Ad ogni tuo sguardo
eBook - ePub

Ad ogni tuo sguardo

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ad ogni tuo sguardo

Informazioni su questo libro

Londra, una lunga notte ventosa. Frances B sta dormendo. Al piano di sotto, nell'oscurità quasi totale della cucina, un uomo prepara il tè. Lei ignora la sua esistenza. Lui, invece, sa tutto di lei. Sono settimane che studia e annota ciò che vede e sente, ogni suo sguardo, ogni sospiro. Molte altre donne hanno abitato le fantasie ossessive dell'uomo, ma nessuna è paragonabile a Frances, la sua ultima fissazione: tra tutte, la più preziosa. Per lei ha abbandonato ogni cautela: seguire, spiare, intercettare non gli basta più. Deve entrare nella sua vita, scardinarla, procurarle sofferenza se necessario. Perché "star male a volte fa bene", e quando avrà bisogno di conforto lui sarà lì, a prendersi cura di lei. Lanciata a tutta velocità su questi binari di follia, la quotidianità dell'uomo deraglia nella psicopatia estrema, e più le sue azioni si fanno abiette più i suoi appunti si addensano intorno all'insana simbiosi tra lui e Frances, ignara protagonista del capitolo cruciale della vita di entrambi. Ad ogni tuo sguardo è un soggiorno claustrofobico nella mente di uno stalker, un'esplorazione in soggettiva della volontà di manipolazione. Perché, come suggerisce questa storia nera, siamo tutti, irrimediabilmente, esposti alle ossessioni degli altri.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
Print ISBN
9788817139168
eBook ISBN
9788831806022

Ad ogni tuo sguardo

Non mi considero una persona complicata. E non penso che in molti lo siano. Accetto d’aver vissuto una vita strana negli ultimi quattro anni, soprattutto nell’ultimo mese, quindi immagino di dovermi considerare uno strano, ma ti prego di perdonarmi se questa parola non mi calza proprio a pennello. Non sono tanto strano da andarne orgoglioso. Ho soltanto provato a vivere seguendo semplici principi improntati all’ostinazione, all’onestà e all’apertura mentale.
Ogni tanto credo che tutti riusciamo a scorgere la nostra essenzialità, che ci proviamo o no. Per esempio, avrai di sicuro sentito parlare delle persone che in punto di morte dicono di avere infine capito cosa è davvero importante, intendendo così che la lista di quanto lo è davvero è più corta di ciò che pensavano. In men che non si dica, però, la maggioranza ritorna a preoccuparsi delle bollette, dell’apprezzamento altrui o di non arrivare in ritardo. Per dimenticarsi della vita tirano a campare. Quelli che invece se ne ricordano li consideriamo dei traumatizzati.
Il pericolo ti getta nelle grinfie di questa cupa saggezza, ma non è affatto l’unica strada. La maggior parte dei bambini, a un certo punto, scopre che per mettere a nudo una mente con relativa facilità basta giocare al gioco dei Perché? Limitati a chiedere Perché? a ogni affermazione, e poi Perché? alla risposta, e continua a chiedere Perché? finché non entri in un loop oppure arrivi a lambire la fisica delle particelle, o magari gli adulti finiscono per annoiarsi – dipende da cosa succede prima.
Consentimi un esempio. Perché? Perché gli esempi sono dei buoni modi per spiegare le cose, e ora come ora preferirei spiegare quest’idea piuttosto che continuare con la storia. Perché? Perché sono in ansia. Perché? Vari motivi. Tra questi, il fatto che sto preparando il tè al buio. Perché sto preparando il tè al buio? Buona domanda. Perché voglio portarle qualcosa che le dia conforto quando andrò di sopra, ma non oso accendere le luci. Perché non oso? Perché non voglio rischiare di svegliarla. Perché? Perché voglio svegliarla più tardi, all’ora giusta. Perché? Perché voglio fare una buona impressione. Perché voglio fare una buona impressione? Perché voglio essere amato. Perché voglio essere amato? Non so. Curiosità, forse. Voglio scoprire cosa si prova. Perché voglio scoprirlo? Non so.
Non è del tutto buio qui, per esser precisi, e io intendo esserlo. La spia del bollitore elettrico diffonde un bagliore arancione sulle tazze in attesa. Insomma: è buio abbastanza da farmi stare in ansia per la preparazione del tè, sopra tutto il resto.
Siamo nella fase del sibilo. Hai presente la fase del sibilo? Il bollitore si avvia in silenzio, poi si sentono alcuni scatti, successivamente gli scatti lasciano il campo a un quieto fischio che via via cresce. Ecco a che punto siamo, all’inizio.
La sua tazza è bianca con una fantasia di piume blu. Le vanno particolarmente a genio i disegni pieni di piume blu. Non so perché. So solo che ogni qual volta è disponibile, lei sceglie quella, e deve essere una sua fissazione perché ha a disposizione una mensola, persino un po’ chiassosa, di tazze tra le più varie. Ce n’è un’altra con le piume ma per me ho scelto una tazza diversa perché temo che, se la prendessi identica, sembrerei più un tipo precisino che premuroso. E poi non è che possa dirle semplicemente Oh, a proposito, ti ho portato una delle tue tazze preferite. Non è fine. Suona più come se stessi implorando un elogio. Le farò soltanto notare che la mia tazza è diversa, verde scuro e dorata, presa dalla seconda fila del ripiano, dove va a pescare di rado, lei. Speriamo capisca che la mia intenzione è creare un modesto contrasto, come il bianco delle pareti di una galleria o di una pagina. Magari non funziona, ma io credo nel fare più del necessario di ciò che ci è richiesto. Non puoi controllare cosa pensa la gente ma, se fai tutto ciò che ti è possibile, le persone lo noteranno e capiranno che le tue attenzioni indicano quanto tieni a loro. Occorre mostrare quasi una leggera pazzia.
Come dicevo, sono in ansia e in cerca di distrazioni. Lo so, è ridicolo pensare che il bagliore delle luci della cucina possa in qualche modo penetrare fino alla sua stanza da letto al piano di sopra, ma me ne sono preoccupato e ho lasciato la stanza al buio. Temevo che la torcia con cui mi barcameno potesse attirare l’attenzione attraverso le finestre, quindi l’ho spenta e sono rimasto con questa oscurità un po’ arancione che crea un’atmosfera quasi minacciosa. Lei e il tempo. È una notte di vento là fuori. Quando arrivano, le raffiche sembrano determinate a farmi paura. A volte tremo.
Adesso siamo alla fase del borbottio. Sollevo il bollitore. Non attendo che inizi a bollire. Forse avrai già notato che i bollitori spesso indugiano un bel po’ sulla soglia dei cento gradi per trasformare l’acqua in vapore. Non ha senso, ne basterebbero novantacinque, di gradi. E io sono anche in ansia per via del rumore. Sollevare il bollitore disconnette la corrente e la luce arancione si spegne. Me ne sono dimenticato, il che mi mette in apprensione, visto che sono rimasto nel buio più totale con dell’acqua quasi bollente in mano. Riesco a posare il bricco sul bancone ma ancora non vedo nulla. Finalmente trovo la maniglia del frigo e lo apro, e tutto si inonda di biancore. Avrei dovuto farlo prima. Faccio scorrere l’acqua sulle oscure regioni della bustina di tè. Prendo il latte dal frigo e afferro un cucchiaino. Le piace forte, il tè, e senza zucchero, giusto un goccio di latte per renderlo castano, solo che è difficile giudicare con questa luce fioca, quindi avvicino la tazza al frigo. Nuvole di vapore riempiono i ripiani, ma va bene. Tolgo la bustina e la butto nel secchio, che puzza di cipolle, ricordandomi di aprire e chiudere il coperchio il più silenziosamente possibile. Suonano come campane, i coperchi dei secchi a pedale. Il mio tè lo faccio uguale.
Il resto della roba che mi serve è nella sacca da palestra che mi metto sulle spalle tenendo la torcia in bocca mentre porto su le due tazze di tè. Le borse di questo tipo non sono pensate per le spalle e i miei calzini scivolano sul pavimento, quindi attraverso il soggiorno e salgo le scale con prudenza. Mi muovo furtivo, soppesando ogni passo. Infine sbircio oltre la porta.
Dorme. Senza puntarle la torcia in faccia, appoggio la tazza come una piuma sul comodino, e la mia accanto alla borsa sulla moquette. Prendo il suo telefono e stacco il cavetto, facendo attenzione a non toccare il tè né a spostare il libro aperto e perdere il segno.
È stesa dal suo lato. Il viso mezzo nascosto dai capelli, folti e lucidi. Mentre la guardo, con le dita assonnate si arriccia i capelli dietro un orecchio. Mastica aria, espira e torna tranquilla. Mi chiedo che cosa stia sognando. Forse di quand’era ragazza, d’esser cresciuta senza il padre ma nella tranquillità di una piccola cittadina. O d’essere stata popolare il giusto, a scuola, una studentessa brillante portata soprattutto per la storia, e poi d’aver perduto quella reputazione all’università. Dopo l’università so che è diventata più esigente con se stessa e si è trovata un lavoro ben pagato; e si è scoperto che i soldi le piacevano. La fragile adolescenza le lasciò in dono il suo fascino, anche se all’inizio fu molto sorpresa dal numero di uomini che le si proponevano. Ciò accadde in quella fase delicata del primo impiego in cui, ancora diffidente nei confronti del mondo, per intenderci, presumeva con tristezza che essere assillata da avance sessuali fosse il fardello che ogni donna deve sobbarcarsi fino a quando non procrea dei figli. In più, presumeva che i suoi corteggiatori non fossero uomini di prima qualità. Con il tempo, però, e mettendo insieme i commenti degli amici, arrivò alla consapevolezza d’essere bella. Impossibile restare indifferente a tutto quel guardare, malgrado le provocasse quell’aria sdegnosa che lei per prima temeva. Iniziò a trasparire una sorta di distacco nella sua voce. I rifiuti venivano serviti in maniera brusca. Quando arrivò un lavoro pagato ancor meglio, si comprò questa casetta. Gli amici dicevano che non era da lei essere così istintiva in una scelta tanto importante, ma ripensandoci convengono sul fatto che in lei ci siano sempre stati lampi di risolutezza. Fino a poco tempo fa al lavoro era nota per avere la mano ferma. Adesso si tiene tutta abbracciata sotto le coperte. Scorgo un tremore nelle palpebre. Il respiro si fa fievole e irregolare. La guardo e penso. Non puoi vedermi, ma sono qui.
Sogna.
Prima di tutto dovrei spiegare come sono diventato ricco.
È successo abbastanza all’improvviso quattro anni fa, il giorno del funerale di mia zia Kathy. Quei pochi di noi che erano presenti si sono incontrati a funzione finita per scambiarsi ricordi in un ristorantino che per l’occasione aveva chiuso. Ricordi noiosi, ma trattandosi di un venerdì pomeriggio, eravamo liberi di bere. Ne avevamo bisogno. Il posto era fin troppo grande. C’era ovviamente vino in eccesso, e un lungo tavolo appoggiato alla parete bello pieno di sandwich, paste e composizioni di frutta. Alla gente piace dire che in momenti di questo tipo ci sia un elefante di cui non si può parlare nella stanza, e lì in realtà avevamo abbastanza spazio per un pachiderma che avremmo pure potuto sfamare.
Per quanto mi riguarda, avevo fame e mangiai il più possibile. Ogni volta prendevo qualcosa di diverso da ciascun vassoio, sperando di lasciarli vagamente in disordine come se ci fosse un bel po’ di gente. Anche altri sbocconcellavano qua e là, e alla fine quel che restò poteva dare facilmente l’impressione che ci fossero stati trenta o quaranta convenuti di poco appetito, il che poteva ben accadere, vista l’occasione e anche l’ora. E comunque, chiunque fosse venuto a pulire dopo, avrebbe dovuto essere un paranoico per immaginarsi che un tipo si fosse messo sistematicamente a far visita a vassoi differenti con lo scopo di ingannare proprio lui.
L’avvocato di Kathy mi avvicinò mentre mangiavo delle fragole, credo. Essendosi accertato circa la mia identità, mi diede il suo biglietto da visita, disse di avere alcuni documenti che mi riguardavano e suggerì che ci incontrassimo dopo per discuterne. Ammetto che mi attendevo un qualche gesto da parte di Kathy. Ammetto pure di sapere che quel gesto non sarebbe stato di poco conto. Era rimasta single e aveva guadagnato un sacco di soldi, una delle prime donne a lasciare il segno nel mondo delle banche, sebbene la sua carriera non assomigliasse affatto a una crociata. Non si interessava né al movimento femminista né ad altre cause. Bastava stare con lei venti minuti per percepire la severa solidità di una persona che non si aspetta nulla dal prossimo e gli restituisce pure meno. Dev’esser stata un osso duro con cui trattare. Ora non è che un’immagine, il mio ricordo di Kathy. I vestiti dai colori accesi e gli occhiali, e la frangia che cambiava colore ma forma mai. La notizia del cancro non l’accolse con gioia, ovvio, ma dimostrò nondimeno un atteggiamento simile a quello della rivincita: morire a cinquant’anni è una vittoria, di Pirro potresti dire, sugli ottimisti. Una sola parola sulla sua lotta durante una visita e ti cacciava via. Io volevo solo sapere come si sentiva sapendo che sarebbe morta presto, e credo che le andasse a genio quel mio essere diretto. Quando era in buona diceva di essere felice di non doversi preoccupare dell’angoscia altrui. Se le girava male, non diceva quasi niente.
Non voglio darvi l’impressione che Kathy non ridesse, però. In quella sua fase finale si vide un rifiorire di umor nero. Un paio di volte una battuta sembrò quasi darle il colpo di grazia. È il modo migliore di andarsene, suppongo, se ci si riesce. In particolare, era presa dal tema ricorrente della sua eredità, neanche fosse il capo di un consiglio di amministrazione in uscita o un politico a fine mandato, e questa cosa faceva ridere persino me. Pensavo che ciò indicasse la sua consapevolezza di essere stata una pioniera. Più in là mi chiesi se quelle battute avessero un altro significato nascosto che teneva per sé, visto che un’eredità l’ha lasciata eccome.
Accantonato l’atteggiamento solenne imposto dalla cerimonia, sul taxi l’avvocato mi rivolse un sacco di sorrisi. Non perdemmo tempo in chiacchiere. Nel suo studio ordinò del caffè e mentre bevevo il mio mi spiegò che, tolta una donazione all’ospizio e qualche soldo regalato a destra e a manca, era stato desiderio di mia zia che ogni sua ricchezza andasse a me. Una volta messi assieme i conti e i fondi, e una prudente valutazione del suo appartamento, il tutto ammontava a qualcosina meno di undici milioni, una somma che, da allora, non ha smesso di crescere. Non riesco a spenderne neanche gli interessi.
In quel momento fui assalito soprattutto dalla confusione su come reagire.
Quindi sono ricco?, dissi, o qualcosa del genere.
L’avvocato annuì.
Come reagiscono di solito le persone?
Questa domanda parve coglierlo di sorpresa. Disse che era difficile generalizzare, perché casi tanto clamorosi erano rari. Ovviamente, considerata la cifra di cui si parlava, e il fatto che giungesse inaspettata, il mio era il caso più plateale in cui fosse incappato in trent’anni. Non sapeva proprio quale potesse essere una reazione normale.
Però lei sorride, dissi. E sembrava che non vedesse l’ora di dirmelo, quindi deve essersi aspettato qualcosa di positivo. Aveva previsto che mi facesse piacere?
Disse che alla maggioranza delle persone faceva piacere.
E come si comportavano?
Non che...

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