RAFFAELLO
«Questo smoking è uno straccio, non vorrai mica presentarti così stasera, Fred. Ti fai sempre riconoscere. Sembri il contrabbassista della Banda Bassotti.»
«Ma la Banda Bassotti non ha un contr…»
«Ti spacco la faccia! Uà tah!» Questa volta quasi lo prendo, oscillo come un pendolo. Ma mi piace troppo imitare male Bruce Lee.
«Che caratterino che abbiamo oggi. Il volo Tokio-Napoli si fa sentire?»
«Se lo sai perché non vai al sodo? Non giocherei coi miei nervi al momento. Cosa vuoi?»
«Gina sta arrivando con il ferro da stiro per il vestito. Fatti un tiro, dài.»
«Hai la sensibilità di un pachiderma. Passa.»
Fare i cerchi col fumo, da adolescente, mi faceva sentire Chet Baker. Invece mi ha solo fatto venire il vizio e un tic alle mandibole. Con la tromba però alla fine ho fatto bene, almeno con lei. L’unica “femmina” che dopo così tanti anni non ho mai tradito.
La amo come il primo giorno. E quando la bacio, facciamo sempre qualche magia, anche davanti a un sacco di sconosciuti. Siamo spiriti liberi, non ci spaventa nulla, non ci vergogniamo quando siamo insieme. Peccato sia solo un pezzo di latta stonato e impreciso per natura, peccato non poterla sposare per davvero, mi sarei levato un bel mazzetto di rotture di coglioni con l’altro sesso, quello in carne e ossa.
Ricordo benissimo il giorno in cui decisi che sarebbe diventata la mia missione di vita. Avevo sette anni e papà mi portò a vedere Mo’ better blues di Spike Lee. Lui amava più Spike Lee della musica, ma per me fu il contrario. Nonostante il finale tragico capii che gli “artisti” cuccano un casino, perché emanano figaggine ma allo stesso tempo sono enigmatici, maledetti, attorcigliati sulla loro passione, ritorti, proprio come gli ottoni.
Diverso fu l’entusiasmo della prima nota emessa, che sembrava non arrivare mai. Mi ci sono voluti tre mesi solo a tentar di far uscire un suono, uno davvero qualsiasi, da quel maledetto pezzettino di tromba: il bocchino. Ora, si sprecano le battute. Non le farò, che “lei suona il piano e lui la tromba” è solo la punta dell’iceberg di una vagonata di battute che mi sento ripetere e mi si ripropongono pure a mente, tormentandomi. Non importa rango, estrazione sociale o culturale che sia. Le parole “tromba” e “bocchino” insieme portano veramente tutti là col pensiero. Anche il Dalai Lama, ci scommetterei, se parlasse italiano.
Quando penso che ho iniziato a suonare per sentirmi meno sfigato, sorrido. Mi ha salvato la vita questa qui, altro che fare il figo. Anche se poi figo lo sono diventato davvero, devo ammetterlo. E anche modesto.
Mamma era morta da poco più di un anno, avevo ancora ben chiaro il suo viso. Giorno dopo giorno si affievolì il ricordo, fino a esistere solo nelle fotografie e in alcune poche frasi e flashback, che ora che ho trentasette anni sono tutto quello che mi rimane. Scatto polaroid perché mi sembra che in ogni foto ci sia dentro anche lei, che ormai vive solo lì, impressa su una carta fotografica, e nei ricordi che mi evocano le sue immagini.
Il rumore assordante di questo strumento copriva i pensieri brutti, cancellava le mancanze, compensandole con ore e ore di esercizio. Mi riempiva una vita da bambino svuotata dell’amore mio più grande, mia madre.
Papà è stato in gamba. Non si è buttato via, o almeno così mi faceva credere. Non appena sono diventato grande, ho riconosciuto la nota blues anche dentro i suoi occhi, quel tipo di lutto non te lo togli mai di dosso, così prematuro, così inaccettabile, così e basta. Siamo rimasti lì, senza di lei, a guardar le lucciole d’estate, a correre con la bici giù per la discesa dei girasoli, a continuare a immaginare, a contar le nuvole, senza mai sperare in nulla, solo con tanta voglia di fare ed esplorare un mondo che, visto da casa, mi sembrava così grande che volevo bermelo tutto d’un fiato.
Il fatto che sia andata in questo modo mi regala una sorta di pace interiore. Se avessi scelto diversamente, se avessi preso vie più facili, quelle della mediocrità, di chi si siede lì punto e stop, non mi sarei mai perdonato, perché mamma non me l’avrebbe lasciata passare.
“Siamo persone curiose noi, Raffy, siamo proprio come le falene, attratte dalla luce, dal bello, dal nuovo e dal diverso. Non resteremo mai nel buio, ma dobbiamo stare attenti, se vai troppo vicino scotta e ti bruci, o anche peggio.”
Me lo disse mentre piangevo, tenendo in mano la gigante farfalla morta sullo zerbino di casa, di quelle che oggi non si vedono più, si saranno estinte da sole, ’ste sfigate, forse stavolta non c’entriamo noi. Dico, questa cosa della luce, luce dopo luce, dopo luce dopo luce, ciao falene pachidermiche. Ma a me mamma m’ha avvisato, anche Jim Morrison se è per questo, però l’ho scoperto dopo, a quattordici anni, ascoltando i Doors.
Non so perché ho questo ricordo. Forse la morte mi aveva spaventato, era il mio primo contatto in assoluto con qualcosa privo di vita e certe cose non si dimenticano, per fortuna. C’era lei con me quel giorno, è stata un dono quella povera bestiola.
Purtroppo non ho tanti altri ricordi oggi, ma ho ben chiaro che mi chiamava Apollo, perché ero per lei bello come un dio. “E come Apollo puoi volare in alto e sognare quello che ti pare, lo realizzerai. Non c’è niente che ti potrà fermare.”
Le piaceva leggere Kundera, era una romantica. La storia di Apollo viene da lì, è in uno dei suoi libri preferiti, La vita è altrove. Ne aveva una libreria piena e li ho letti tutti, sperando mi rivelassero qualcosa su di lei, per imparare a conoscerla, ora che era svanita. Quel libro di Kundera, in particolare, mi ha insegnato la profondità del legame madre-figlio. Guarda il destino che pezzo che mi ha fatto, me l’ha strappata così presto, ma si è sincerato di farmi capire quanto una madre viva per la felicità del proprio figlio. Forse non è stato il fato però, ora che ci penso bene, è stata lei a indicarmi quelle letture, quasi sapesse che se ne sarebbe dovuta andare subito, senza poter gioire delle mie gesta.
Mi ha lasciato i libri di Kundera e mi chiamava Apollo perché voleva leggessi dell’amore più grande del mondo, quello materno nei confronti del proprio frugoletto. Voleva che sapessi, che capissi, o per lo meno lo potessi ricordare o immaginare per sempre.
«Devo tagliarmi la barba, sembro un naufrago.»
Fred non capisce che non è la barba il problema.
«Questo tabacco è troppo secco, ma ci hai messo qualcosa qui dentro?»
«Tornato il bel carattere di Bruce Lee?»
«Sei tu che m’ispiri la poesia e non mi sembra “piena d’olio”.»
«Tu e le tue citazioni.»
«Nuti, era Nuti in Donne con le gonne, che film… Ma, aspetta… Cos’è questo odore?»
«No, io…»
Eccolo che sventola, quando mi scoreggia in camera è peggio che in van.
«Me la stai tirando addosso come un boomerang, almeno smettila di fare aria verso di me con quelle zampacce. Apri la porta. Cristo.»
Boom.
Il cielo è di quel colore che quando lo vedi lo vuoi tutto per te e guardarlo non ti basta, soprattutto se le tende tirate e il poco ossigeno lasciano immaginare un contorno noioso.
Adesso mi tuffo sulla riga dell’orizzonte e trovo una sirena bionda con due tette enormi ad aspettarmi. Sbatto le palpebre tre volte, giravolta e…
Niente.
Sono ancora qui con Fred, ma l’aria sa già di mare.
«Aaah, la salsedine.»
«Mi fa venire fame, il mare.»
Certo, cos’è che non gli fa venire fame? Ma lo tengo per me, non voglio essere più antipatico di così. Speriamo che giri, oggi sento bad vibes intorno. Probabilmente sono solo stanco, ecco che c’è.
Per due giorni bloccato in mezzo al blu, su un ammasso di lamiera allestito manco fosse il Titanic.
Ma chi me l’ha fatto fare di accettare questo premio, io che nei premi non ci credo neanche, su una nave da cvocieva con la evve di Voma. Lanciatemi una scialuppa in mare e io mi ci butterò sopra e non mi rivedrete più. Peraltro il premio l’ho visto sul sito e devo dire che è veramente trash. Un cavalluccio marino di quaranta centimetri con una stella enorme sul petto e due note musicali, due ottavi legati, attaccati sopra la testa.
È per una buona causa e poi così sto lontano da casa un altro paio di giorni. E comunque non posso scappare, nessuno mi porterà a riva.
Definizione di casa per noi zingari musicali: La Mecca. Il nirvana. Marte, se sei un marziano.
La quintessenza dell’essere, quattro mura che vedi trenta giorni all’anno, più o meno.
Purtroppo mi ritrovo nella condizione in cui preferisco stare qui, anziché tornarci. Dovrei fermarmi a riflettere, peccato solo che il verbo riflessivo “fermarsi” e la mia persona siano agli antipodi.
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