Che festa, quella. Era il 1953. O il 1956? Chi si ricorda più? Ricordo che a metà ballavo con una pelle di giaguaro. O forse era mio marito. No, non ho sposato un giaguaro e nemmeno ballavo con la sua pelle. E nemmeno mio marito somiglia a un giaguaro. Tutt’altro. Insomma, ci siamo capite. Mio marito Ugo è l’uomo più dolce che ho conosciuto, e con lui sono andata in capo al mondo. O quasi.
In Italia era inverno ma laggiù faceva caldo. Indossavo un vestito color perla con una scollatura audace perfino per quella serata impertinente, e sopra le spalle nude era stato meglio mettere una stola ricamata, così in terrazza l’aria fresca che veniva su dal lago non mi avrebbe fatto male. E via che si ballava, i primi giri con Ugo, e poi scambiandoci il compagno e la compagna e sperando di pigliarne uno decente, perché c’erano alcuni che non sapevano andare a tempo e ti pestavano i piedi. Di solito erano quelli che parlavano di più, e farsi pestare i piedi da un chiacchierone era anche peggio.
«Come si chiama?» mi chiese uno degli ospiti poco prima di invitarmi a ballare con lui.
«Virginia.»
«Enchanté, Virginia. Piacere di conoscerla.»
Gli inglesi lo chiamavano party. Ma lì si parlava solo francese e quella era dunque una soirée dansante, o a voler essere precisi una fête du Nouvel An, una festa del Nuovo Anno. Gli inglesi stavano antipatici a tutti: cucinavano male, avevano i baffi sottili e pretendevano di comandare nel mondo. Avevano perfino la regina, ma di quest’ultimo difetto si parlava sottovoce perché in Belgio comandava ancora il re e noi italiani un re lo avevamo avuto fino alla guerra, e non era stato esaltante.
Gli inglesi stavano antipatici a tutti tranne a me, perché in fondo avevano salvato mio marito. Fosse finito nelle mani dei tedeschi, non saremmo capitati in Congo a quella festa. Ma con gli inglesi era andata bene, lo avevano tirato su come un pesce sulla loro nave da guerra e messo in prigionia. Una prigionia umana. Non come quella dei tedeschi.
«Sono amico di suo marito, sa? Vengo sempre in negozio» era un nuovo ballerino a parlarmi.
«E lei cosa fa nella vita?» domandai.
«Caccio elefanti.»
«Per le zanne?» gli chiesi mentre evitavo che mi pestasse i piedi.
«Sì, sono un grande affare. Ogni zanna la rivendo a prezzi stratosferici.»
«E gli elefanti lo sanno?»
«Se ne accorgono troppo tardi» rispose sghignazzando.
Si ballava solo musica europea. Oppure la samba, che è sudamericana. Le danze tradizionali del Congo Belga erano state vietate per legge, perché in Congo non c’era libertà: il governo voleva far dimenticare alla gente le proprie tradizioni, come ballavano i genitori e i nonni, cosa cucinavano, cosa si raccontavano nelle serate intorno al fuoco. Il motivo era banale: se non hai radici, sei più facile da portar via dalla tua terra. Sei più pronto a obbedire. I congolesi non potevano neanche andare all’estero: dimenticare le danze tradizionali era solo una parte dei loro problemi. In molti scendevano nelle strade a protestare, volevano partecipare alle elezioni, essere indipendenti, ma era una strada difficile da percorrere.
Intorno a loro, il mondo dei bianchi andava avanti con le sue feste. Quella sera avevamo cantato finché il rossetto non si era consumato, e ballato finché i tacchi non si erano scollati dalle scarpe. Lontani da tutto e dalla terra che conoscevamo fino a qualche anno prima, dai nostri parenti ancora vivi dopo il 1945, dall’Italia e dalle sue storie.
Era una serata limpida e mancava poco a mezzanotte. La festa era stata divertente, con tanta musica, e avevano distribuito agli uomini dei cappellini strampalati che andavano tanto di moda prima della guerra e in Africa se li mettevano ancora: i fez. Parevano dei tappi, erano buffi e potevi essere bello quanto volevi, ma se indossavi un fez alla fine sembravi un tubetto di dentifricio con le scarpe. E visto che non erano abbastanza strambi, ci avevano incollato una luna di carta stagnola. Così mio marito invece di sembrare un dentifricio pareva mago Merlino. E io la principessa, però. Ora ne sono certa: era il 1956, perché quello era l’anno dei cappellini strani.
«Questi neri scendono in piazza a protestare, e chiedono, chiedono. Vorranno anche votare prima o poi. Lei cosa ne pensa?» mi domandò un altro tizio ballando. Perlomeno, lui sapeva tenere il ritmo con eleganza.
«Penso che nessuno abbia voglia di morire senza essere stato libero» risposi.
Non la prese molto bene, e continuammo a ballare senza parlarne più.
Andava di moda vestirsi di bianco, anche gli uomini, però col farfallino nero. Il papillon, come lo dovevi chiamare in Congo. C’era l’orchestrina che suonava e avevamo ballato, ballato tanto, finché mi ero buttata su una sedia in un angolo, dietro una tavola ancora apparecchiata. Mi ero nascosta dietro una fila di calici mezzi pieni di spumante, o forse era champagne, sul bordo di alcuni si vedevano le tracce lasciate dai rossetti delle signore.
E bicchieri di birra, ma come si chiamava quella birra che bevevamo in Congo? Bracongo, ecco come si chiamava. Era buona perché la facevano come la fanno in Belgio. Era forse l’unica cosa che il Belgio aveva insegnato alla gente, a fare la birra. E a parlare francese: quindi le cose erano due. Ma questa è un’altra storia.
Io il francese lo sapevo già perché a Rodi a scuola si imparava ancora quello. Alle cameriere aggiungevo s’il vous plaît, per favore. Mi sembrava il minimo.
Una volta seduta, mi sono levata le scarpe. Cominciavo a stufarmi, e lo capivo perché guardavo l’orologio troppo spesso e ogni volta mi sembravano passate altre due ore. E invece erano trascorsi dieci minuti. Se una cosa ti piace, il tempo non conta più: lo so bene quando ascolto la musica o quando cammino sulla spiaggia. Su qualsiasi spiaggia. E invece quell’orologio appeso al muro della festa sembrava fermo a osservarci. Si annoiava anche lui?
Guardavo la soirée dansante intorno a me e rimanevo seduta a giocherellare con la stola candida. Ero già diventata una signora, a quei tempi, e le signore non ci vanno alle feste con le spalle scoperte. Le braccia sì, mi fidavo a lasciarle nude perché laggiù in Congo nessuno mi avrebbe chiesto del tatuaggio col numero. Avevo lasciato il mio compagno di ballo per riprendere fiato, e lui già ballava e ballava con le altre ragazze.
Avevo trentatré anni e mi sembrava di aver vissuto trentatré vite. La prima a Roma, da bambina, ma ero così piccola che di quella vita ricordavo solo gli ultimi tempi. La seconda ad Anzio. La terza sull’isola di Rodi, in Grecia, da ragazza. La trentaduesima da giovane a Venezia, e la trentatreesima lì, in Congo.
Nell’infinito Congo, una terra meravigliosa. Gigantesca, ricoperta da foreste, solcata da fiumi interminabili. Léopoldville, la capitale, era troppo grande e caotica per noi. Noi invece abitavamo a Bukavu, una città sulle sponde meridionali del lago Kivu. Era dall’altra parte del Congo rispetto alla capitale: se tu avessi piantato un chiodo al centro di una cartina dell’Africa, avresti fatto un buco nella nostra città. Lì era tutta un’altra aria e si stava bene.
Il lago si estendeva all’infinito. Non vedevi l’altra sponda neanche quando era limpido, e se ti avventuravi con una barca e provavi ad attraversarlo, ti sentivi un puntino nell’universo. Di là, sull’altra costa, c’era la regione del Ruanda, e più in là ancora le foreste dell’Uganda verso nord e i grandi laghi del Tanganica verso sud. C’erano gli inglesi che governavano, oltre le foreste, ed erano sempre sospettosi. Mentre qua coi belgi bastava parlare francese e fare battute e quelli ammiccavano a noi italiani. Agli italiani che amavano le feste. E le donne. E mangiare bene.
Le solite storie sugli italiani. Mai uno che si ricordasse dei nostri bisnonni Michelangelo, Leonardo o Cristoforo Colombo. No, eravamo sempre maccheroni, riccioli scuri, gesti strani con le mani e sguardi maliziosi. Alla festa erano tanti, i nostri connazionali, e non li conoscevo tutti. Sapevo che ognuno di loro aveva fatto fortuna o la stava facendo: con le pietre preziose o con l’avorio i più beati, con il commercio gli altri. C’era chi stava in Congo per colonizzare o per uccidere animali o sventrare montagne con la dinamite. C’era chi voleva arricchirsi. C’era chi voleva aiutare. Mio marito semplicemente lavorava lì perché avevamo seguito mia sorella Lea, che s’era trasferita col marito. Cosa non si fa per amore, si va anche in Africa a cercar fortuna.
Il Congo era una colonia belga. Il minuscolo Belgio controllava un territorio enorme e favolosamente ricco. C’era davvero di tutto: il rame, l’argento, tanto oro che avresti potuto ricoprire di anelli e bracciali le mani di tutte le ragazze del mondo. E c’erano i diamanti. Li cercavano nelle cave e li tiravano fuori a bracciate. E c’era l’uranio, soprattutto giù a Shinkolobwe. E lì dicevano che gli americani erano venuti per quel metallo prezioso. Valeva più di qualsiasi altra cosa preziosa per un motivo semplice e terribile: ti faceva vincere le guerre.
L’uranio del Congo lo avevano messo nel cuore della bomba atomica che poi avevano lasciato cadere su Hiroshima. E con quel fuoco la guerra era finita in fretta e furia come il giorno in cui era cominciata.
Perfettamente in mezzo a queste mie trentatré vite c’erano le vite sfuggenti che avevo vissuto in guerra...