Gisella si convinse, con le migliori intenzioni, che a Milano doveva mettersi a cercare un rapporto con la vera figlia. Ormai a portata di mano. Sotto i suoi occhi, giorno e notte.
Melissa le avrebbe chiesto – per una necessità naturale, anche restando il più delle volte muta e perduta senza più le sorelle, e lontana dalla sua prima mamma – cure, parole, baci, carezze. Uno sforzo immane per Gisella, ma da intraprendere scansando altri rinvii, facendosi forza da sola, tornando con la mente ai nove mesi della gravidanza, quando quella figlia, mai cresciuta prima, l’aveva desiderata e custodita dentro di sé. Come le avevano consigliato psicologa e neuropsichiatra, era importante che iniziasse a scoprire la vera identità di Melissa. Una identità completamente diversa da quella della bambina che aveva cresciuto, rimasta a Mazara, evitando di fare qualunque confronto con il passato. Gisella decise anche che a Milano, per cominciare un’altra vita, si sarebbe lasciata alle spalle quella sua lingua farcita di parole e modi di dire mazaresi, un rimedio simile a un farmaco, per provare a non avvertire alcuna nostalgia per il suo mare, per la sua città, che fino a qualche tempo prima mai avrebbe pensato di abbandonare.
Ripartì da zero. Adottando la stessa tenacia che aveva prodotto ottimi risultati con Caterina, plasmata da lei, con amore e dedizione, in una piccola donna educata e sensibile. La creazione di alcune regole fondamentali le sembrò la cosa più urgente da fare perché Melissa cominciasse ad appartenere a lei e a un mondo completamente nuovo. Le tolse il biberon, diminuì le dosi di latte a cui la bambina era stata abituata da Marinella. Le impose pasti regolari a colazione, pranzo e a cena, forzandola a mangiare ciò che non aveva mai veramente assaporato, come la pasta condita in cento modi, carne e pesce, uova, verdure, frutta. Seduta a tavola, con la schiena dritta, usando le posate, col suo tovagliolo. E insegnandole a dire, come si doveva, e non nella sua lingua ancora imprecisa, “grazie, buon appetito, buongiorno e buonanotte”.
Melissa, inconsciamente, rifiutò i cambiamenti. Forse le sembravano provenire da una severa istitutrice, più che da una madre affettuosa ma, soprattutto, rigettò la velocità con cui Gisella intendeva applicarli. Con lo stomaco chiuso dalla nostalgia per la vita che aveva lasciato a Mazara, vomitava le migliori prelibatezze, pur provando a mandarle giù. Gisella, senza mai rimproverarla, puliva il pavimento e si rimetteva ai fornelli, piazzandole un altro piatto davanti. Melissa non protestava. Come un automa inghiottiva a fatica, e di nuovo le venivano i conati di vomito, la tosse, il pianto. Gisella, demoralizzata, tutte le volte che usciva sconfitta dalla sfida a tavola con la figlia poneva la stessa domanda a suo marito Francesco, pur senza arrendersi: «L’ho già fatta una volta, la mamma, e mia figlia grazie a me è cresciuta. Perché ora è tutto così difficile? Perché devo ricominciare come davanti a una neonata?».
Francesco le dava sempre l’unico consiglio possibile: «Perché Melissa è tua figlia, e per legge di natura e per l’amore che si merita la devi accettare e volerle bene».
Avevano trovato casa in affitto, di circa settanta metri quadri, già arredata, e con gusto, situata in zona Fiera, in un palazzo signorile appena ristrutturato. Francesco usciva presto, la mattina. Si era guadagnato in fretta la stima di un’impresa edile di Milano, che lo aveva assunto come capo cantiere di un centro commerciale in costruzione alla Bovisa.
Gisella passava l’intera giornata dedicandosi a Melissa. La noia certo non l’assaliva. Le comprava in continuazione e senza badare a spese vestiti e scarpe nuove, bambole, giocattoli e libri di favole a non finire. Prendeva la metropolitana con lei per scendere a qualsiasi stazione, scoprendo indifferentemente, con lo stesso spirito entusiasta, la Milano del centro e quella dell’hinterland, per impossessarsi ossessivamente di un luogo immenso, che le facesse dimenticare Mazara, non solo Caterina.
Un giorno, Gisella portò la figlia al cinema a vedere Alla ricerca di Nemo della Disney. La donna si appassionò alle disavventure del pesciolino, e alla fine pianse. Anche in quella storia c’era un padre alla ricerca del figlio. Ma Melissa nella sua poltrona restò gelida, immobile per tutta la durata del film. Invece di guardare lo schermo, nel buio della sala fissava la nuova madre, quasi per scorgere dai suoi occhi un lampo di cui potersi fidare e innamorare.
Durante la seconda settimana di permanenza a Milano, Gisella portò Melissa anche dal parrucchiere. Grazie a uno shampoo schiarente dai riflessi biondi e al taglio della frangetta, lasciandole i capelli più lunghi sulle spalle, Melissa cominciò a somigliare vagamente a Caterina. E Gisella a volte, involontariamente, la chiamava davvero Caterina, e come aveva fatto per lei, la iscrisse a un corso di danza classica. Ma già durante la prima lezione la piccola si rifiutò di fare gli esercizi più elementari di postura richiesti dalla maestra, sempre senza protestare, restando ferma e zitta, piena di paura in mezzo alle altre bambine, divertite dalla sua ostinazione. Gisella la incitò a provare, a riprovare, fino a quando, quasi vergognandosi di lei, la trascinò via.
La donna non aveva nessuna remora a riferire al telefono, a sua madre, le insormontabili difficoltà che incontrava quotidianamente nell’affrontare la vita con Melissa: «Non le faccio mancare niente. Mi devi credere, mamma».
L’anziana Caterina, senza peli sulla lingua, sferzava sua figlia: «Ci credo, ma invece di metterci il tutù e di comprarci tante scarpe e vestiti, abbracciala».
«Non ci riesco a darle quello che non ho» confessava Gisella, come se volesse mandare a monte tutti i buoni propositi recitati prima della partenza per Milano.
Ogni volta la madre ripeteva a Gisella la semplice formula dell’amore materno che lei aveva smarrito: «Dentro di te l’hai avuta, per lei preparasti la stanza, la culla, le tutine. Soffristi per lei quando è nata. Lei è nata da te, figlia mia, e tu non puoi disubbidire alla natura. Melissa è sangue tuo, è sangue nostro».
Melissa non chiedeva mai di Franco e Marinella, di Lea, di Perla, dei nonni. Di Mazara. Sembrava essersi dimenticata di tutto. Era assente e muta. Si sforzava anche di non piangere, come tutti i bambini che non si sentono amati. Gisella, nascondendo ogni ansia, telefonava spesso a Marinella per avere un minimo di conforto. «Spiegami meglio. Che ci posso fare da mangiare? Come la facevi giocare con te quando Lea e Perla non c’erano? E che pensi, le può piacere andare in piscina?» Poi si informava con malcelato distacco di Caterina, e Marinella, imitandola, le dava l’impressione che a Mazara tutto funzionasse a meraviglia: «Caterina da noi si trova bene, grazie a Dio».
Anche farla addormentare era un dramma. Gisella cantava a Melissa le canzoni che piacevano alla figlia di prima, oppure le raccontava le favole preferite da Caterina. E pretendeva che le desse il bacio della buonanotte, chiamandola mamma. Melissa eseguiva, ma a volte, per sfuggire al comando, finita la cena, fingeva di addormentarsi sul divano.
A volte Gisella perdeva le staffe di fronte a tanta indifferenza: «Non è colpa mia se prima non ti ho cresciuta, se non ti ho protetta… Che posso fare ora per te?» implorava la figlia, «Che ti ho fatto di male? Se mi dici cosa vuoi io te la do, te la vado pure a comprare dall’altra parte del mondo». La scuoteva, più con la voce che con le braccia, come se a toccarla avesse paura di prendere la scossa. Si teneva sempre a distanza da lei almeno di un metro, avara di sorrisi e di carezze.
Melissa attendeva il rientro a casa di Francesco per tornare un po’ a esistere, sempre esprimendosi con difficoltà, parsimoniosa di slanci, ma mettendosi comunque sotto la sua ala protettrice. Gisella, la sera a letto, faceva notare al marito tutti i ritardi di Melissa rispetto a Caterina: «Non ci posso fare niente, mi cadono le braccia. Ogni giorno devo ricominciare daccapo. Me l’hanno data così: parla male, vuole solo latte e omogeneizzati, e non sa nemmeno camminare bene…». E concludeva amaramente: «Sarà pure colpa mia, ma te l’avevo detto. Il sangue per me non è amore».
Lui con dolcezza materna, mai sperimentata prima sulla sua pelle, si accostava a Melissa. Si accoglievano. Entrambi, e in misura diversa, vittime del disamore di Gisella. Francesco prendeva in braccio sua figlia, iniziando il racconto di una storia con al centro la vita degli animali, o di un pezzo della sua gioventù a Mazara, a volte le narrava anche certi episodi di quando lui e Gisella erano ancora fidanzati, con gli occhi illuminati dal passato, per dare alla bambina un’immagine solare della madre. E Melissa si rilassava e si addormentava.
Gisella era gelosa e furiosa: «Perché solo ora sei così buono? A Caterina mai una volta…».
Francesco evitava ogni polemica. Era stata lei a crearsi un mondo esclusivo con Caterina, in cui non gli aveva mai permesso di abitare. Piuttosto ora lui si prendeva le proprie colpe e indicava la strada: «Hai ragione, Caterina si meritava di più da me, ora però c’è Melissa, è a lei che dobbiamo badare».
Gisella gli confessava tutta la distanza che la separava dalla figlia: «Non la capisco, non riesco a toccarla. Lei se ne accorge e fa bene a non fidarsi di me. È come se mi avessero dato una bambina da adottare, un’estranea che non è mia. Dalla pelle, dall’odore, dagli occhi non è mia…».
Francesco lasciava che piangesse, che si disperasse, prendendole la mano, cosa che lei faceva sempre con Caterina. La moglie, in quegli istanti, diventava per lui un’altra figlia, la più fragile, di cui prendersi massima cura.
«Amore calmati. Sugli occhi ti sbagli, guardala negli occhi, Melissa. Sono come i tuoi. Ha lo stesso sguardo, la stessa luce. E stringila a te, dalla mattina alla sera…»
Gisella non gli permetteva di andare oltre: «È tutto sbagliato, sta’ zitto che è meglio. Ma come si fa ad amare a comando?».
Gli attribuiva la responsabilità di aver abbandonato Caterina. Si infilava nel letto e spegneva di colpo la luce per rinchiudersi nella sua solitudine. Poi – succedeva quasi ogni notte – si svegliava più o meno alle tre e le nasceva la pazzia di telefonare a casa di Marinella. L’altra madre, che in quel periodo non aveva al fianco suo marito, e che era diventata insonne, si era abituata a questa strana consuetudine. Marinella alzava la cornetta senza rispondere, posandola per qualche minuto sul mobiletto del telefono. Sapeva che dall’altra parte Gisella non avrebbe proferito parola. Perché Gisella sperava soltanto di ascoltare il respiro di Caterina. Marinella pure restava vicina alla cornetta, a sognare il respiro di Melissa.
Tuttavia una notte Marinella ruppe il silenzio: «Gisè… Iu sugnu comu a tia. Confusa. Tu dicesti una volta che per me sarebbe stato più facile, tanto io avevo altre due figlie. Unn’è chista a virità. La vuoi sapere la verità, Gisè? L’altro giorno provai a farci il bagnetto a Caterina. Non ci riuscii a insaponarla, a toccarla. Pure lo shampoo se lo fece da sola…».
Marinella sentiva solo il respiro affannoso di Gisella che si stava riempiendo di lacrime, e continuò: «Certi giorni mi sveglio con la voglia di stare solo con lei, e poi la lascio a mia madre, a Lea e a Perla. Eppure ci voglio bene a Caterina, mi ci sto affezionando. Ma ogni figlia è unica, è sola, è speciale. Se esco per Mazara, come una pazza, mi pare di vedere Melissa ogni volta che passa una picciridda con la frangetta come la sua. Mi manca ogni secondo, Melissa. È mi figghia, anche se sta con te, come Caterina è to figghia, pure se sta con me. Sono figlie nostre, di tutte e due. Pi mia e pi tia lu core ommai si ruppe a metà, e sano non tornerà più».
Marinella, senza vergognarsi delle sue lacrime come aveva sempre fatto prima di allora, aveva concluso così la confessione più amara e sofferta che potesse fare alla donna che per molto tempo aveva visto come una nemica, da lei ricambiata con la stessa moneta. Stava per rimettere a posto la cornetta, chiudendo la conversazione a senso unico, quando Gisella fece un sospiro e trovò la voce per darle la notizia di un sogno nuovo, di una liberazione: «Successe una cosa… Sei la prima a saperlo, Marinella, mancu a Francesco la rissi… Sono incinta, Marinè… Ma ’un sacciu si ci la fazzu».
Marinella, dalla sua casa di Mazara, rifiorì, saltellando in piena notte davanti al mobiletto del telefono. Le lacrime le uscirono di gioia.
«Che mi dici? Gisè… Ma certo che ce la fai» la rassicurò.
«Se non ce la faccio, tu mi aiuti?» le chiese Gisella.
«Gisè, ma che dubbio ti venne? E se non ti aiuto io, chi ti aiuta?» le rispose Marinella. E le uscì anche una battuta, perché entrambe ritrovassero pienamente la voglia di vivere e di ridere: «Vedrai, sarà femmina, un’altra femmina, ma quel giorno che deve nascere macari canciamu ’spidale».