Il sole scottava. La sabbia era arruffata dal vento che soffiava dal mare, violento, di sbieco. Il signor Pompeo si asciugava i piedi starnutendo. La signora Mary era stesa sopra un asciugatoio giallo, a ventre sotto. Sembrava che dormisse. A gambe divaricate. E il viso imbrattato di crema. Armando la guardava fumando con rabbia e frugando col piede nella sabbia rovente. Giovanni era partito con alcuni ragazzi. Nina era andata a fare un giro in pattìno con un signore gioviale, dal viso abbronzato, dalle gambe corte e pelose, che veniva spesso a cercarla. Da lui si lasciava invitare sul pattìno o allo stabilimento. «Vado un momento a nuotare» diceva rivolta alla signora Mary e s’incamminava affondando i piedi nella sabbia, ravviandosi i capelli e aggiustandosi le bretelle del costume di lana nera.
Il signor Pompeo la seguiva con gli occhi socchiusi, riparandosi dal sole con una mano grassoccia. Armando la sbirciava di sotto in su.
«Dove va Nina?» chiedeva la signora Mary ironica.
«A farsi…» s’interrompeva il marito brusco, mordendosi un labbro.
Armando gettava la sigaretta e girava la testa. Io seguivo Nina finché mi bruciavano gli occhi. Scorgevo appena la sagoma scura del pattìno, nel barbaglio del sole, che si allontanava leggero, con lei sopra, silenziosa, e il compagno dagli occhi avidi.
Di quelle scappate nessuno parlava. Il signor Pompeo si divertiva a spaventare Nina, facendo allusioni davanti al papà, ma poi si teneva il segreto per sé.
Armando si alzò, mi venne vicino e mi diede una spinta col piede.
«Che vuoi?»
«Vieni allo stabilimento?»
«A che fare?»
«Così. A vedere chi c’è.»
«Fa troppo caldo» obiettai.
«Che importa. Poi torniamo a nuoto.» Si accese un’altra sigaretta. Rimise i fiammiferi nella tasca dei pantaloni di cotone e mi aiutò ad alzarmi. «Andiamo.»
«Tua madre dorme.»
«Papà, noi andiamo allo stabilimento. Ciao.»
Il signor Pompeo era distratto e non ci rispose.
Ci avviammo lungo la spiaggia cosparsa di carte sporche e di catrame.
«Stai sempre zitta tu» cominciò guardando in terra.
«Che devo dire?» Alzai le spalle.
«Tua madre dov’è?»
«Morta.»
«Io mi ucciderò un giorno o l’altro» disse sporcando di saliva la carta della sigaretta.
«Perché?»
«Perché sì. Non mi va di vivere.»
«Tanto non lo fai.»
«Come no. Sono coraggioso; non credi che sono coraggioso? Non ho paura di niente.»
Eravamo quasi giunti sotto i pilastri di cemento che sorreggevano la piattaforma del ristorante.
«Prendiamo una cabina. Poi facciamo il bagno, ti va?»
«Non ho il costume» dissi.
«Si affitta.»
«Posso tornare a casa a prenderlo.»
«Troppa fatica.» Si stirò, protendendo le braccia in alto.
Mi guardai intorno: delle donne chiacchieravano immerse nell’acqua fino ai fianchi. Un bambino piangeva. Alcune ragazze dai capelli lunghi lasciavano dondolare le gambe nel vuoto, sedute in bilico sul muretto dello stabilimento. In alto, a lettere d’oro, c’era scritto SAVOIA.
Pagammo il biglietto d’ingresso e ci avviammo lungo il corridoio di cemento incrostato di sale. Da una parte il mare azzurro, dall’altra una fila di cabine dipinte di verde. Il bagnino ci raggiunse per chiedere i biglietti e ripartì per cercare i costumi.
«Che puzzo!» esclamai annusando il forte odore di disinfettante.
«A me piace. Mi ricorda quando ero bambino e venivo qui a fare il bagno con la mamma. Lei sedeva là in fondo, guarda, su una di quelle sedie a sdraio. Io mi divertivo a scendere e salire le scalette. C’è sempre stato quest’odore.»
Una ragazza bionda lo salutò dall’acqua. Armando rispose con una smorfia.
«Tutti idioti i miei amici» disse socchiudendo gli occhi per la troppa luce. Il sole si infiltrava dappertutto asciugando i corpi e il pavimento. I cristalli di sale luccicavano tra i piedi delle persone. Mi sentivo battere le vene del collo per il caldo.
Ci appoggiammo al muretto anche noi, fissando l’acqua verde e luminosa. Ogni tanto qualcuno gridava o rideva e io trasalivo. Il bagnino tornò con una bracciata di costumi. Era basso e magro, aveva gli occhi dello stesso colore del mare e due baffi rossicci gli coprivano le labbra; sotto la canottiera gialla traspariva la pelle arida e rinsecchita. Ci guardava con indifferenza.
«Questo va bene?» chiese allungando un costume di maglia nera.
«Mi sembra troppo piccolo» replicai intimidita dalla sua voce annoiata.
«Allora questo è perfetto» disse estraendone un altro dal mucchio.
«Credo di sì.»
Me lo porse sbirciandomi nella scollatura.
«E per me?» si fece avanti Armando.
«Per te c’è il solito» disse e rise complice.
Armando gli mise in mano dei soldi e lo mandò via impaziente.
«Hai sete?»
«No» risposi stringendo fra le braccia un costume che mi ripugnava.
«Ti fa schifo?»
«No.»
«Be’, allora cambiati.»
«Vado prima io?»
«E vai.» Mi rise in faccia.
Entrai nella cabina e cercai la chiave, ma non c’era. Misi l’occhio nella fessura storta tra due tavole. Avevo davanti la parete verde di un’altra cabina.
Armando spinse la porta ed entrò. La cabina era un cubo afoso. C’era la panca addossata al muro e due attaccapanni.
«Che vuoi?»
«Spogliati» disse impaziente.
Mi tolsi il vestito e mi fermai trattenendo il respiro.
«Hai finito?» domandò guardandomi per la prima volta negli occhi e sorrise. Mi tolsi il resto aspettando che succedesse qualcosa di importante.
«Voltati» disse a bassa voce.
Mi voltai. Lo sentivo respirare a fatica. Si dimenava. Guardando in basso, vidi, attraverso le fessure del pavimento, il mare giallo e verde.
«Voltati» gridò. Mi girai.
«Voltati.» Era pallido e si torceva.
«Che hai?»
Mi fissò con gli occhi vuoti, grandi e persi.
«Che hai?» Mi avvicinai per aiutarlo e fui allontanata dal suo braccio teso. Convulsamente finì di cambiarsi, si alzò e se ne uscì senza dirmi una parola.
Mi sedetti sulla panca, a guardare dalla fessura il mare.
Non avevo più voglia di uscire. Il bagnino venne a bussare con discrezione.
«Sta male?»
«Sto benissimo» risposi. Udii lo scalpiccio dei suoi piedi bagnati sul cemento. Si allontanava e poi tornava a farsi vicino.
«Il signorino Pompei è già nell’acqua» mi gridò con voce ironica.
«Ora vengo» risposi per farlo andar via.
Mi infilai il costume sporco di sabbia e scolorito, in cui mi sentivo un’altra. Aprii la porta e mi fermai, accecata dai riflessi del mare. Due ragazze si avvicinarono chiacchierando fra loro; mi parve di riconoscerle. Mi studiarono un momento in silenzio e proseguirono. Quella luce mi feriva. Era la libertà che avevo attesa tanti anni chiusa fra le mura del collegio. Le suore facevano dimenticare il tempo. Non lo calcolavano. Scendevano ogni mattina per la messa, infreddolite, con gli occhi gonfi e pieni di malumore. La domenica mi mandavano dietro l’organo a cantare. Davanti a me suora Guglielma pestava l’armonium con le dita nodose, e si commuoveva per quel che stava suonando. Dalle finestre socchiuse entrava l’odore della strada bagnata e il rumore delle macchine. Pensavo che il mare dovesse essere così. Forse con meno luce e meno violenza. Pensavo di poter camminare avanti, finché avessi voluto, senza avvertire il passo sordo della suora dalle scarpe felpate, le sue mani sul collo, che diceva: “Bambina mia…”.
Mi appoggiai al muretto sporgendomi sulle onde e dopo aver abituato gli occhi alla luce cercai Armando. Nuotava non lontano da lì, la fronte corrugata, la testa gocciolante incassata nelle spalle scheletrite e coperte di brufoli.
In fondo al corridoio una signora prendeva il sole col cappello di paglia calato sugli occhi. Il bagnino mi scorse uscendo da una cabina e mi salutò con un cenno del capo.
Sopra di me, a due metri di distanza, due signori eleganti conversavano tra loro appoggiati alla ringhiera del ristorante. Scuotevano la cenere che palpitando andava a posarsi sul pelo dell’acqua.
«Ciao» fece uno dei due agitando la mano. Voltai il capo dall’altra parte. Quello accanto gli sussurrò qualcosa all’orecchio e tutti e due risero muovendo i gomiti sulla balaustra.
«Sola?» insistette il primo fissandomi il petto.
«Sì» risposi.
Il primo, a cenni, mi fece capire che sarebbe sceso a prendermi. L’altro tentennava la testa e mi mandava baci sulla punta delle dita. Cercai Armando che nuotava caparbio, tutto compreso in sé, e mi volt...