A Mario non andava di tornare a casa. Probabilmente i suoi genitori lo stavano aspettando con la cena pronta in tavola. Una cena a base di proteine, come da precise istruzioni del nutrizionista. La palestra era la sua vita. Era l’unica cosa che lo teneva occupato, che gli permetteva di non pensare e di concentrarsi esclusivamente su sé stesso. Non che Mario fosse un tipo mistico, non lo era mai stato, ma era ovvio che dopo la litigata con Janine, l’anno prima, e in attesa della data del processo, non poteva fare a meno di riflettere sul suo comportamento, sulla sua esistenza, sul futuro e soprattutto sul passato. Mario poteva sembrare un ribelle senza scrupoli, il classico belloccio senza cervello perfetto per il trono di Uomini e Donne… e forse era vero, ma la raffinata educazione, i gusti ricercati e i privilegi che aveva avuto essendo quello che era avevano risvegliato in lui una certa inquietudine. Non era un menefreghista, no, e nemmeno un fannullone. Era solo che aveva altre priorità nella vita, priorità che lo portavano a non prendere mai in considerazione le conseguenze delle sue azioni. Ma quello era prima.
La sera, dopo essersi allenato e aver sfogato la rabbia sul sacco da boxe, gli piaceva passeggiare un po’ prima di tornare a casa. Non faceva sempre la stessa strada. Si metteva gli auricolari senza fili ed era proprio la musica a tutto volume a guidarlo nel suo vagabondare dalle otto alle dieci. Due ore per pensare, per pentirsi e per godersi le tante piccole cose che il mondo aveva da offrirgli, tipo sedersi su una panchina senza niente di meglio da fare o andare al lago a vedere il tramonto. Era diventato un tipo solitario. Se prima era il galletto del gruppo, l’anima della festa, e ogni sabato sera il suo nome compariva sulle liste di tutte le discoteche, adesso era uno tra i tanti, anzi, peggio, era uno qualsiasi. Uno che parlava poco, che non usciva mai e che cercava di sfruttare al massimo le sue sofferenze e la solitudine.
Erano le 21:47 e Mario si era seduto sull’erba, davanti al lago. Gli si stavano congelando le chiappe, ma, anche se sapeva che si era fatto tardi, preferiva continuare ad aspettare. Diciamo che i suoi genitori all’ora di cena seguivano una specie di protocollo: se alle nove e mezza non era ancora seduto a tavola, cenavano senza di lui, e lui preferiva evitarli. Non gli andava di affrontarli, di vedere quegli sguardi delusi che lo facevano sentire la persona peggiore del mondo. Perciò preferiva tornare più tardi per non andare a letto più demoralizzato di quanto già non fosse.
Era depresso? Parecchio. Solo che né lui né i suoi familiari ne erano realmente coscienti. Stava calando la sera su quella domenica di settembre e il venticello era passato dall’essere una piacevole frescura a una di quelle ariette pungenti che ti entrano nelle ossa e non piacciono a nessuno. Mario era più triste del solito. Perché? Semplice. Era domenica, l’ultima domenica prima che riprendessero le lezioni a Las Encinas, prima che l’avvio del nuovo anno scolastico desse il «Pronti, via!» a tutti con il suo colpo a salve sparato in aria, e non riusciva a smettere di pensare alla sensazione che gli aveva sempre provocato la domenica che precedeva l’inizio di un nuovo anno… avrebbe pagato per tornare a provare quella sensazione. Ma adesso era tutto diverso. Lui, ovviamente, non avrebbe cominciato nessun corso e, altrettanto ovviamente, l’amarezza avrebbe sempre offuscato ciascuna delle sue sensazioni.
Le chiappe gelate stavano cominciando a dargli più che fastidio. L’umidità era passata attraverso i pantaloni della tuta di felpa, e alla fine Mario si rialzò in piedi. L’oscurità aveva avvolto tutto e, anche se conosceva perfettamente la strada, non voleva finire in una pozzanghera o nel pantano, così accese la torcia del cellulare, che però lo abbandonò quasi subito. Ascoltare musica a tutto volume e usare sempre il 4G gli avevano scaricato la batteria. Rimase al buio. Attorno a sé vedeva tutto nero, e non era solo una metafora… ormai era notte fonda.
Crac! Il rumore di un ramo che si rompeva sotto il peso di un passo estraneo fece voltare il ragazzo di scatto. Nel fitto del bosco non riusciva a vedere intorno a sé. Tolse gli auricolari – non aveva senso tenerli se non stava ascoltando nulla – e fece per rimetterli in tasca, quando un altro rumore lo fece sussultare per la seconda volta e gliene fece sfuggire uno di mano. «E che cazzo!» esclamò tra sé e sé.
Ho pensato che fosse un maledetto animale venuto a rompere i coglioni, ma poi mi sono ricordato che in quella zona non c’erano grossi animali e che un topo di campagna non poteva certo spezzare un ramo, e allora mi si è gelato il sangue nelle vene. Non sono mai stato un fifone, ho sempre dimostrato di avere le palle, ma quando ho visto qualcosa che si muoveva nell’oscurità mi sono cagato sotto. Ricordo ben poco. È tutto confuso. C’era una figura che stava venendo verso di me.
Una figura si avvicinò a Mario. Lui non se ne accorse, ma la persona in questione indossava l’uniforme di Las Encinas. La figura era completamente avvolta dall’oscurità, ma i pochi raggi di luna crescente si riflettevano sulla «E» ricamata all’interno dello stemma. La vide in volto? No, la faccia era nascosta sotto un passamontagna. Mario non disse niente, non si mise a gridare né a urlare: «Chi va là?». Era una situazione talmente strana che fece solo ciò che piedi e cuore gli ordinarono: darsela a gambe. Correre, sì, ma non era mica facile. Anzi, a volte è complicato, soprattutto quando si deve correre sul terreno umido che costeggia uno stagno. Il fango, i rami e le pozzanghere rendono tutto più difficile, specie quando non si ha una torcia, e Mario non tardò a cadere lungo disteso e a inzaccherarsi la tuta griffata.
È stato orribile. In vita mia ho fatto un sacco di incubi in cui mi succede una cosa del genere, sogni in cui vengo inseguito da qualcuno, una persona che vuole farmi del male, e io sono più lento del normale. Quando sono arrivato vicino allo stagno, non mi sono accorto che il terreno si era trasformato in un pantano. Ho provato a rialzarmi, ma, prima che potessi darmi la spinta con le mani, qualcuno mi ha dato un forte colpo sulla schiena. Non ho visto chi è stato… ho solamente sentito l’impatto e sono crollato giù un’altra volta. L’aggressore si è seduto sulla mia schiena e io non gliel’ho potuto impedire. Ho cercato di sgusciare via, e a quel punto sì che mi sono messo a urlare, a chiedere aiuto, ma mi si è riempita la bocca di terra, di fango, e potevo fare ben poco per liberarmi. Poi ho notato che stava armeggiando con qualcosa e alla fine quello strano odore mi ha fatto perdere i sensi…
Quando ho ripreso conoscenza, ormai era troppo tardi per fare qualunque cosa. Non mi era rimasto neanche un briciolo di forza, né una piccola motivazione o una speranza che mi spingesse a combattere. Faceva freddo e mi sono reso conto di essere appesantito da uno strato di fango. Mi stava trascinando. Non per le braccia o per i piedi, no, con una corda che mi aveva legato attorno al collo. Non mi potevo muovere e il mio cervello si stava risvegliando, ma il mio corpo non riceveva gli ordini che gli inviava. So di aver pianto e ricordo di essermi lamentato, ma a quel punto avevo già gettato la spugna. Sentivo i sassi sul sentiero che mi graffiavano la schiena. Ho girato la testa per provare a vedere quel figlio di puttana che mi trascinava e ho intravisto una sagoma scura, forse indossava la giacca della scuola, non lo so… non so niente. Ho chiuso gli occhi e mi sono arreso. Ho provato a pensare a qualcos’altro, ho immaginato che i miei piedi diventassero due incudini, due ancore che impedissero a quella persona, chiunque essa fosse, di portarmi alla destinazione che aveva in mente. Si è fermata. Mi sono fermato anch’io. Per un momento ho pensato che la tortura fosse finita e ho provato un gran sollievo, ma no… l’incubo era appena cominciato. Volevo rimettermi a urlare, ma la bocca non rispondeva e non avevo voce, volevo chiedere perdono nel caso avessi fatto qualcosa di male, volevo supplicarla e dirle che ero molto giovane e che avevo ancora tutta la vita davanti, ma non riuscivo a parlare. Non vedevo nulla, ma sentivo tutto. Le ho sentito lanciare l’altra estremità della fune che avevo attorno al collo in cima al ramo di un albero. Poi ha iniziato a tirare con decisione. Non doveva essere una persona molto forte. Tirava, ansimava, tirava di nuovo, e ci è mancato poco che mi sollevasse di peso, ma sono caduto e ho sbattuto sul terreno. Cadendo non ho provato nulla; il fatto di non avere il controllo sul mio corpo mi dava anche la strana capacità di non provare dolore. Sentivo solo una specie di intorpidimento… Ci ha riprovato, stavolta mettendoci più forza. Ha tirato la fune e mi ha sollevato da terra. Ho pensato a mia madre. Ha tirato la fune e mi ha appeso al ramo, e io ho pensato a mio padre. È riuscita a legare l’estremità della corda da qualche parte e ho capito che quella era la fine. Sì. Mi ha lasciato lì appeso. La fune mi si è subito stretta attorno al collo, strizzandolo come una spugna. Ho pensato a mia nonna. Ho sentito un crac, come se dentro di me si fosse spezzato qualcosa, forse il collo, forse la vita… e così, una domenica di settembre, con il corpo coperto di fango e senza aver visto chi mi aveva fatto una cosa simile… sono morto.
Il corpo senza vita di Mario dondolava lentamente, molto lentamente, girando in senso contrario rispetto alle lancette di un orologio. Le punte delle sue scarpe erano staccate dal terreno, ma molto poco, giusto qualche millimetro, e questo creava un effetto ottico per il quale sembrava che i piedi volessero toccare il suolo, ma per l’appunto era solo un’illusione. Mario non poteva più provare nulla né desiderare di tornare con i piedi per terra. La vita lo aveva già abbandonato. La ciclista che lo trovò alle sei della mattina dopo fornì una descrizione orripilante del ragazzo. Mario era abituato al fatto che le coetanee lo descrivessero come un Adone dal mento pronunciato e lo sguardo ammaliante, ma quella ragazza usò soltanto aggettivi sordidi e raccapriccianti per descrivere il cadavere dell’adolescente. Bocca aperta, occhi strabuzzati e fuori dalle orbite, faccia gonfia e paonazza…
Non che la polizia fosse pigra o poco efficiente, ma di sicuro tutto sembrava indicare un suicidio. Mario era in attesa di giudizio per un’accusa di maltrattamento che gli aveva rovinato la reputazione e la vita sociale. Anche se non volevano crederci, i suoi genitori appoggiarono l’ipotesi del suicidio dicendo che avevano temuto che il figlio potesse fare qualche pazzia, perché negli ultimi tempi non era più lo stesso. Girovagava senza meta e si trascinava dalla palestra a casa, da casa alla palestra, non usciva più, non parlava con nessuno. L’omicidio di Marina era stato un colpo durissimo per la comunità e non potevano permettersi di continuare a buttare giù altra merda, così la teoria del suicidio accontentava un po’ tutti e faceva sì che la morte di Mario passasse come l’ennesimo gesto estremo di un adolescente. Sua madre aveva le idee chiare:
Il mio bambino non stava bene. Sapevo che sarebbe potuto succedere in qualunque momento. Ho provato a proteggerlo, davvero, ma era come cercare di proteggere un muro. Non si può. Uno non può passare la vita a fare la guardia a un muro… Mio figlio era già morto. Era vivo, eppure era come se non lo fosse… si era spento, faceva una pena. Ho provato a tirarlo su di morale e pensavo che fosse solo una fase, ma… Mi dispiace, non mi va più di parlare. Non voglio aggiungere altro…
Era affrettato pensare che la notizia del suicidio di Mario sarebbe salita alla ribalta della scena di Las Encinas come il grande evento tragico dell’anno, perché no, gli studenti – eccetto Janine e Wendy, la ex della vittima – non ricordavano più di tanto la storia degli abusi e, visto che aveva lasciato la scuola prima della fine dell’anno, Mario non faceva più parte delle alte sfere di Las Encinas, non era più nessuno. Perciò sì, qualcuno venne a sapere che era morto e il discorso prese piede nelle conversazioni dei suoi tre o quattro amici di facciata, ma lo sgomento per il dramma si dissolse con la stessa rapidità con cui sparisce la schiuma da una birra lasciata su una terrazza al sole. In un attimo.
Janine, quel lunedì, si alzò piena di entusiasmo. Era stanca di autocommiserarsi e di essere una vittima che passava le ore ad annoiarsi nella sua prigione sotterranea. Si spazzolò i capelli con foga e provò tre o quattro acconciature. Scartò la coda alta, le due trecce con gli elastici con i simpatici pupazzetti di Adventure Time e quella che chiamava pettinatura da elfo, che poi era una stupidaggine: due treccine finte che partivano dall’altezza delle tempie e venivano bloccate dietro la nuca con un fermaglio a forma di foglia di vite. Alla fine, dato che non si piaceva in nessun modo, decise di sciogliere i capelli e mettere un cerchietto, una cosa molto semplice, perché i cerchietti stile coroncina e quelli con le perline erano riservati a Lu. Non che fosse scritto da nessuna parte, ma lo si dava per scontato e Janine voleva evitare di attirarsi qualche occhiataccia. E poi doveva ammettere che la testa della messicana sembrava fatta apposta per quegli accessori e non ce n’era uno che le stesse male.
Con i capelli sciolti e l’uniforme immacolata, Janine varcò la porta che apriva su quel grande corridoio grigio dove il tempo sembrava fermarsi. Era motivata e la riconquista del tanto desiderato anonimato la fece quasi sorridere.
Non pensavo che avrei mai sognato di tornare a essere una sfigata, di quelle che si siedono in fondo alla classe, ma è così… essere popolari è meraviglioso, essere invisibili però dà certi vantaggi per quanto riguarda la vita sociale.
Tutto andava bene, le cose stavano tornando alla normalità e il potere dell’invisibilità di Janine sembrava essersi riattivato.
A un certo punto, proprio quando sto per entrare in classe, nel momento in cui sento di essere di nuovo una qualunque, la solita vecchia sfigata, in quel preciso istante, qualcuno – e dico qualcuno perché non ho idea di chi sia stato – mi dice che Mario è morto, che si è tolto di mezzo. Sì, credo che abbia usato questa espressione: «Si è tolto di mezzo». Di mezzo in che senso, penso io. Di mezzo in generale, dalla vita. Crac. Sento che mi si spezza il cuore, ma si spezzano anche le ossa. Sento di non potermi reggere in piedi, credo proprio di non potercela fare, così lascio la conversazione a metà e pianto in asso chiunque mi abbia rivolto la parola. Ho bisogno di fuggire, correre, respirare, solo che non riesco più a muovere un passo e così mi siedo sulle scale mentre una calca di studenti, di matricole, mi passa accanto e rischia di travolgermi come una valanga. Mario è morto. Sì, il ragazzo che si è preso la mia verginità sopra le lenzuola con gli animaletti in tenuta sportiva, il primo con cui ho fatto… tutto, ecco, è morto. Non respirerà più, non potrà più sorridere, aprire gli occhi e guardare gli altri con arroganza, sapendo di essere l’anima della festa…
Il respiro di Janine si fece più pesante, come quella prima giornata di lezioni. Si rialzò a fatica e, appoggiandosi alla parete, si incamminò verso il bagno. Gli altri alunni entrarono nelle loro aule e lei rimase da sola. Il silenzio inghiottì tutto, anche se le voci risuonavano come grida nella sua testa. Voci che venivano da ogni conversazione, reale o immaginaria, che aveva avuto con Mario. Era come se qualcuno avesse fatto partire un disco con tutte quelle registrazioni, generando uno stridore insopportabile, uno stridore di voci e ricordi, veri e inventati. Le venne da piangere e non si lasciò andare, rimase attaccata alla maniglia della porta del bagno, come se sapesse che entrando si sarebbe spogliata della componente sociale e che a quel punto le poche lacrimucce versate fino a quel momento avrebbero lasciato il posto a uno tsunami di emozioni incontrollate. E così fu. Se avessi visto dal buco della serratura la crisi di pianto e urla di Janine, se l’avessi vista strillare, battere i piedi con la faccia rigata di lacrime, asciugarsi la bocca per vedere se riusciva a sputare un po’ del suo dolore, piangere e piangere ancora, tirarsi letteralmente i capelli e dare calci alle pareti e agli armadietti come se fossero loro i veri colpevoli, se l’avessi vista, avresti pensato che non ci fosse persona al mondo più distrutta di lei. Ed e...