Torino è più bella che mai. Il Po luccica sotto il sole, per una volta non sono in ritardo al lavoro e il mio umore è a livelli così alti che nemmeno i tubicini nel naso mi danno più fastidio. Ormai ci ho fatto l’abitudine, sono come una parte di me, tipo la maschera di Dart Fener, anche se forse io sono un po’ più carina (inizio a crederci, lo giuro!). Però il concetto è lo stesso: senza, non respiro. Muoio proprio.
È assurdo, no? Tutti sappiamo che moriremo, ma la maggior parte della gente non lo pensa davvero, almeno non fino a quando non è molto vecchia, e allora inizia a capire che forse, sì, ci sono delle concrete probabilità che accada.
Dovrebbe essere così per tutti, a meno che la sorte non ti abbia fatto il regalino di mostrarti in anticipo la data di scadenza. E a me è successo molto presto, la so fin da quando ero bambina. Allora le cose cambiano, e quella data – anche se non è precisa ma è un generico “preferibilmente entro” – ti si appiccica addosso come un’etichetta. Come una zecca, o nel mio caso come un viscido slime.
Già, perché la colpa è sempre sua, del dannato mostro invisibile che ha deciso di venire ad abitare nei miei polmoni, e che non c’è verso di sfrattare. L’unica è cambiare polmoni, radere al suolo la casa insieme all’inquilino e costruirne una nuova. Che infatti è proprio quello che spero accada al più presto, appena trovano il donatore giusto per il trapianto.
Anche se oggi sono felice, e il retrogusto della sfiga è quasi impercettibile, basta un riflesso del sole tra le fronde degli alberi a farmi tornare all’improvviso indietro, a quando ero piccola, nella soffitta di mia nonna.
Un pulviscolo dorato vortica nelle lame di luce che entrano dalle finestre. Avevo sì e no sette anni, e mi fa tenerezza pensare come già allora, sul palcoscenico dei miei giochi, la protagonista fosse lei, l’amichetta preferita del mostro invisibile, invisibile pure lei ma prontissima a mandare tutto all’aria con la parola fine.
«Mi dispiace, Marta. Non abbiamo buone notizie.»
Federica ha un fazzoletto bianco annodato in testa che non riesce a contenere la sua chioma rossa e ribelle, ma è comunque sufficiente per farla entrare nella parte dell’infermierina compassionevole. Mi tiene la mano mentre io giaccio esangue – e in pigiama – sul baule impolverato, ancora poco consapevole di quanto la polvere sarebbe diventata un nemico per me.
«Ditemi tutto, vi prego.» Porto l’altra mano alla fronte in un gesto plateale e scandisco con enfasi: «Andrò incontro al mio destino, qualunque sia, senza paura!».
Incredibile quanto ero brava a recitare già da piccola.
Jacopo mi ausculta i polmoni (a occhio, più la milza) con uno stetoscopio di plastica, poi fa la sua diagnosi, che è anche un verdetto. «La situazione purtroppo è grave.»
Pausa di raccoglimento e dolore. Chiudo gli occhi.
«Hai la mucofiscibosi.»
Li riapro di scatto: «Uffa! Si chiama mucoviscidosi! Quante volte te lo devo ripetere!».
«Sì, esatto, volevo dire mucocicci… insomma, quella cosa lì.» Jacopo sbuffa e incrocia le braccia sul grembiule di mia nonna che gli fa da camice. Lo indossa con un certo stile, però più che un medico sembra un salumiere. Un salumiere permaloso, a quanto pare: non gli piace per niente essere rimproverato se sbaglia a dire le parole.
«Quanto mi resta da vivere?» chiedo poi in un soffio.
Federica si dà un’occhiata al polso nudo, scrutando un inesistente orologio: «Più o meno tre minuti, mi sa che tra poco iniziano i cartoni».
Con estrema fatica mi sollevo sui gomiti e faccio cenno ai testimoni dei miei ultimi istanti di avvicinarsi al mio capezzale.
«Prima di morire c’è una cosa che dovete sapere, un segreto che non ho mai confidato a nessuno…»
Jacopo e Federica si stringono a me, incuriositi.
«Ecco, volevo dirvi che…»
Mi accascio di nuovo.
«Ahhh, muoio!»
Lascio cadere la testa di lato e sbarro gli occhi, stecchita.
Vorreste conoscere il segreto che non ho mai rivelato? Perso per sempre. O forse no, magari un giorno sbucherà fuori, del tutto inatteso, dal fondo di un cassetto della memoria, uno di quelli che nemmeno sai dove si nasconde, e la sua rivelazione sarà così scioccante da cambiare per sempre la mia vita.
Nel frattempo, però, posso dirvi perché il mio umore è così alle stelle.
Siete pronti? Perché questa rivelazione potrebbe essere ancora più scioccante di quella sul letto di morte dei miei sette anni.
No, non sono miracolosamente guarita, altrimenti non avrei le cannule nasali e la bombola di ossigeno a tracolla tipo accessorio primavera-estate-autunno-inverno. Anche se, considerato il livello di inquinamento del pianeta, probabilmente sto anticipando un trend del futuro.
E no, non ho litigato con Jacopo e Federica, loro sono sempre la mia famiglia e abitiamo ancora tutti insieme appassionatamente.
Però… con Arturo non ha funzionato. Ecco, ve l’ho detto. Non dispiacetevi per me, sembra incredibile ma l’ho lasciato io. E non biasimatemi neppure. So che un ragazzo così figo non mi capiterà mai più, ma diciamoci la verità: gli opposti si attraggono però alla fine si mollano. Eravamo troppo diversi. Come molti grandi amori è stato una fiammata, intensa ma rapida, e mi ha lasciato anche qualche piccola bruciatura.
La famiglia Selva era insopportabile, troppo formale e imbastita per i miei gusti. Non sono tipa da farsi scortare dal maggiordomo nel salotto Luigi XVI in attesa che il pranzo della domenica sia servito da una schiera di camerieri in guanti bianchi. Ma il punto non era tanto questo, era che io e Arturo non andavamo d’accordo su nulla. Dopo le prime settimane di idillio abbiamo iniziato a litigare a ripetizione. Siamo partiti dalle grandi questioni esistenziali, come ad esempio l’equazione perfetta per cucinare la pasta alla carbonara – lui filologico a livelli insopportabili, solo guanciale e pecorino altrimenti si rifiutava di mangiarla, io molto più propensa a sperimentare ignorando le ricette ufficiali –, fino ad arrivare alle più classiche e banali insofferenze legate a come lasciare la tavoletta del gabinetto o a come spremere il tubetto del dentifricio, passando per inconciliabili posizioni riguardo a dove trascorrere il fine settimana, se al mare o in montagna, in campeggio o in un albergo a quattro stelle. Visioni contrastanti della vita.
All’inizio pensavo fosse solo una fase di assestamento, e c’era anche un lato positivo nel fare la pace dopo ogni sclero. Ero certa che avremmo raggiunto un equilibrio, ma non è successo, e non si può vivere sempre sulle montagne russe.
Così eccomi qui, è passato un anno e… ho conosciuto un altro! Per la verità non è ancora successo nulla. Non siamo nemmeno usciti insieme, ma lo incontro ogni giorno andando al lavoro, e per ora posso solo dire che mi intriga. Il motivo è molto semplice, la notizia bomba infatti non è che ho conosciuto qualcuno, ma che per una volta sono io a essere corteggiata. E sapete che c’è? È una sensazione bellissima. Non ho mai avuto orde di spasimanti che mi sbavano dietro e, a prescindere dalla mia data di scadenza, non le avrò mai: è il destino delle bruttine. Ma questa è la mia rivincita.
È andata così. Era una mattina di sole, più o meno come questa se non per il fatto che ero in ritardo come al solito e il mio umore non era affatto alle stelle. Rompere con Arturo non è stato facile, anche se l’ho lasciato io. Anzi, forse proprio per questo: dopo tutto il casino che avevo fatto per accalappiarlo, nel dirgli che era finita mi sono sentita un verme. Ma credo sia stato un bene anche per lui, prima o poi mi ringrazierà. Comunque, sono in ritardo e trafelata. Senza nemmeno rivolgergli uno sguardo passo di fianco a questo tizio che da qualche tempo sta nel piazzale del supermercato dove lavoro, seduto su una seggiolina pieghevole, a fare ritratti a pagamento ai passanti. Avrei proseguito per la mia strada e non ci saremmo magari mai parlati se il destino, in forma di una folata di vento, non avesse scompigliato i suoi fogli facendoli volare via e vorticare attorno a me.
Lui si alza di scatto, io un po’ frastornata lo aiuto a raccattare i fogli e glieli porgo.
«Grazie.» Mi lancia un sorriso timido che mi arriva dritto al cuore con una piccola scossa, la cui onda d’urto, quasi impercettibile, mi fa pizzicare la nuca. L’ho sentita davvero?
«Non c’è di che. Belli i tuoi disegni, posso vederli?» Marta, sei in ritardo, perché non ti dai una mossa invece di perdere tempo con questo tizio con le dita sporche di carboncino?
«Ecco, veramente… No, ti prego, non…»
Mi avvicino alla cartelletta posata per terra, che si è aperta e mostra il suo prezioso contenuto, mi inginocchio e mi metto a scartabellare. Guardo un disegno, poi un altro… sollevo lo sguardo incuriosita e incrocio quello imbarazzato del ritrattista. Che evidentemente ha scelto me come suo soggetto preferito.
Sì, perché la cartelletta è piena di ritratti di me, della mia faccia buffa con i tubicini nel naso, delle mie gonne corte con le calze a righe, delle mie espressioni ridicole quando parlo al telefono, dei miei capelli bagnati quando dimentico l’ombrello (cioè sempre).
Voi penserete: “Super creepy”. Io invece ho pensato: “Super romantico!”.
Wow, non sapevo di meritare tutta questa attenzione.
«Scusami, io… Ti sembrerò un maniaco, è solo che hai un viso interessante, ti vedo sempre passare e… Dio, che figuraccia.»
«Tranquillo, ne hai di strada da fare per battermi a figuracce. E poi non sono offesa, direi piuttosto lusingata. Gli affari però non ti vanno benissimo, se hai tutto questo tempo per stare a dipingere me…»
«Scherzi? C’è la coda. È che… preferisco te.»
La piccola scossa mi pizzica di nuovo la nuca, un po’ più forte.
«Be’, grazie, non so cosa dire… Mi chiamo Marta.»
«Ehm, lo so, ho chiesto ad Ahmed, vedo sempre anche lui, ormai siamo amici. Mi ha parlato un po’ di te… Io sono Gabriele.»
Per la serie “adesso so cosa significa essere stalkerata”.
«Ah, grazie Ahmed! Vado a dargli una lezioncina sul concetto di privacy.» Ma lo dico per scherzare, in realtà non sono per niente infastidita. Se si fida lui, posso fidarmi anch’io. E poi Gabriele ha l’aria così dolce, con gli occhi che luccicano per la timidezza. O forse è perché gli piaccio io!
Poi sono scappata, già sapendo che mi sarei presa una ramanzina dal direttore Morana per il ritardo. Ma da allora ogni volta che passo o esco per una pausa mi fermo qualche minuto con Gabriele, e basta questo per farmi venire il buonumore.
È fantastico sapere di essere il motivo per cui qualcuno sorride. Lui non è uno strafigo come Arturo ma la bellezza non conta nulla, e non lo dico per portare acqua al mio mulino. Lui arrossisce se lo guardo negli occhi, mi fa sempre un sacco di complimenti, una volta mi ha regalato un cioccolatino a forma di cuore, e quando ci siamo presentati aveva la mano umidiccia, non è fantastico?
È un ragazzo meravigliosamente normale, con uno splendido e imperfetto corpo troppo alto e magro – credo non abbia nemmeno l’ombra di un muscolo –, l’aria bohé...