Si risvegliò nell’oscurità .
No, non è possibile. Che ore sono? Allungò la mano verso il telefono ma la mano urtò contro la parete fredda. Un momento: parete? Quale parete? E poi, neppure l’oscurità era quella giusta. Virava all’arancione. Ed era un po’ sfocata. La luce dell’alba filtrava attraverso tende arancioni. Aspetta, che tende? Tende tirate? Tende tirate arancioni all’alba? E poi, perché la finestra era accanto a lei e non di fronte? E perché si trovava sotto il piumone invece che sdraiata sopra? Anche nel piumone c’era qualcosa che non andava. Leggero e inconsistente. Singolo. Di nuovo, allungò una mano esitante e premette le dita contro la parete impossibile, con l’altra mano tastò il bordo del materasso. Il letto era a una piazza. Il cuore iniziò ad accelerare e Kate fermò l’ondata di panico con la respirazione del karate.
Chi? La parola le martellava in testa. Chi sono? O piuttosto: dove sono?
Era Kate Marsden. Okay, pensò, non ho un’amnesia, non sono diventata pazza. Sono Kate Marsden, una donna di quarantacinque anni che vive nella zona sud-est di Londra. Katherine Jennifer Marsden, nata nel 1974, figlia di Bill Marsden e Madeleine Theroux; compagna di Luke Fairbright per ventotto anni, sposata per gli ultimi diciassette, vedova da quasi uno. Fin qui ci siamo. Non è molto, ma è già qualcosa.
Era stata rapita?
Un po’ improbabile. Non era legata, non le pareva di essere stata narcotizzata. Anzi, a parte il fatto che se la stava quasi facendo sotto per lo sconcerto, fisicamente si sentiva benissimo.
Non ci vedeva granché ma avvertiva la vicinanza di altre pareti, del soffitto. Si era sbronzata al punto di avere affittato un monolocale e non ricordarselo? Possibile arrivare a un tale livello di ubriachezza senza accorgersene? In effetti vedeva tutto sfocato. Ma allora perché non avvertiva i postumi?
Si tirò a sedere sul letto.
Però. È stato facile.
Come accidenti era vestita? Non erano gli abiti che aveva addosso quando era andata a dormire. Era... una maglietta lunga. Portata come camicia da notte. Come sua abitudine ai tempi...
Buttò le gambe fuori dal letto e si alzò. Scalza, pavimento sbagliato, moquette invece del parquet. Totale e sconcertante assenza della pur minima traccia di dolore o di sforzo nel momento in cui il peso si era scaricato sui piedi. E poi, quale peso? Era come se all’improvviso fosse diventata di legno di balsa. Le sembrava di galleggiare.
Si avvicinò alle tende e ne tastò il tessuto: sottile, ruvido, dozzinale, arancione, arancione, arancione...
Si rese conto che nei novanta secondi trascorsi da quando si era svegliata aveva evitato di ammettere che sapeva con assoluta certezza dove si trovava. Poteva rimettersi a dormire, e magari sarebbe tutto sparito. Ma un sogno come quello non l’aveva mai fatto prima. Era mille volte più concreto. Se il suo corpo fosse stato addormentato, Kate non avrebbe potuto raggiungerlo: non ricordava dove fosse e non poteva rientrare. Ma quel corpo non era altrove, era lì.
Prese coraggio e scostò le tende. Fu investita dal ben noto raschiare delle guide metalliche. Ciò che vide fuori dalla finestra fu solo la conferma dell’inevitabile.
Era al Benedict College, a York.
E quello era il panorama dalla sua camera del primo anno.
Di fronte c’era il cemento grigio dell’ala nord del college. Tre piani sotto di lei, il sentiero che zigzagava attraverso il prato spelacchiato. E subito fuori dalla sua finestra con le ante scorrevoli, il ballatoio che tanto l’aveva fatta innervosire, quello che collegava tutte le altre uscite posteriori del Livello 3 dell’Edificio Sud.
Quanto alla vista sfocata, la spiegazione era ancora più inquietante. Trattenne il fiato: guardando dritto davanti a sé e affidandosi soltanto alla memoria muscolare si chinò a sinistra e tese la mano verso il comodino. Eccoli. I suoi occhiali. Se li avvicinò alla faccia e li esaminò. Montatura spessa e scura come Michael Caine in Ipcress. Le servivano perché l’intervento al laser a cui si era sottoposta nel 2005... non funzionava più?
Se li mise e tornò a guardare il Benedict, che ora si rivelava in tutta la sua lampante monotonia. Uno studente uscito per una corsetta di buon’ora camminava spompato sul ballatoio, e quando le passò davanti distolse lo sguardo con una vaga aria di scuse. Che cosa aveva visto? Una donna di mezza età con buffi occhiali troppo grandi? Kate si guardò la maglietta sbiadita con la stampa di un tizio con fette di cetriolo sugli occhi, al di sotto della quale c’erano le ginocchia, i polpacci e i piedi di una donna giovane.
Anzi, di una diciottenne. Per essere precisi, di lei diciottenne.
Barcollando, ricadde sul letto e lottò per respirare.
Lo capì dallo smalto. Quell’estate era tornata dalla «vacanza d’addio» a Poole con Pete Lampton – idea tremendamente sciocca – con una bella abbronzatura ma pure con le unghie dei piedi colorate di turchese. Lo smalto era stato uno dei tanti regali che lui le aveva comprato quella settimana, durante la quale aveva cambiato idea su quella che avrebbe dovuto essere una rottura consensuale.
«Le relazioni a distanza possono funzionare e funzionano, Kate!» aveva insistito. Lei aveva accettato quel regalo un po’ irritante (non amava granché né lo smalto né il turchese) ma cercando di fargli capire con tatto che era finita.
«A volte bisogna dire addio e basta» aveva detto.
La sera prima di salire sul treno che l’avrebbe portata all’università a York per il suo primo semestre, in una botta di sentimentalismo si era messa lo smalto. Non stava per dire addio soltanto a Pete ma anche allo sport agonistico. Neanche morta si sarebbe presentata truccata al dojo o a un torneo. Ma ora che con il karate se l’era cavata egregiamente, era pronta a cimentarsi in un cauto tentativo di ottenere risultati altrettanto buoni nel campo «comportamento da studentessa e pure da femmina». Solo che le regole erano molto meno chiare. E quanto alle capacità richieste, era parecchio indietro. Dopo aver armeggiato per venti minuti combinando un disastro, aveva chiesto consiglio a sua madre. Madeleine era andata in brodo di giuggiole. «Le moineau quitte le nid mais n’a pas de chaussures!»
«Ne ho in abbondanza di scarpe, mamma. Solo che non mi so mettere il cazzo di smalto.»
«Ferma che rovini tutto, tesoro.»
Nella sua stanza del dormitorio, Kate osservò l’opera di sua madre. Sapeva benissimo di non aver mai portato il turchese né prima né dopo di allora. Sapeva di esserselo tolto quel giorno, perché di certo non lo aveva la sera in cui aveva conosciuto...
Alzò la testa e si guardò attorno nella stanza in penombra. Niente poster alle pareti. Niente libri sugli scaffali. La valigia aperta ma ancora da svuotare. La sera prima era arrivata tardi e aveva tirato fuori giusto lo spazzolino, il contenitore delle lenti e... controllò sul comodino. Sì, Orlando di Virginia Woolf. Era quello il libro che stava leggendo, sola al bar del college, quando lui...
No, l’intervento al laser non c’entrava niente. Ancora non l’aveva fatto. Stava vivendo nel passato. Quella era la Settimana delle Matricole, ottobre 1992.
Non era più il giorno 10.000. Era il giorno 1.
Si alzò e fece appena in tempo a togliersi gli occhiali prima che il pavimento le balzasse incontro e la schiaffeggiasse con forza.
Si svegliò con le labbra che formavano una parola sola. «Merda.»
Qualcuno che bussava. Kate scese dal letto. Raccattò gli occhiali e se li rimise, abbassò la maglietta e saltellò verso la porta. Lo spioncino era ancora al suo posto, all’altezza giusta per qualcuno alto almeno un palmo più di lei. Alzandosi in punta di piedi, scrutò fuori.
Oddio. L’australiana religiosa del secondo anno che faceva le ronde per avventarsi sulle matricole in preda alla nostalgia di casa. Com’è che si chiamava? Kate aprì uno spiraglio.
«Ehi, ciao! Uh, abbiamo fatto le ore piccole, eh? Sembri distrutta! Io sono Lauren! Benvenuta al Benedict!»
«Ciao» disse Kate con una smorfia.
«Ahahah! Qui al Benedict siamo un covo di pazzi, quindi direi che è il posto giusto per te!» Lauren capì che la ragazza appena scesa dal letto che la stava scrutando da dietro la montatura eccentrica non aveva intenzione di invitarla a entrare, ma recuperò all’istante l’entusiasmo e le porse una strisciolina di carta con delle scritte. «Niente, passavo solo per dirti che oggi alle quattro e mezza abbiamo organizzato un fantastico tè per tutti voi, branco di novellini. Per conoscere gente! Spiriti affini! O magari, persone a cui normalmente non rivolgeresti la parola. Chissà ! Insomma... ci vediamo lì???»
Kate prese il foglietto ghigliottinato senza tanti complimenti. Un tè di cattolici. Iniziò a richiudere piano la porta e disse: «Ehm... penso... di no».
Dall’altra parte sentì uno sbuffare sconcertato e un paio di ciabatte che battevano in ritirata. Lauren, ricordava Kate, avrebbe recensito una delle pièce teatrali di Kes sul giornale studentesco, un pezzo contraddistinto da omofobia passivo-aggressiva e povero di virgole. Ma questo la prima volta lei non lo sapeva. Come aveva trattato la spumeggiante esponente dell’Associazione cattolica in tutti quegli anni? Scivolò a sedere a terra con la schiena contro la porta e ispezionò la stanza cercando di ricordare.
Un’interessante questione filosofica le si affacciò alla mente e Kate scelse di dedicarvisi, invece di mettersi a urlare in preda al terrore e fino a perdere il senno: Ma cosa stracazzo succede???
Cosa aveva fatto l’altra volta, la prima? Aveva aperto la valigia e si era tolta le lenti a contatto. Si era fatta una doccia e si era vestita, esitando su quale stampa di Caravaggio appendere, e dove. Sì, aveva invitato Lauren a entrare, mettendo bene in chiaro che non aveva ancora avuto modo di comprare del tè. Lauren aveva strillato qualche stucchevole commento divertito sull’ossessione degli inglesi per le bevande calde e l’aveva lasciata alle sue faccende.
La domanda era: aveva appena modificato il corso della storia? Pochi istanti prima era stata un po’ scortese con Lauren; sicuramente più scortese della volta precedente. Questo avrebbe influito sull’umore di Lauren? L’avrebbe resa più brusca con le altre matricole? O l’avrebbe spinta a fraternizzare con loro a suon di commenti maligni sulla tipa strana della stanza 47 Sud? Quale sarebbe stato l’effetto complessivo sulla partecipazione al tè cristiano? Le persone che allora si erano conosciute lì non si sarebbero conosciute, stavolta? O perlomeno non si sarebbero conosciute tramite un primo appuntamento? O forse quel primo appuntamento ci sarebbe stato, ma in circostanze diverse: pioggia invece che sole; cravatta da businessman convinto invece che camicia sbottonata; Casa Howard invece di Basic Instinct? E quindi, niente secondo appuntamento? Né terzo? Quale matrimonio aveva mandato a monte? A quali figli aveva impedito di nascere? Gente che da grande avrebbe inventato l’energia da fusione o perfezionato la cattura del carbonio? In parole povere, av...