
- 272 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il paese del buio
Informazioni su questo libro
Alice è scappata dal mondo fiabesco di Hazel Wood, e ora lei e gli altri abitanti dell'Oltremondo sono sbarcati a New York, alla ricerca di una vita non magica. Ma condurre un'esistenza totalmente umana non è semplice per Alice. Come si dice, si può togliere Alice dall'Oltremondo, più difficilmente l'Oltremondo da Alice. Ci riuscirà? Non sarà facile: dovrà scoprire chi è a uccidere e mutilare i profughi del suo vecchio mondo, affrontare un potentissimo vecchio nemico, fare i conti con la propria doppia (anzi, tripla) identità, e ultimo ma non ultimo salvare - con il sempre provvidenziale aiuto di Ellery Finch - il nostro povero mondo reale.
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Informazioni
Print ISBN
9788817159425eBook ISBN
97888318061381
Avevo diciotto anni, secolo più secolo meno nel mondo delle fiabe, quando ho dato il mio primo bacio.
Ero all’ultimo anno delle superiori in una scuola di Brooklyn, dopo due turbolenti anni trascorsi nell’Oltremondo. Aspiravo alla normalità, alla routine. A essere sincera, mi immaginavo vestita con un maglione color foglia, intenta a studiare in una biblioteca dalle scaffalature di legno; cosa imbarazzante a ripensarci mentre leggevo Il cuore è un cacciatore solitario sotto i neon sfarfallanti della nostra scuola squattrinata. Se mi sembrava sopportabile, era solo grazie a Sophia Snow.
Forse sopportabile non è la parola giusta. Diciamo che era l’unica a renderla interessante. O forse si potrebbe dire inquietante.
Sophia era una ex Storia come me, anche lei era stata respinta dall’Oltremondo. Occhi grandi, un corpo nodoso da ballerina e capelli neri che si muovevano come alghe. Aveva un viso da ologramma, diverso da ogni angolatura, di quelli che ti viene voglia di fissare finché non ne scopri tutti i segreti. E quando infine capisci che non ci riuscirai mai, ormai ti ha rubato il portafoglio dalla tasca e l’orologio dal polso.
Ai ragazzi Sophia piaceva. Non solo ai ragazzi, ma era con loro che usciva, passando merdose serate non-in-coppia che consistevano più che altro in bevute e passeggiate. Per un po’ mi ero lasciata trascinare, perché per un certo periodo mi sembrava che niente al mondo potesse ferirmi. Mi sentivo coraggiosa, ma significava anche che temevo un po’ di sentirmi insensibile, inumana, e volevo scacciare quella sensazione.
Una sera eravamo in riva al mare. Dall’altra parte vedevamo scintillare il distretto finanziario e osservavo tutte quelle finestrelle grandi come capocchie di spillo ricordando che sotto ogni luce c’era forse una persona e questa persona aveva una storia, e la città era piena di gente con vite completamente diverse dalla mia. Questo avrebbe dovuto farmi sentire meno sola, immagino, e invece pensavo che nessuno di loro, nemmeno uno, poteva capire che cos’ero né che cosa avevo visto e nemmeno da dove venivo. Gli unici che lo capivano, tra cui Sophia, erano a pezzi. Alcuni erano infranti come vetro affilato e brillante, altri si erano rotti in frammenti polverosi che la città spazzava via. Un po’ ubriaca di tiepida Coca-Cola corretta, mi chiedevo come sarei stata io e mi commiseravo tanto che avrei dovuto vergognarmene.
Uno dei ragazzi di Sophia – ce n’erano tre quella sera, due che avrebbero potuto piacerle e uno che faceva da spalla – stava seduto vicino a me. Era uno di quelli che spiccava, abbastanza figo, con due righe rasate attraverso le sopracciglia. Avevano un significato, ho pensato, ma non riuscivo a ricordarmi quale.
Siamo rimasti un momento in silenzio.
«Lo sai, ogni tanto ti guardo.»
Non meritava una risposta, quindi non dissi niente.
«Sei silenziosa, ma mi piace. Hai un’anima grande, vero?» Sorrise tra sé quando lo disse, come fanno quelli convinti che pronunciando finte frasi sensibili una ragazza si spoglierà all’istante. Anche se non avevo ancora baciato nessuno, non significava che non conoscessi le battute studiate.
«Che cosa te lo fa pensare?»
«Sei così piccola» ha risposto, criptico. Era ovvio che avesse esaurito il repertorio. «Ma sento che hai proprio una grande anima.»
«A dire la verità non so nemmeno se ho un’anima.» Lo dissi all’orizzonte. «Se è l’anima a renderci umani, allora probabilmente no, non ce l’ho. A meno che l’anima non sia qualcosa che ci può allevare, ma non credo. Quindi niente anima. Solo per spiegarti perché la tua frase a effetto non funziona con me.»
Era la cosa più vera che avessi detto da tanto tempo, e il mio discorso più lungo di quella sera. Mi chiesi se si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato, o se fosse disorientato e mi avrebbe dato della stronza. Invece sorrise.
«Cazzo quanto sei strana» disse. Poi mi baciò.
Non era tanto semplice. All’inizio mi irrigidii, poi abbassai la testa e mi voltai. Infine mi ritrassi e cercai di rialzarmi perché non sembrava che cogliesse il segnale.
«Aspetta, aspetta» disse, ridendo. Mi passò un braccio intorno alla vita, ed era così forte che mi tenne ferma come se fosse una cosa da niente. Non è che avessi proprio paura, ma non potevo nemmeno sfuggirgli. La sua bocca sapeva di Coca-Cola e aglio, ed era molle come se la pelle fosse morta.
La parte di me che avrebbe potuto ammazzarlo per questo, al tempo del “c’era una volta” – quella che avrebbe potuto mutargli il sangue in ghiaccio con un tocco – mi frizzava nel petto. L’Oltremondo che c’era stato in me si era prosciugato ed era fuoriuscito fin quasi a svanire. Forse viveva dove si sarebbe trovata la mia anima se fossi stata davvero umana. Ora non ero nessuno dei due – né Oltremondo né umana – e con quel modo che aveva lui di premere il viso contro il mio facevo fatica a respirare.
Poi all’improvviso ansimavo, e lui gridava e i punti del mio viso in cui la sua pelle si era schiacciata contro la mia erano umidi di sudore freddo. Ci volle un attimo confuso perché mi rendessi conto di ciò che vedevo: Sophia lo aveva trascinato via da me prendendolo per i capelli e lo aveva sbattuto a terra. Gli diede un paio di calci, efficaci e mirati, mentre i suoi amici gridavano «Oh, merda!» senza fare niente per aiutarlo. Per tutto il tempo lei tenne una sigaretta accesa tra le labbra, come se non valesse la pena buttarla via mentre si occupava di lui.
Alla fine gli pestò il collo con una scarpa da ginnastica sporca. Sembrava che lo facesse parecchio forte, perché lui farfugliava rantolando ma non è che lo si capisse. Quando cercò di tirarla giù per una gamba, Sophia fece un passo indietro e gli mollò un altro calcio, poi si chinò su di lui per guardarlo in faccia.
«Morirai prima di compiere trent’anni» disse soffiandogli il fumo negli occhi. Non era un commento offensivo, solo una constatazione. «In un incidente. Per lo meno in fretta. Se può essere un bene.»
I suoi amici lo stavano aiutando a rialzarsi, dandole della pazza e anche peggio, ma attenti a non avvicinarsi troppo.
«Cosa?» continuava a dire il ragazzo con il viso chiazzato di paura. «Di cosa stai parlando? Perché dici così?»
Non rispose, mentre li guardava trascinarsi indietro e andare via, urlando orrendi insulti.
Quando se ne furono andati, si voltò verso di me.
«È stato il tuo primo bacio, con quello stronzo?»
Forse. Una specie. Per lo meno in questa versione della mia vita. Era troppo complicato per approfondire, quindi mi limitai ad annuire.
Si inginocchiò accanto a me, mi mise le mani sulle spalle e premette le labbra sulle mie. Sapeva di fumo e zucchero e sotto, una corrente verde elettrico che mi solleticava, probabilmente l’ultima traccia dell’Oltremondo, o una qualche magia che le permetteva ancora di guardare gli altri e capire cose che non poteva sapere. Dove e quando sarebbero morti, per esempio.
«Ecco» disse, scostandosi. «Dimenticati di quel ragazzo. È stato questo il tuo primo bacio.»
Mi piace ricordarmelo quando penso a Sophia Snow. Un piccolo gesto di gentilezza a dimostrare che gli abitanti dall’Oltremondo non avevano sempre cattive intenzioni. Ma non appartenevano a questo mondo, era questa la verità. Le crepe che producevano erano sottili, ma le crepe possono far crollare una città.
E se loro non appartenevano a questa realtà, be’, nemmeno io. Eravamo predatori sguinzagliati in un mondo che non era fatto per resisterci. Fino all’estate in cui diventammo prede.
2
Il giorno in cui Hansa la viaggiatrice morì, soffocavo sotto una toga sintetica in un’aula magna a Brooklyn.
Sophia si era iscritta alla scuola superiore insieme a me, ma non ce l’aveva fatta ad arrivare alla maturità. Non era durata nemmeno un mese. Le voci sul motivo della sua espulsione discordavano. Un furtarello trascurabile. Un atto di vandalismo non tanto trascurabile. Una storia con un professore. La sua terrificante sicurezza, prodotto di un cervello antico e di un ardente desiderio di morte infilati nel corpo di un’adolescente.
Quest’ultimo era il principale, credo, ma erano tutti veri in qualche misura. Avrei potuto andarmene con lei se non fosse stato per Ella. Mia madre, accesa dall’orgoglio di vedere sua figlia diplomarsi. Ci ero arrivata per un soffio, avevo fatto qualche recupero di ginnastica ed ero andata a prendere una toga blu inamidata in segreteria, che frusciava come un vestito da ballo e sembrava una tonaca.
Era una soffocante domenica di giugno quando attraversai il palco per avvicinarmi al preside e alla sua pila di finti diplomi, perché quelli veri arrivavano per posta. Avevo una strana sensazione che mi gonfiava il petto mentre mi avvicinavo a lui: era orgoglio. Ce l’avevo fatta. Avevo realizzato qualcosa. Mi ero strappata via il cappio delle favole, ci avevo dato dentro e avevo conseguito qualcosa a cui non ero destinata. Socchiusi gli occhi scrutando la platea in cerca di Ella, nel suo vestito da sera nero e gli stivali con le stringhe inadatti alla stagione.
La trovai verso il fondo, con le dita infilate in bocca per fischiare. Alzai una mano per soffiarle un bacio, poi scorsi la donna seduta dietro di lei, abbastanza vicina da allungare una mano e toccarla.
Aveva i capelli color sangue, come il cappuccio di una mantella rossa, e gli occhi nascosti dai cerchi affumicati di lenti comprate da un ambulante. Mi sorrise quando vide che la guardavo, e si protese finché non sfiorò con il mento la spalla di mia madre. Poi alzò un dito e lo piegò a uncino. Vieni.
L’aria nell’aula magna si espanse un po’ mentre le due metà della mia vita si incontravano e si respingevano come magneti con la stessa carica. Inciampai, tornando al posto; i miei piedi erano stupidi all’improvviso. Una volta seduta, mi allungai per guardare intorno ma non riuscivo a vedere oltre la marea di tocchi degli studenti.
La donna era dell’Oltremondo. Si chiamava Daphne ed era il motivo per cui mi ero tenuta lontana dalle altre ex Storie per mesi.
Gli applausi mi distrassero. La cerimonia era finita e i miei compagni ridevano e gridavano come se avessimo fatto qualcosa di concreto. Per un attimo fui d’accordo con loro.
Mi affrettai a raggiungere la hall non appena fui libera, in cerca di Ella. La trovai che mi sorrideva, raggiante, dietro un mazzo di ibischi blu.
«Ehi, tu» disse, mentre l’afferravo e l’abbracciavo forte.
«Ehi, stai bene?»
«Se sto bene? A meraviglia.»
Si scostò senza lasciarmi. Benché mi fossi fatta crescere i capelli e li avessi tinti più scuri, non ci assomigliavamo affatto. È strano come riusciamo a ignorare le cose che non vogliamo vedere.
«E ora che cosa facciamo?» Aveva la voce emozionata. «Io ho un vestito, tu… che cos’hai sotto la toga?»
«Eh. È settimana di bucato.»
Fece una smorfia. «Non so cosa significa, ma comunque io ho addosso un vestito e non voglio sprecarlo. Scegli un posto elegante, usciamo a pranzo. Ci prendiamo un gelato!»
Avrei dovuto farlo. Avrei dovuto mettere su un sorriso e permettere a mia madre di portarmi fuori a festeggiare il giorno che né io né lei pensavamo sarebbe mai arrivato. Ma non ci riuscii. Perché Daphne era lì e si era avvicinata tanto da poterci toccare. E il bisogno di sapere che cosa voleva da me era come una spina sottopelle.
«Domani?» chiesi di colpo, esaminando la stanza alle sue spalle. Al vedere la sua espressione delusa continuai ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- 1
- 2
- 3
- 4
- 5
- 6
- 7
- 8
- 9
- 10
- 11
- 12
- 13
- 14
- 15
- 16
- 17
- 18
- 19
- 20
- 21
- 22
- 23
- 24
- 25
- 26
- 27
- 28
- 29
- 30
- 31
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- 40
- 41
- 42
- RINGRAZIAMENTI
- Copyright