da ragazzo. Le cupole sono piene della magia che vi è stata rinchiusa per tenerla lontana dal mondo, e ogni anno brillano di più perché la magia sta cercando di sfuggire.»
Guardo di nuovo le loro superfici curve. Sono radiose e lucide come mercurio. «Perché la Cupola del Sole è la più luminosa?» chiedo, sperando che Babusya me lo racconti di nuovo, e che stavolta io capisca le sue spiegazioni.
«Perché la chiave per aprire la porta della magia è nascosta proprio lì dentro.» Un luccichio le brilla negli occhi. «Nessuno ha mai trovato il modo di salire lassù. Io ci ho provato per anni, ma gli spiriti mi dicono che nemmeno loro possono entrare in quella cupola. E anche se potessero, la chiave non è una chiave e la serratura è nascosta da qualche altra parte.»
«Non ha senso.» Scuoto la testa, raccolgo qualche altra mela, poi mi sporgo per lasciarle cadere vicino a Babusya. «Ma secondo te è possibile liberare la magia intrappolata dentro le cupole?»
«Se credi di poterci riuscire, lo farai. La fede è tutto, Olia. Non è mai troppa.»
«Io voglio credere.» Ondeggio appena, come le foglie che frusciano sopra di me, e libero un gran sospiro. «Però non vedo la magia come la vedi tu, Babusya.»
«Nessuno vede le cose allo stesso modo.» Ride. «Ecco perché è importante guardarle da diverse angolature.»
Mi sporgo ancora, finché non dondolo a testa in giù dal ramo. «Vuoi dire così?» Sorrido. Babusya solleva gli occhi esasperata, ma ricambia il sorriso. «Che succederebbe se aprissi la porta della magia?» chiedo.
Babusya fissa a lungo le cupole, come per sforzarsi di comprendere qualcosa.
«Allora la magia sarebbe libera» dice infine.
«Sarebbe un bene o un male?» chiedo, non riuscendo a interpretare la sua espressione.
«Come tutto il resto, dipende da come la si guarda e da dove.» Babusya aggrotta la fronte mentre il vento si alza e soffia in direzione del castello, spettinando il prato e agitando gli alberi del frutteto. Odora lievemente dei luoghi nascosti del castello – di legno di pino caldo, polvere e vecchi libri – ma anche di qualcosa di molto più antico, come le pietre cotte dal sole e la terra riarsa e screpolata.
Refoli d’aria pungente mi si insinuano nel cardigan e nel pigiama. Rabbrividisco, e mi aggrappo più forte al ramo. I capelli mi frustano il viso e lampi di luce dorata mi danzano davanti agli occhi. Smetto di respirare e fisso le scintille piena di meraviglia. Non ho mai visto niente di simile.
Poi, così com’era arrivato, il vento si placa e le luci svaniscono. Resto lì spettinata e senza fiato. È come se – solo per un momento – si fosse sollevato un velo dal mondo, e avessi scorto quello che c’è sotto, simile a un intreccio scintillante.
Mi slancio e salto giù dall’albero, atterrando accanto a Babusya con il cuore a mille.
«Hai visto la magia, non è vero?» Babusya si fa avanti per guardarmi dritto negli occhi.
«Non lo so. Forse…» Mi mordo il labbro. «Come faccio a esserne sicura?»
«Il tuo cuore conosce la verità .» Babusya si avvicina ancora di più e mi bisbiglia all’orecchio: «Il tempo sta per scadere, Olia. Se la porta non viene aperta al più presto, la magia troverà da sola la strada per uscire. E questo sarebbe un male, comunque lo si guardi».
Le parole di Babusya mi colpiscono e si amplificano nella mia mente. Ho sempre cercato la magia perché l’idea mi incuriosisce e mi esalta, ma non avevo mai pensato che potesse accadere qualcosa di brutto se non l’avessi trovata. E se spettasse a me cercare meglio o fare qualcosa di più per raggiungerla?
Una nuova brezza mi turbina intorno, e mi stringo nel cardigan. «Penso che sia solo un vento autunnale» dico a Babusya, cercando di rassicurare più me che lei. Perché in cuor mio sento che non è un vento come gli altri, e che sta per succedere qualcosa. Sento crescere in me un formicolio di eccitazione, ma allo stesso tempo il mio stomaco fa le capriole dalla tensione, perché non sono sicura di essere pronta per questo qualcosa, qualunque cosa sia.