Un giorno come tutti gli altri.
Alla luce di due finestre, un gruppo di donne con un fazzoletto bianco in testa sedevano intente a cucire a lunghi tavoli di legno. Con il capo chino sugli indumenti, facevano correre gli aghi sulla stoffa: dentro e fuori; dentro e fuori. La stanza si trovava in un seminterrato. Il cielo oltre i vetri non rappresentava la libertà. Quelle pareti erano il loro rifugio.
Le cucitrici erano circondate dall’armamentario di una fiorente sartoria per signora. C’erano tutti gli strumenti del mestiere: sui tavoli, metri a nastro arrotolati, forbici e spolette di filo; impilate lì vicino, pezze di stoffa di ogni tipo; sparse intorno, riviste di moda e la carta velina frusciante dei cartamodelli. Accanto alla stanza principale del laboratorio c’era una sala di prova privata per le clienti. Tutto si svolgeva sotto il controllo dell’intelligente e capace Marta, che fino a non molto tempo prima aveva gestito con successo un atelier di sua proprietà a Bratislava. Il braccio destro di Marta era Boriška.
Le donne non cucivano in silenzio. Mentre muovevano veloci gli aghi, chiacchieravano tra loro in un miscuglio di lingue: slovacco, tedesco, ungherese, francese, polacco. Parlavano del lavoro, delle loro case, delle famiglie... scherzavano perfino. La maggior parte, dopotutto, erano giovani intorno ai vent’anni: qualcuna non li aveva ancora compiuti, altre li avevano superati da poco. La più piccola ne aveva solo quattordici. La chiamavano Gallinella. Sfrecciava attraverso la stanza per andare a prendere gli spilli e raccogliere con la scopa i fili recisi.
Le amiche lavoravano insieme. C’erano Irene, Bracha e Renée, tutte e tre di Bratislava, e la sorella di Bracha, Katka, che cuciva eleganti cappotti di lana per le clienti anche quando aveva le dita gelate per il freddo. Altre amiche per la pelle erano Baba e Lulu, una seria, l’altra maliziosa. Hunya, sui trentacinque anni, per le altre ragazze era sia un’amica sia una figura materna, e una forza della natura da non sottovalutare. Olga, che aveva pressappoco la stessa età di Hunya, alle più giovani sembrava già anziana.
Erano tutte ebree.
Con loro lavoravano due comuniste francesi, la corsetière Alida e la partigiana Marilou, entrambe arrestate per essersi opposte all’occupazione nazista del loro Paese.
Venticinque donne in tutto che facevano correre gli aghi sulla stoffa: dentro e fuori; dentro e fuori. Quando una veniva costretta ad abbandonare il lavoro e non la si vedeva più, Marta provvedeva a trovare in fretta una sostituta. Voleva che il maggior numero possibile di prigioniere trovasse rifugio nel seminterrato. In quella stanza avevano dei nomi. Fuori dall’atelier erano soltanto numeri.
Di lavoro ce n’era per tutte, questo era certo. Il grosso libro nero degli ordini era talmente pieno che la lista d’attesa arrivava a sei mesi, perfino per le clienti di massimo riguardo a Berlino. La priorità nell’esecuzione dei capi era data alle clienti locali e alla donna che aveva creato la sartoria: Hedwig Höss. La moglie del comandante del campo di concentramento di Auschwitz.
Un giorno, non diverso dagli altri, nel seminterrato si levò un grido di sgomento e la stanza si riempì dell’orribile puzza di stoffa bruciata. Una catastrofe! Una ragazza maldestra aveva danneggiato un abito stirandolo con il ferro troppo caldo. Il segno della bruciatura era proprio sul davanti, non c’era modo di nasconderlo. La cliente era attesa per la prova il giorno dopo. La sartina era angosciata. «E adesso cosa facciamo?» gridava. «Cosa si può fare?»
Le altre smisero di lavorare, travolte dal suo stesso panico. Non si trattava semplicemente di un abito rovinato: le clienti della sartoria erano le mogli degli alti ufficiali del campo. Uomini tristemente famosi per i pestaggi, le torture e le uccisioni di massa dei prigionieri. Uomini che avevano il totale controllo sulle vite e i destini di ognuna delle donne presenti in quella stanza.
Marta, la responsabile, valutò il danno senza scomporsi.
«Sapete che facciamo? Togliamo questo pannello e inseriamo qui il nuovo pezzo di stoffa. Svelte adesso...»
Si misero all’opera tutte insieme.
Il giorno seguente la moglie di una SS arrivò all’appuntamento. Indossò il suo nuovo abito e si guardò perplessa allo specchio della sala di prova.
«Non ricordo che il modello fosse questo.»
«Certo che era questo» rispose calma Marta. «Non è grazioso? È una linea nuova.»2
Catastrofe evitata. Per questa volta.
Le sarte tornarono a far correre i loro aghi sulla stoffa: dentro e fuori; dentro e fuori. E videro sorgere un altro giorno ad Auschwitz. Un altro giorno da prigioniere nel campo.
Le forze che confluirono per creare una sartoria per signora ad Auschwitz erano responsabili anche di aver plasmato e spezzato le vite delle donne che finirono per lavorarci. Vent’anni prima, quando le sarte erano ragazzine o solo bambine, non potevano avere idea che i loro destini le avrebbero condotte in quel luogo. Persino gli adulti avrebbero dovuto fare uno sforzo per immaginare un futuro in cui si sarebbero confezionati abiti di alta moda nel bel mezzo di un genocidio industrializzato.
Il mondo è molto piccolo quando si è bambini, tuttavia è ricco di dettagli e di sensazioni. Il prurito della lana sulla pelle, l’armeggiare delle dita fredde sui bottoni ostinati, il fascino dei fili che si disfano quando un pantalone si strappa sul ginocchio. Il nostro primo orizzonte è quello delle pareti di casa, poi si allarga agli angoli delle strade, a campi, boschi e paesaggi urbani. Non abbiamo il presentimento di cosa accadrà in futuro. Nel tempo, i ricordi e gli oggetti sono tutto ciò che rimane degli anni perduti.
Irene Reichenberg da bambina.
Uno dei volti che fanno capolino dal passato è quello di Irene Reichenberg da bambina, in uno scatto di cui non si conosce la data. I lineamenti emergono a malapena tra le ombre; gli abiti non si distinguono. Ha le guance paffute sottolineate da un timido sorriso, come se fosse restia a rivelare troppo le sue emozioni.
Irene nacque il 23 aprile 1922 a Bratislava, una splendida città cecoslovacca sulle rive del Danubio, a un’ora scarsa da Vienna. La sua nascita avvenne tre anni dopo un censimento dal quale risultava che la popolazione della città era formata in maggioranza da un miscuglio etnico di tedeschi, slovacchi e ungheresi. Dal 1918 tutti questi popoli erano finiti sotto il controllo della Cecoslovacchia, il nuovo Stato nato dalla dissoluzione dell’impero austroungarico, ma la comunità ebraica, composta da 15.000 persone, si era stabilita in un preciso quartiere, a pochi minuti a piedi dalla riva settentrionale del fiume.
Il fulcro del quartiere ebraico era la Judengasse – o Židovská Ulica –, la Via degli ebrei, una strada in pendenza che faceva parte dell’area del castello. Qui, prima del 1840, gli ebrei vivevano segregati. Di notte le guardie municipali chiudevano i cancelli situati alle sue estremità, creando di fatto un ghetto, il che rendeva evidente che fossero considerati una comunità separata dagli altri abitanti di Bratislava.
Nei decenni seguenti le leggi antisemitiche diventarono meno rigide, permettendo alle famiglie ebree più ricche di lasciare la via e trasferirsi nella parte principale della città. Gli edifici barocchi di Židovská Ulica, che un tempo si stagliavano orgogliosi contro il cielo, furono suddivisi in minuscoli appartamenti per famiglie numerose. Anche se la zona aveva la reputazione di essere popolare, gli acciottolati erano lindi e negozi e officine fervevano di attività. Era una comunità molto unita in cui ci si sosteneva a vicenda. Ci si conosceva tutti. E si conoscevano anche le faccende degli altri. I residenti provavano un senso di appartenenza speciale.
Židovská Ulica era un posto meraviglioso per i bambini, che correvano dentro e fuori dalle case dei loro amici e colonizzavano la via e i marciapiedi con i loro giochi. La casa di Irene era al numero 18, al secondo piano di un edificio d’angolo. I bambini Reichenberg erano otto. Come accade in tutte le famiglie numerose, tra fratelli e sorelle si formavano alleanze e vincoli di lealtà diversi e c’era una certa distanza tra i più grandi e i più piccoli. Uno dei fratelli di Irene, Armin, lavorava in un negozio di dolciumi. Alla fine sarebbe partito per il Mandato britannico della Palestina e gli sarebbe stato risparmiato il trauma diretto dell’Olocausto. L’altro suo fratello, Laci, aveva un impiego in una ditta ebraica che vendeva tessuti all’ingrosso. Era sposato con una giovane slovacca, Turulka Fuchs.
Durante l’infanzia di Irene, in famiglia nessuno pensava alla possibilità di una nuova guerra. Tutti speravano che dopo l’armistizio del 1918 e la nascita di un nuovo Paese, la Cecoslovacchia, in cui gli ebrei erano cittadini, tutto quell’orrore non si sarebbe ripetuto. Irene stessa era troppo giovane per apprezzare il mondo oltre i confini del quartiere ebraico. La sua strada, come quelle di molte ragazze dell’epoca, era segnata: sarebbe diventata una provetta casalinga, in vista del matrimonio e della maternità, sull’esempio delle sorelle maggiori. Katarina, detta Käthe, era corteggiata da un giovane di bell’aspetto, Leo Kohn; Jolanda – Jolli – aveva sposato nel 1937 Bela Grotter, un elettricista; Frieda stava per diventare la signora Federweiss. A casa sarebbero rimaste solo Irene, Edith e Grete.4
Il sostentamento economico della numerosa famiglia ricadeva sulle spalle del padre di Irene, Shmuel Reichenberg. Shmuel era un calzolaio, uno dei molti artigiani di Židovská Ulica. L’arte sopraffina e la povertà dei calzolai sono immortalate nelle fiabe. E c’era davvero qualcosa di magico nel modo in cui Shmuel tagliava e modellava morbidi pezzi di pelle su una forma da scarpe di legno, li cuciva con il filo cerato e infilava con cura un chiodo dopo l’altro battendolo con il martello, curvo sul suo lavoro dalle sette di mattina a sera inoltrata, senza l’aiuto di macchine. I soldi erano scarsi e le vendite incerte. Per molti abitanti di Židovská Ulica acquistare un paio di scarpe nuove o perfino portare a riparare quelle vecchie era un lusso. Nei duri anni tra le due guerre la povera gente camminava a piedi nudi o teneva insieme le proprie calzature con degli stracci.
Se il padre di Irene guadagnava il pane, sua madre Tzvia – Cecilia – lo impastava e lo cuoceva; inoltre si occupava della casa. La sua giornata lavorativa era anche più lunga di quella del marito. Sbrigare le faccende domestiche era pesante senza apparecchi che consentono di risparmiare fatica e senza domestiche, con il solo aiuto delle figlie. Un anno sì e uno no Tzvia era incinta, il che significava cucinare, lavare, stirare e pulire di più. Nonostante la famiglia numerosa e le poche entrate, Tzvia faceva del suo meglio perché ognuno dei suoi bambini si sentisse speciale. Una volta la piccola Irene ricevette un regalo di compleanno eccezionale: un uovo bollito tutto per lei. Era al settimo cielo e raccontò di quella meraviglia alle sue amiche di Židovská Ulica.
Di questo speciale gruppo di amiche faceva parte una bambina di famiglia ebrea ortodossa: Renée Ungar. Suo padre era rabbino, sua madre casalinga. Renée aveva un anno in più di Irene ed era sfrontata, mentre l’amica era una bimba tranquilla.5
In una fotografia che risale al 1939 Renée appare intelligente e posata, ma i pompon del colletto Peter Pan tradiscono il suo carattere sbarazzino.
Renée Ungar nel 1939.
Dieci anni prima che questa foto fosse scattata, quando aveva sette anni, Irene conobbe un’altra bambina con cui giocare. Sarebbe diventata sua amica per la vita e una compagna coraggiosa durante il viaggio più atroce della sua esistenza.
La bambina era Bracha Berkovič.
Bracha era una ragazza di campagna, nativa di Čepa, un villaggio montano della Rutenia subcarpatica. Lontana dai principali centri industriali, questa parte della Cecoslovacchia tra le due guerre viveva soprattutto di agricoltura. Le cittadine e i villaggi si distinguevano per la parlata e gli usi locali, e perfino per i caratteristici ricami.
Il paesaggio dell’infanzia di Bracha era dominato dai Tatra, una catena apparentemente infinita di montagne che digradavano dolcemente in valli coperte da campi di trifoglio, segale, orzo e dai verdi germogli delle barbabietole da zucchero. I campi erano lavorati da bande di giovani donne che indossavano camicette con le maniche a sbuffo, ampie gonne sovrapposte e foulard variopinti. Le bambine curavano le oche; le braccianti zappavano, spigolavano e mietevano. L’estate era il periodo degli abiti in cotone stampato a colori chiari, dei fiorellini, dei quadretti e delle righe. L’inverno richiedeva stoffe pesanti, tessute in casa, e indumenti di lana. Gli ab...