L’istante dopo, Leo e io siamo nell’atrio del museo. La pioggia battente si insinua anche all’interno, facendomi scivolare sulle piastrelle bagnate. Nel tentativo di fermarmi, crollo a terra.
Con i palmi sul pavimento, riesco finalmente a inspirare qualcosa che non sia per metà acqua. Leo chiude la porta e se non altro siamo al riparo. Ora il muro d’acqua sferza le vetrate, ed è soltanto un forte rumore di sottofondo.
Dentro il museo, l’aria è immobile. Minacciosa. È anche buio: la luce filtra a malapena, in mezzo alla tempesta. In un angolo, brilla spettrale la luce rossa di un’uscita di sicurezza.
Nel silenzio, i pensieri mi raggiungono e si depositano.
Il fascio di luce non era un elicottero. Non sta venendo nessuno a salvarci.
Mi manca il respiro, ma riesco a soffocare un singhiozzo. Sono sull’orlo di una crisi di nervi in piena regola.
Leo scuote i capelli come un cane che ha appena fatto il bagno. «Cavoli! È stato veramente assurdo!»
Premo le dita sugli occhi, per impedire che si riempiano di lacrime, ma Leo è troppo impegnato a camminare davanti alle vetrate per accorgersi che sono ancora a terra.
«Sembra di essere in un autolavaggio» dice, sbirciando fuori. Cerca di fare il disinvolto, come se il temporale non lo avesse turbato, ma so che non è così, ormai lo conosco. È soltanto una sagoma scura nella penombra, ma lo vedo dondolarsi sui talloni, mentre rigira l’anello del pollice.
Si volta e percorre l’atrio con lo sguardo. Finalmente, si accorge che sono sul pavimento.
«Oh, merda. Hannah, stai bene?»
Gli faccio cenno di sì, o forse è un no, non lo so. Ho la vista annebbiata da un velo di lacrime pungenti.
Fa un passo verso di me, poi torna indietro. «Mmh, oh, un attimo» dice. «Vado ad accendere qualche luce.»
Chiudo gli occhi. Respira, Hannah. Datti una calmata.
Sto bene. Sono al riparo dalla pioggia e Leo è qui con me, siamo vivi.
Probabilmente.
Mi concentro sul respiro, contando i secondi di ciascuna inspirazione ed espirazione, ancora e ancora, finché non sono pronta ad aprire gli occhi.
Rabbrividisco. Il museo è gelido. Addormentato. L’aria condizionata ronza sommessamente. Ho i vestiti bagnati, ma non ci posso fare granché.
Leo è alla biglietteria e sta sfogliando dei documenti. «Tieni duro» dice. Trova un interruttore e sopra di lui si accende una lampada. Il fascio di luce è così circoscritto e mirato, che Leo sembra sul punto di essere rapito da un’astronave.
Continua a frugare. «Ooh, ho trovato le istruzioni» dice. «Per fortuna lo stagista doveva imparare ad accendere le luci.» Si accomoda sulla sedia girevole e studia un pannello incorporato sotto la scrivania. «Ecco. Penso di aver capito.»
Si sente il ronzio dell’elettricità e poi si accendono centinaia di luci in tutto l’edificio. Il corridoio che si dirama alla mia destra comincia a illuminarsi. Leo preme altri pulsanti sullo schermo e si illumina anche l’atrio. Istintivamente, alzo la mano per ripararmi gli occhi.
«Ahi, troppo intensa» dice, premendo di nuovo i pulsanti. Le luci dell’atrio si spengono, a parte quelle attorno alla scrivania, e l’oscurità ci avvolge di nuovo.
Non dovrebbe essere così. Dovrebbe essere tutto illuminato. Alla biglietteria dovrebbe esserci qualcuno, che rimprovera Leo per il casino che fa. Dovrebbero esserci visitatori ovunque, incantati o annoiati, che cercano di fare colpo su qualcuno durante il primo appuntamento. Invece l’atrio è deserto e silenzioso.
Leo esce da dietro la scrivania e si china su di me. «Va meglio? Cosa posso fare?» mi chiede.
«Sto bene. Non ho bisogno di nulla» rispondo. A parte che dei miei genitori e di Astrid, e che quest’incubo finisca, soltanto che non succederà .
Mi aiuta ad alzarmi e mi porge il braccio. Sto tremando dalla testa ai piedi, ma l’incavo del suo gomito è morbido e caldo, e assorbe i miei brividi.
La sua maglietta è così bagnata che gli si è incollata addosso come una pellicola trasparente. I capelli non sono più spettinati con cura: sono spettinati e basta.
Mi accompagna alla biglietteria. Ora che lo shock è passato, sento un dolore sordo allo zigomo.
«Ahi» dico, portando la mano al punto dolente che ho sul viso.
«Cosa c’è?» mi chiede Leo, preoccupato.
«Deve avermi colpito qualcosa» spiego. «In mezzo a tutta quella confusione, non me ne sono nemmeno accorta.» Qualsiasi cosa fosse, è arrivato a un centimetro dall’occhio.
«Stai… sanguinando?»
Tolgo le dita e controllo, ma nonostante la penombra capisco che non c’è sangue. «No. Penso che sia soltanto un livido.»
«Fammi vedere. Se sei sicura di non sanguinare» dice, rivolgendomi un sorriso imbarazzato. Si avvicina, spingendomi contro la biglietteria.
La mia schiena preme contro il bordo di marmo del bancone. Come succede ogni volta che siamo così vicini, il mio corpo comincia a fremere. Sono sicura che sto per perdere il controllo e dargli un bacio.
Per non cadere in tentazione, mi metto seduta sul bancone. Ecco fatto. Anche se è proprio di fronte a me, i nostri visi sono distanti almeno trenta centimetri.
L’idea geniale di mettermi a sedere sul bancone funziona per due secondi esatti, perché quando si avvicina per controllarmi il viso, con l’altra mano mi prende il ginocchio e lo sposta di lato.
Smetto di respirare.
Ora è tra le mie gambe.
Non respirare, non respirare. Se resto immobile, riuscirò a gestire la situazione senza che il mio corpo faccia ciò che vuole fare disperatamente, cioè tirarlo a me e…
Mi prende teneramente la guancia e preme il pollice sul livido. Sussulto, ma sono grata a questo dolore. Mi permette di restare concentrata. Mi impedisce di perdermi del tutto.
«Scusa» dice. «È un brutto livido, Hannah. Sta già diventando viola. Sembri appena uscita da una rissa da bar. Sarebbe meglio cercare del ghiaccio.»
«Sto bene. Non è niente.»
I lividi sul viso non sono all’ordine del giorno, nella danza, ma questa è una cosa che posso gestire senza problemi.
Anche se non c’è sangue, Leo è impallidito e ha la fronte increspata per la preoccupazione. Mi tiene la mano sul viso, inclinandolo da una parte e dall’altra. È concentratissimo e così gentile. Il fatto che mi stia aiutando, che stia facendo qualcosa per sincerarsi che stia bene, mi stringe il cuore.
Mio malgrado, chiudo gli occhi.
Dio, vorrei che non mi piacesse così tanto. Vorrei spegnere i miei sentimenti come una candela, perché è ovvio che lui non li ricambia.
E poi sento la sua mano sul ginocchio.
Apro gli occhi e mi accorgo che mi sta guardando la gamba. Le sue dita sono caute, come se toccassero un animale selvatico pronto a fuggire da un momento all’altro.
«Hai dei muscoli pazzeschi» dice piano, sfiorandomi la gamba fino alla caviglia.
E non li sto nemmeno contraendo. Tendo un piede per irrigidire il polpaccio e Leo deglutisce. La sua mano torna lentamente sul mio ginocchio, molto lentamente, indugiando sulla curva tesa del polpaccio.
Mi sta toccando.
Non avevo idea di poter desiderare questo genere di carezze. Che potessero trasmettere sensazioni così intense. È come se mi dicesse: mi piaci, ci tengo a te, ti VOGLIO.
Vorrei credergli, ma ho imparato la lezione.
Chiudo di nuovo gli occhi e immagino Leo che si protende verso di me, il palmo della sua mano che scivola più in alto, sulla mia coscia. Vengo travolta da un’ondata di calore.
Devo smetterla di pensarci.
Quando riapro gli occhi, mi sta guardando anche lui, risucchiando tutto l’ossigeno che c’è nella stanza.
«Tutto bene?» mi chiede. C’è una nuova nota ruvida nella sua voce. Qualcosa, in lui, mi ricorda un leone in agguato, il suo brontolio sordo, la sua potenza trattenuta.
Non riesco a parlare e il momento si trascina troppo a lungo.
Le sue mani scivolano via, poi fa un passo indietro.
Voglio sentire di nuovo il suo calore. Voglio stringere i suoi fianchi tra le mie ginocchia.
Non sento più il dolore sulla guancia: il brivido provocato dalle sue carezze ha fatto sparire tutto il resto.
Leo mi porge la mano e mi aiuta a scendere dal bancone. Per un istante, mi sembra di cogliere qualcosa, sul suo viso. L’immagine riflessa del desiderio che sto provando.
«Forse rimarremo bloccati qui per un po’» dice in tono distaccato, lasciandomi andare la mano non appena ho di nuovo i piedi a terra. «Tanto vale approfittarne e fare un giro.»
Faccio un respiro profondo per ricompormi.
Respira. Dimentica quello che è appena successo.
Percorro in un lento girotondo l’atrio del museo. L’edificio è a nostra completa disposizione.
Qualcosa si muove, dentro di me. È un movimento quasi impercettibile, ma cambia tutto. Ho letto libri in cui il protagonista si ritrova da solo in un museo e mi è sempre sembrato un meraviglioso privilegio. Ho persino sognato a occhi aperti di vivere un’esperienza del genere, in gita scolastica. Mentre i miei compagni di classe coloravano disegni di dinosauri, io me ne stavo in disparte, immaginando di essere sola. Di arrampicarmi sulla gabbia toracica di uno scheletro gigantesco. Di sdraiarmi sotto il cielo scintillante del planetario, senza nessuno attorno. Di non dover vedere di corsa le sale virtuali per far posto agli altri visitatori.
«Andiamo?» mi chiede Leo.
Annuisco. Se c’è qualcosa che può farmi dimenticare la tempesta, è proprio questo. Forse, invece di soffocare la mia immaginazione, una volta tanto potrò liberarla.
Percorriamo un corridoio illuminato e arriviamo alla prima galleria. È più piccola dell’atrio e ha il soffitto di vetro. La pioggia scende implacabile dal cielo nero sopra di noi.
Quando il mio sguardo si posa sulle pareti, mi sento sprofondare. Con tutti gli artisti esistenti al mondo, proprio questo doveva capitarci?
«Ehi, guarda! Delle ballerine!» dice Leo.
Attraversa la stanza per guardare i dipinti. Lo seguo. Figuriamoci se non doveva esserci Degas: il pittore francese ossessionato dalle ballerine.
«Questo tizio è molto famoso, vero?» mi chiede Leo. Scavalca la corda di velluto per dare un’occhiata da vicino.
La leggera irritazione è tornata. Probabilmente, Leo mi considera una versione aggiornata delle ragazze raff...