Il loro Olimpo era su una collina di Casaccio sul Cervo – un paese vicino a Biella seduto su un fiume e appoggiato ai monti – e odorava di legno, vernici e metallo di un tempo. Il nonno di Giacomo, raggiunti i settantacinque anni, aveva abdicato alla sua vecchia falegnameria, abbandonando quell’hobby che gli faceva passare i fine settimana a trasformare mobili logori in qualcosa di utile e lasciando la casetta al suo destino.
Un destino raccolto a sua insaputa dal nipote, che aveva trovato la chiave della casetta quasi per caso e l’aveva trasformata nel rifugio segreto della banda.
La banda degli Dei.
Un gruppo di amici dai tempi delle prime maestre, una banda dalla scoperta del libro, del mito e degli Dei. Che se dovevano darsi un nome, tanto valeva puntare in alto. Molto in alto.
Giacomo, dodici anni e undici mesi, tornò a sedersi sul vecchio banco da lavoro. Era il più grande della compagnia, padrone dell’Olimpo senza farlo pesare, unico lettore del libro e Marte, nella banda. Accanto a lui era seduto Leonardo, un Apollo di dodici anni e nove mesi, gambe incrociate e tra le mani la chitarra, che taceva solo quando Giacomo raccontava.
Seduto in precario equilibrio su due cavalletti, con la schiena appoggiata alla parete, c’era il Dioniso della combriccola, Bartolomeo, undici anni e undici mesi, faccia rotonda, divoratore di dolci e di fumetti.
Su un vecchio panchetto, al solito, stava appollaiata Delia, Artemide in jeans e sorella di Leonardo, dieci anni e mezzo, impegnata a incidere un bastone di legno. La prima media le stava stretta, e a ben vedere anche la scuola: era molto più interessante scivolare fuori dalla classe ed esplorare il mondo. O anche solo il bosco. Se non la beccavano.
Per terra, a pancia in giù, concentrata sulle pagine di un album da colorare, la più piccola del gruppo, cinque anni e nove mesi, Carlotta alias Mercurio. Come il dio, ma anche come quei pazzi pallini argentati che stanno nel termometro di vetro della nonna, ci teneva a chiarire.
E sempre per terra, con le gambe piegate di lato sotto una gonna a fiori, lei, sua sorella Isabella, undici anni e dieci mesi, una Venere dai capelli lunghissimi e luminosi, come se un raggio di sole la seguisse perennemente.
Sofia, sulla soglia dei dodici anni, aveva sempre desiderato dei capelli così. Forse non sarebbero stati belli come quelli della sua amica, ma magari, coi capelli lunghi, si sarebbe sentita un po’ più bella lei.
«Avete già cominciato?» domandò accovacciandosi per terra, lì accanto.
Avevano già cominciato, ma da poco. Come ogni settimana, Giacomo aveva avuto accesso al libro il giorno prima, e stava raccontando un nuovo mito: Zeus ne aveva combinata un’altra delle sue, sempre per la sua abitudine di perdere la testa per chiunque. Stavolta per una ninfa che dormiva in un bosco.
«È la Bella addormentata» disse Carlotta, continuando a tirare righe colorate un po’ a casaccio sulle sue principesse di carta.
Giacomo lanciò un’occhiata a Isabella. Lei si dissociò sgranando gli occhi e allargando le braccia, poi richiamò la sorellina. «Mercurio, quando Marte racconta non dobbiamo interromperlo. È già la seconda volta che lo fai.»
La piccola mise il tappo al giallo e afferrò il verde, preparandosi ad attaccare i capelli di un nano. «Ho solo detto che Zeus si è innamorato della Bella addormentata.»
Giacomo fece un’alzata di spalle, chiusa da un sorriso, prima di riprendere il racconto. «La ninfa si chiama Callisto, che nella loro lingua vuole dire bellissima, ma siccome Callisto è di Artemide, non può stare con Zeus.»
Delia smise di incidere il bastone di legno e alzò la testa di scatto. «Eh? In che senso, era mia?»
Giacomo non lo aveva capito bene, sapeva solo che Callisto stava con Artemide, era una delle sue ninfe, e non poteva fidanzarsi coi maschi.
«Non fa sesso con i maschi» sintetizzò Bartolomeo.
Tutti lo guardarono indicando Carlotta: “sesso” era una parola tabù, di quelle da grandi, il solo pronunciarla bastava a far ridacchiare e diventare rossi loro, di certo non si poteva usarla davanti a una bambina piccola.
Mentre Bartolomeo borbottava – erano cose normali che tutti sapevano, persino i nonni avevano smesso con la storia delle api e dei fiori –, il narratore riprese il suo racconto.
«Insomma, Zeus si traveste da Artemide, così Callisto si fida e va a finire che resta incinta.»
Bartolomeo spalancò braccia e occhi e lo interruppe di nuovo. «Visto? Avevo ragione. Zeus fa sempre sesso!» Poi, mentre Leonardo lo censurava definitivamente con qualche accordo di chitarra, perse l’equilibrio e ruzzolò a terra, da dove si rialzò e si rimise a sedere senza aggiungere altro.
Intanto, Sofia si avvicinò a Carlotta per guardare la sua opera: facce scarabocchiate di tutti i colori e abiti graffiati con linee allegre. La bambina non sembrava essere traumatizzata dalla parola tabù, ma un pensiero nuovo che le frullava in testa uscì prima che Giacomo riprendesse la storia.
«Ma se Zeus si è travestito da Artemide, come ha fatto Callisto a rimanere incinta?»
Silenzio.
In effetti.
«Credo che» azzardò Giacomo «Callisto faccia quella cosa con Zeus.»
Bartolomeo gli fece un breve applauso, cadendo ancora una volta dai cavalletti.
Carlotta alzò la testa dal suo disegno. «Sì, ma solo perché pensava di fare quella cosa con lei» e con il blu indicò Delia.
Silenzio.
Nella testa dei bambini tasselli impazziti vagavano alla ricerca del posto giusto.
Callisto faceva quella cosa con Artemide? Ma si poteva tra donne?
Bartolomeo unì i tasselli prima degli altri e fischiò. «Figo!»
Lui e la bambina erano gli unici a non avere le guance paonazze.
La banda ricominciò ad ascoltare: scoperta la gravidanza della ninfa, Artemide la punisce trasformandola in orsa. O, forse, a trasformarla in orsa è Zeus, per proteggerla dalla gelosia di sua moglie, vai a capire, i Greci erano sempre molto confusi nelle loro storie, si inventavano ogni volta un sacco di alternative. Di certo, Artemide dà la caccia all’orsa e la uccide, e a quel punto Zeus la manda in cielo, trasformandola in costellazione.
«L’Orsa maggiore!» esclamò Sofia.
«L’Orsa maggiore, esatto» fece Giacomo. «E il figlio che nasce, Arcade, viene trasformato in Orsa minore, così possono stare vicini.»
Il cielo era pieno di gente che, suo malgrado, era passata per le mani degli Dei. Sembrava una specie di premio venuto male, quello di essere trasformati in costellazioni, come quando i nonni ti danno pane, burro e zucchero per merenda al posto dei Pangoccioli.
«Io, comunque, non la ucciderei mai, un’orsa. A me piacciono gli orsi» dichiarò Delia soffiando via la segatura dal bastone. Gran bell’idea scegliere il nome greco, Artemide, con otto lettere da intagliare! Se i Romani l’avevano chiamata Diana probabilmente era per metterci meno tempo a scriverlo. Furbi. Inoltre, sapere che nei tempi antichi la sua dea aveva delle fidanzate gliela faceva piacere ancora di più: i maschi le erano sempre sembrati degli imbranati, in effetti.
Isabella si alzò, scacciandosi via, con grazia e fastidio insieme, la polvere di dosso. Odiava le gonne, soprattutto quelle a fiori, ma sua madre la voleva sempre vestita da femmina, guai a mettersi un paio di pantaloni. Ti sguaiano, diceva. E le donne sguaiate non piacciono a nessuno, aggiungeva. Solo che lei non aveva neanche dodici anni e le importava ben poco delle donne sguaiate.
«Carlotta, alzati, che dobbiamo tornare a casa» disse.
La bambina chiuse l’album con un colpo secco e raccolse i pennarelli sbuffando. Poi si alzò in piedi, ma si rifiutò di uscire. «Non sono Carlotta, sono Mercurio! Quando siamo qui nell’Olimpo non mi devi chiamare Carlotta, è la regola!»
Isabella afferrò la piccola per un polso costringendola a seguirla fuori.
«Ecco. Adesso sei Carlotta e noi dobbiamo tornare a casa, capito?»
Giacomo scivolò giù dal tavolo e raggiunse l’amica. «Dài, Isabella, non te la prendere, è piccola.»
Lei guardò il broncio di sua sorella – che intanto infilava le proprie cose nella cartella rossa ereditata da Isabella, come molto altro –, inspirò il più a lungo possibile e le arruffò i capelli liberando il respiro in un soffio.
«Hai ragione, Carlotta. Lì dentro sei Mercurio, scusami.»
La sorellina fece una piccola alzata di spalle: pace fatta.
Isabella rivolse uno sguardo complice a Giacomo. «Non ho ancora capito perché hai scelto di essere Marte, visto che sei quello che aiuta sempre tutti a fare pace.»
L’altro inclinò la testa e accennò un sorriso. «Mi piaceva il nome, e poi mio papà si occupa di guerra. Forse farò lo stesso, un giorno. Quando lavorerò con lui.»
Isabella lo guardò per un attimo, poi ricambiò il sorriso. «Già, hai ragione.» Salì sulla bici, aspettò che Carlotta si accomodasse dietro e partì salutando con la mano fino alla prima curva, svoltando nel mondo dei comuni mortali.
Giacomo la guardò andar via. Non poteva certo dirle il vero motivo per cui aveva scelto di essere Marte. Ma magari, un giorno, avrebbe potuto raccontarle dell’amore tra Marte e Venere, un amore fortissimo, contrastato solo da Vulcano, il marito che Giove aveva voluto dare alla dea perché era stupenda, proprio come Isabella. E forse Isabella avrebbe capito.
Anche gli altri uscirono dall’Olimpo: Leonardo, giovanissimo Apollo, si legò la chitarra dietro la schiena; Delia, scapestrata Artemide, sistemò il bastone intagliato nello zaino; Bartolomeo, Dioniso in erba, fece pipì contro un albero, e Sofia, dea della ragione, raccolse da terra la sua bici.
«Vai già a casa? C’è tua mamma questo fine settimana?» le domandò Giacomo. Di solito Sofia, la sua migliore amica, era sempre l’ultima a lasciare la casetta insieme a lui.
«Eh, già» gli confermò lei prima di voltarsi, urlare un «Ciao!» agli altri e partire.
La capiva. Se suo padre fosse stato a casa solo ogni tanto, forse i suoi amici nemmeno l’avrebbero visto, in quei giorni.
Leonardo e Delia, in piedi sui pedali a fare giochi di equilibrismo, gli si accostarono.
«Oh, Giac, noi andiamo. Se dopo vuoi fare un salto da noi, è serata pizza e film.»
Quella di Leo e Delia sì che era una famiglia: allegria, genitori simpatici, la porta sempre aperta agli amici e nessun problema al mondo. Persino la minestra di verdura era più buona, lì.
Rispose che lo avrebbe chiesto a sua mamma, e loro partirono.
«Hai sentito dei ladri? Sono andati anche nell’edicola del Borbotta» gli disse Bartolomeo. Aveva srotolato una girella di liquirizia e la stava mangiucchiando.
Sì, Giacomo aveva sentito. Il Borbotta era il vecchio edicolante. Senza moglie, senza figli, viveva solo in compagnia dei suoi acciacchi, di cui informava brontolando chiunque comprasse un giornale. Quello al suo negozio era il secondo furto in paese nel giro di poche settimane, un avvenimento che galoppava di chiacchiera in chiacchiera. Non era mai successo prima che la gente venisse derubata, da quelle parti.
Giacomo chiuse la casetta e infilò la chiave in tasca.
«Non penso che siano di qui» disse. Era quello che sperava.
Non lo pensava neanche Bartolomeo, ma un po’ di paura l’aveva, ammise. Poi si cacciò tutta la liquirizia in bocca e cominciò a masticarla a guance piene.
«Io» azzardò tra un morso e ...