La psichiatra Elisabeth Kübler Ross una volta scrisse: «La vita è come una centrifuga, sei tu che scegli se uscirne distrutto o ben levigato».
Sono sempre stata fermamente convinta di dover raggiungere qualcosa: un obiettivo, una meta, uno scopo. Per me era importante. Non sono mai riuscita a vedere l’esistenza come un mero scorrere caotico e insensato di eventi. Ci voleva un sogno! E un sogno, a un certo punto, lo trovai. Era bello, splendente, grandissimo ed ero sicura che lo avrei raggiunto. Fino al giorno in cui, invece, tutto crollò e persi molte cose: persone, punti di riferimento, obiettivi e soprattutto la stima e la fiducia in me stessa e nell’universo.
Fu così che, una mattina di luglio del 2015, scesi dal soppalco del mio piccolo monolocale, feci colazione e, zaino in spalla, partii per il Cammino di Santiago.
Per chi non lo sapesse, il Cammino di Santiago è un pellegrinaggio la cui meta è la città di Santiago de Compostela, in Spagna, importante fin dal primo terzo del IX secolo, dopo l’annuncio della scoperta della tomba di San Giacomo. La rotta più conosciuta e frequentata si estende dai Pirenei fino alla Galizia e ha una lunghezza di circa ottocento chilometri. A oggi è percorsa da più di 200.000 pellegrini ogni anno, per lo più a piedi.
Conoscevo il Cammino di Santiago da diversi anni, ma mi era sempre stato difficile decidermi sul serio. Per farlo serviva tempo, motivazione e coraggio.
Nel 2015 trovai tutte e tre queste cose e partii.
Iniziai dalla città di Burgos e feci, quindi, circa seicento chilometri in venticinque giorni.
Partii da sola.
Mostro era con me (dentro di me), ma non aveva ancora le sembianze di oggi. Eravamo in quella fase di incomunicabilità nella quale io non riuscivo a capire lui e lui non sapeva affatto spiegarsi.
Era la fase “melma nera”.
Era la fase pesante.
La massa informe che allora era il mio Mostro mi tormentava e spesso mi ritrovavo a pensare: “Ma chi me lo fa fare? Ne vale davvero la pena?”.
Non che avessi davvero intenzione di “abbandonare la partita”, s’intende, ma non riuscivo proprio a trovarvi il senso. Dopo il crollo del mio progetto esistenziale tutto mi appariva pesante, faticoso, crudo e non percepivo nulla che mi facesse sentire davvero a casa.
La medesima sensazione veniva a svegliarmi ogni mattina sul Cammino quando, alle 4.30 o giù di lì, la mia sveglia suonava per ricordarmi che, con le gambe ancora doloranti dal giorno prima, avrei dovuto affrontare altri venti, venticinque o trenta chilometri a piedi.
Era terribile. Ricordo che rimanevo sempre per alcuni minuti ferma nel letto a pensare se fosse il caso o meno di prendere il primo volo e abbandonare tutto.
Era sconfortante.
Poi, però, succedeva una cosa.
Mentre stavo là a guardare le doghe del letto sopra il mio, cercando dentro di me le energie per alzarmi, una piccola orchestra di suoni riempiva la voragine che mi portavo dentro: sveglie che iniziavano a suonare, rumore di sacchi a pelo che venivano aperti, tonfi di piedi sul pavimento, docce che iniziavano a scrosciare. E poi risate, parole, un “Buen camino” qua e un «Ci vediamo» là.
Voci di un mondo che diceva: alzati, non sei sola!
Non fu una lezione facile da apprendere: avevo deciso di partire da sola, avevo bisogno di stare da sola e forse non potevo che stare da sola, con il Mostro ancora conciato in quel modo. Presto, però, il Cammino mi insegnò che, per quanto ci si convinca che sia meglio stare soli, la vita, in realtà è fatta di relazioni.
Fu grazie alle persone se, il terzo giorno del mio viaggio, mentre arrancavo stanchissima al ventottesimo chilometro, riuscii a continuare a camminare invece di fermarmi stremata in mezzo alla strada.
Fu grazie alle persone se, quando mi venne la tendinite, ricevetti i giusti bendaggi e riuscii a continuare il mio viaggio, senza farmi male e senza dover rinunciare.
Fu grazie alle persone se, quando mi venne la febbre per via di un’intossicazione alimentare ed ero stanca e dolorante e non riuscivo neanche ad andare a fare la spesa, ebbi da mangiare in quantità e scoprii il fantastico riso con limone che salvò il mio stomaco e il resto del mio viaggio.
Le persone sono tutto.
Le relazioni sono tutto.
Crediamo di essere autosufficienti, indipendenti, superiori, a volte, ma arriverà sempre il giorno in cui non ce la faremo. Quel giorno, ciò che ci salverà la vita saranno le persone che avremo intorno. Conosciute o sconosciute che siano. Perché alla Vita piace aiutarci così: attraverso gli altri.
E questa fu la prima cosa che imparai sulla Vita, durante quel viaggio. L’altra riguarda la vera natura delle delusioni.
Quando arrivai sul Cammino cercavo una specie di redenzione. Non sapevo bene in che modo, non so che cosa mi aspettassi, forse che il Cammino mi cambiasse, forse che avvenisse qualcosa di magico che mi donasse un altro sogno, un altro destino, visto che quello che credevo avrei raggiunto non si era realizzato.
Cercavo una via. Un incontro. Qualcosa.
Ma questo “qualcosa” non arrivava.
Poi, una mattina, il Cammino mi “parlò”.
Ero partita all’alba, come ogni giorno, e stavo camminando su una stradina sterrata in mezzo al nulla. Ero sola, non c’era nessuno davanti a me né dietro. C’ero solo io che camminavo.
Niente altro.
Nonostante gli incontri fatti, le persone conosciute, i bei momenti, i prati, i fiori, il cielo, il nuovo rapporto e la nuova fiducia che avevo sviluppato con il mio stesso corpo (visto che era l’unica cosa sulla quale potevo davvero appoggiarmi durante il viaggio), continuavo a sentire questa mancanza che non veniva colmata.
Ero arrabbiata.
Mi dicevo: “Ma perché sono venuta? Non ho trovato per niente quello che stavo cercando. Sono stanca, affaticata e non è cambiato ancora niente. Che senso ha?”.
Mentre facevo questi pensieri ed ero in quello stato di mezza trance mentale in cui si entra quando l’unica cosa che senti è il suono ritmato dei tuoi passi, guardando proprio quella strada sulla quale stavo camminando, sentii come una specie di voce interiore che disse: “Non puoi incontrare nessun sentiero, se sul quel sentiero stai già camminando”.
Fu allora che capii. Una prospettiva nuova che non avevo mai considerato prima fece capolino nella mia coscienza: forse, tutto quello che era successo negli anni precedenti non era stato davvero un fallimento.
Forse non avevo sbagliato tutto come pensavo e non dovevo cercare la “retta via” perché la mia vita era quella, la mia strada era quella, non c’erano stati errori.
L’unico errore che avevo fatto era aver creduto che, solo perché desideravo tanto qualcosa, quel qualcosa dovesse evolversi come avevo deciso che si sarebbe dovuto evolvere.
Ci misi molti anni ancora per elaborare davvero quel concetto. Non è facile guardarsi indietro e credere, e fidarsi, che tutto abbia avuto un senso, anche quando non lo si vede, non lo si capisce o ci addolora.
Siamo ingenuamente convinti che la vita debba seguire le nostre regole, che quando le cose vanno in un verso diverso da quello che ci aspettiamo, che abbiamo programmato o che abbiamo sognato, ci sia qualcosa di sbagliato, negli altri, nel mondo o in noi stessi.
Ma ci dimentichiamo di considerare la possibilità che, magari, l’unica cosa davvero sbagliata sia la nostra infantile presunzione ...