Il frutto della passione
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Il frutto della passione

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il frutto della passione

Informazioni su questo libro

"Ero giovane, fresca e vitale. Dalla mia parte avevo il tempo, ma non gli strumenti. Eppure il tempo scorre, imperterrito e indifferente; la vita continua nell'unica direzione possibile, avanti. È la sua crudeltà e anche il suo miracolo." Eva è sempre stata abituata ad agire di slancio, a vivere in velocità, ad accogliere le novità a braccia aperte, a fare affidamento sul proprio istinto: è così che ha trovato l'uomo della sua vita, che insieme hanno deciso di trasferirsi in Brasile e poi di mettere al mondo un figlio.
Ma le famiglie non nascono tutte allo stesso modo, Eva adesso lo sa. Sa quanto può essere difficile fare i conti con un corpo che non ne vuole sapere di far nascere spontaneamente una vita, e sa che per realizzare i sogni servono una tenacia incrollabile e un grandissimo gioco di squadra. E soprattutto serve l'amore, indispensabile quando sul tuo cammino incontri un ostacolo dietro l'altro, anche il cancro.
Il frutto della passione è un inno alla rinascita, alla gioia, alla vita, scritto con la consapevolezza che, se anche non si ha alcuna scelta sul proprio destino, certamente si può scegliere come affrontarlo.

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1

Anche per chi ha passato tutta la vita in mare c’è un’età in cui si sbarca.
Italo Calvino, Il barone rampante

L’età dell’innocenza

Sono venuta al mondo il 2 aprile del 1981 nell’ospedale di Prato, all’epoca in provincia di Firenze. I miei genitori si erano separati il 9 febbraio del 1978, tre anni prima del mio arrivo.
Secondo i racconti di mia madre, Savina, quando sono nata faceva un gran caldo e mio padre, Gino, venne a conoscermi con un giorno di ritardo; aveva il collo della camicia macchiato di rossetto. È sempre stato così: incapace di nascondere la verità senza interessarsi più di tanto che le persone intorno a lui soffrissero.
Era evidente che gli incontri tra di loro fossero continuati negli anni, altrimenti non mi avrebbero concepita, ma era evidente anche il suo dividersi tra due donne. Mia madre, che ha sempre ignorato le sue richieste più inopportune, e l’altra che invece le ha sempre soddisfatte.
Ci sono voluti un paio di mesi dal lieto evento, prima che mio padre decidesse di tornare a casa in maniera stabile. Si presentò a inizio giugno alla porta del nostro piccolo appartamento, in un quartiere poco rinomato della città. Un’abitazione che lui aveva scelto per noi e che mia madre non aveva mai imparato ad amare. Sull’uscio le aveva raccontato il perché del suo ritorno: «Savina, ho fatto un sogno terribile. Ero morto e nostra figlia cresceva senza il suo babbo. Posso entrare?».
Quel giorno, esattamente come avrebbe fatto spesso negli anni, la mia mamma aprì la porta per l’ennesima volta, insieme al suo cuore, per fare entrare l’uomo che fin dal primo incontro aveva amato. Quello fu uno dei numerosi ritorni del mio padre prodigo, che si era arrogato il diritto di scegliere il mio nome, attribuendogli un significato alquanto bizzarro: Eva, la prima e l’ultima.
Era stato difficile per lui accettare che mia madre non avesse nemmeno preso in considerazione la sua richiesta di abortire una figlia indesiderata, portando avanti la gravidanza e dandomi alla luce. Così come non è stato immediato il suo diventare genitore, che invece ha richiesto tempo e pazienza da parte di tutte le sue donne. Io, mia madre e l’altra; quella del rossetto sulla camicia.
Dei miei primi otto anni di vita ho ricordi sfumati di un uomo che andava e veniva da casa, a suo piacimento ma, quando c’era, era la persona più affabile del mondo. Come spesso accade alle figlie femmine, lo considero tutt’oggi il mio primo grande amore. Quando non era presente, l’unico motivo plausibile per me era che fosse a lavorare. Quando d’estate eravamo solo io e mia madre, era indubbio che fosse all’estero.
«Poverino! Noi al mare a divertirci e babbo Gino sempre a lavoro.» Le mie parole di bambina erano rivolte a una madre che annuiva, senza permettersi mai di raccontare una realtà diversa e ingoiando ogni volta un boccone amaro.
Nel novembre del 1988 una seconda gravidanza, voluta e cercata da lei e ancora una volta non da mio padre, scombussolò nuovamente le nostre vite. A seguire un’altra richiesta di interromperla, nuovamente ignorata, e una valigia preparata rapidamente, con le poche cose che il mio babbo itinerante aveva a casa nostra. Era il 6 gennaio del 1989, il giorno dell’Epifania, quando, indifferente alle mie lacrime e alla mia richiesta di restare, se ne andò definitivamente.
«È finita! Me ne vado.»
Le ultime parole pronunciate prima di sbattersi la porta alle spalle, una porta alla quale lui non avrebbe più bussato.
Ho il ricordo di un’unica volta, che non saprei collocare in un preciso spazio temporale, in cui i miei genitori hanno litigato in maniera violenta. Per il resto, nella memoria ho una madre che non mi ha mai messo contro nessuno e un padre presente ma assente già da anni. Un viavai che per me era ormai la normalità, un’assenza che ormai era diventata abitudine.
Il 20 luglio del 1989 è nata mia sorella Clarissa Caterina, con un mese d’anticipo per colpa di una gestosi che aveva obbligato mia madre ferma a letto negli ultimi tempi della gravidanza. Quel giorno mio padre non si presentò all’ospedale e nemmeno il giorno dopo o quelli a venire. Era chiaro che non voleva conoscere, e nemmeno soltanto vedere, sua figlia, sebbene continuasse a incontrare me.
Un episodio mi è rimasto addosso come una macchia nera, indelebile. Eravamo dal dentista.
«Accomodati pure, Gino!»
«Grazie» disse lui, sistemandosi sulla poltrona odontoiatrica.
«E questa bella bambina, è tua figlia?»
«Sì!» Un’affermazione decisa e piena di orgoglio, la sua.
«Ne hai altri?» aveva continuato il medico.
«No. Solo una» aveva risposto lui, con decisione e spaventosa tranquillità. Quella figlia ero io, non c’era spazio per Clarissa, mia sorella e sangue del nostro stesso sangue. È stato forse allora che ho capito per la prima volta un concetto importante: l’amore è un legame che alberga nel cuore di chi è disposto a contenerlo. A casa di mia madre ero una sorella maggiore, in quella di mio padre ero rimasta figlia unica e, forse per la giovane età, forse per stupidità o magari per eccesso di amore nei suoi confronti, non ho mai trovato la forza di contraddirlo.
Otto anni è un’età in cui è facile lasciarsi fagocitare da realtà distorte, come quando babbo veniva a prendermi a casa e io non volevo che incontrasse la mamma. Per lungo tempo ho avuto il terrore all’idea di vederli faccia a faccia. I rapporti tra loro erano tesi, di quelli che non si risolvono se non attraverso l’intervento di avvocati e giudici. Un anno dopo la nascita di mia sorella arrivò a casa una lettera, in cui veniva richiesto dal tribunale un esame del DNA che comprovasse l’effettiva paternità. La mamma fu costretta a presentarsi dal medico legale con Clarissa che muoveva appena i primi passi e che non era riuscita a guadagnarsi un solo sguardo da parte di mio padre.
Eppure la risposta dell’esame parlava chiaro: c’era il 98,4 percento di possibilità che quella bimba fosse sangue del suo sangue. Un numero enorme, un numero che urlava giustizia per mia sorella. Lei che ha conosciuto nostro padre solo all’età di sette anni e che a dispetto di tutto, proprio come me, ha imparato col tempo ad amarlo e a perdonare un comportamento immotivato.
Non so come ho fatto per tutti quegli anni a sopportare una situazione al limite del ridicolo, come ho fatto a trascorrere tutti i mesi d’agosto in compagnia di mio padre e di “un’amica”. Una donna che c’è sempre stata, perfida nei confronti di mia madre e mia sorella ma stranamente non nei miei, la bambina che mio padre difendeva a spada tratta. All’inizio potevo parlare tranquillamente di Clarissa, e poi il silenzio assoluto. Un muro di omertà. L’altra aveva scoperto che mio padre aveva mentito, dicendo che non fosse figlia sua. Convincendola. E quel test di paternità, oltretutto richiesto da lui, lo aveva messo con le spalle al muro.
Un giorno, ormai ragazzina, andai a casa sua e alla finestra del bagno che affacciava sul parcheggio c’era Clarissa che mi aspettava, allegra e sorridente, e che mi salutava con la sua mano di bambina. È stato uno dei momenti più assurdi della mia vita, ero completamente impreparata a un avvenimento che ai miei occhi aveva dell’incredibile. Da quel giorno mia sorella ha iniziato a frequentarlo più di me, che ero entrata ormai nel labirinto dell’adolescenza.
Come dicevo, per qualche anno agosto è stato il nostro mese: mio padre e le sue due figlie, qualche volta con la presenza anche dell’altra. Una donna che non merita di essere citata, considerando il comportamento spregevole che ci ha riservato qualche anno più tardi.
Quello però non era ancora il tempo delle grandi preoccupazioni. C’era spazio soltanto per la serenità, nella canicola estiva del mese trascorso in barca; babbo ne cambiava quasi una ogni anno. È stato lui a insegnarmi il profondo amore per quello spettacolo che è il mare, che da allora è legato inevitabilmente al suo ricordo.

Dimentica il tempo

Compiuti i diciotto anni e presa la patente di guida, mio padre mi regalò una Citroën 2CV che aveva prima rimesso in sesto e poi dipinto di rosso e nero. Quella di una macchina d’epoca era una scelta inusuale per una ragazza appena maggiorenne, non fosse altro che per il tipo di manutenzione richiesta. Ma era la decappottabile più economica sul mercato e mi permetteva di sfrecciare con i capelli al vento nelle calde giornate d’estate e di guardare il cielo stellato la notte. Era facile riconoscermi per strada e chissà se mio padre puntualmente arrivava ad accogliermi all’ingresso perché intuiva il mio arrivo dal rumore dell’auto, oppure se si trovava già lì perché era impaziente di vedermi.
In quel periodo, il luogo dei nostri incontri era un grande capannone, che negli anni aveva visto avvicendarsi differenti attività. Dentro la sua pancia avevamo costruito un’innumerevole quantità di ricordi. Ogni volta lo trovavo ad aspettarmi in piedi di fronte al portone d’acciaio scorrevole, grande almeno quanto il suo sorriso. Teneva le braccia larghe, come se il suo abbraccio non potesse attendere nemmeno il tempo di parcheggiare; sorrideva mostrando i denti, come accade quando si è estremamente felici, e malgrado avesse un lato oscuro – che non è mai bastato a farmelo odiare per i tanti errori che ha commesso – mio padre sapeva ridere con gli occhi.
All’interno del capannone, l’ambiente era enorme e spoglio. Le nostre voci rimbombavano potenti, rapite dalla grandezza di quelle stanze, e un’eco puntualmente ci restituiva ogni parola. Ben presto il capannone divenne simile a un grande laboratorio, un’officina in cui lui poteva creare qualunque cosa la sua testa gli chiedesse di tirare fuori: un quadro, una scultura o, non di rado, un’invenzione. Geniale ed eclettico, era capace di riempire di calore e colore ogni spazio, più di quanto non abbia saputo fare con le persone e gli affetti. Erano i motori la sua passione più grande, ideali per provare emozioni forti e dominare il suo fuoco interiore. Ha sempre preferito le cose inanimate, distruggendo tutto il resto, famiglia d’origine compresa.
Sebbene con grande ritardo, è riuscito a essere un buon padre. Non ha saputo amarci da subito, è vero, ma ha imparato a farlo negli anni, e così mi ha insegnato – senza saperlo – che le persone cambiano e che non è mai troppo tardi per cercare di migliorare o per tentare di aggiustare le cose, anche qualora siano stati commessi errori colossali come i suoi. Sempre indirettamente, ho imparato che il perdono fa bene soprattutto all’anima di chi lo concede e che il rancore non trova alloggio nel cuore di chi è innamorato, come io ero di lui.
È stato quando ho compiuto otto anni e lui ha deciso di includermi di frequente nella sua vita – della quale, nonostante gli sbagli, sembrava non avere mai abbastanza – che è iniziata la mia prima grande avventura a bordo di auto potenti e categoricamente senza tettuccio in cui lasciavo volare i miei pensieri giovani intrecciati ai lunghi capelli castani. Li ho portati soprattutto così nell’arco della vita: lisci e sciolti lungo la schiena, perché ogni volta che ho provato a tagliarli mi è sembrato di perdere forza – nel mio caso, interiore – come nel mito di Sansone.
Altre volte il vento lo tagliavamo cavalcando moto sportive, avvinghiati l’una all’altro, come una lama su due ruote. Mio padre era spericolato ma in lui c’era tutta la sicurezza di cui una figlia necessita. Non ha mai smesso di ripetere che con lui vicino non mi sarebbe mai successo niente di brutto e ha mantenuto la parola, per tutto il tempo trascorso insieme. Mi ha insegnato a guidare la macchina all’età di nove anni, il motorino a dieci, la barca molto prima. D’estate era la nostra casa e proprio da lui ho appreso le basi della navigazione.
«Quando sarai adulta e ti sposerai, io diventerò il vostro marinaio» diceva spesso, dando per scontato che avrei incontrato un uomo con molti soldi, che avremmo posseduto una barca e che il mio ipotetico marito avrebbe amato il mare quanto lui.
Aveva idee molto precise sulle vite degli altri mio padre, mentre viveva la sua in modo piuttosto approssimativo. Sembrava animato da due elementi opposti, acqua e fuoco, che in lui convivevano perfettamente. Mi piaceva il nostro modo di occupare il tempo e avrei fatto qualunque cosa pur di compiacerlo. Definirei ribelle la parte della mia esistenza trascorsa con il mio babbo; a segnarmi non è stata la sua separazione dalla mamma bensì il suo personale modo di affrontare i giorni come fossero una sfida, come se la vita lui dovesse vincerla ogni volta. Era il lato assurdo della mia quotidianità. Era l’alternativa, la chance. Era il pericolo senza rischio. Era la follia con la testa sulle spalle. Era l’uomo – sbagliato – della mia vita. Era il dannato che dice cose giuste. Era il problema che risolveva i miei guai. Era l’unico modo in cui un uomo dovrebbe amare una donna. Era il mio improbabile destino. Quello che credevo sarebbe stato l’unico amore della mia esistenza.
Diverso da chiunque abbia mai conosciuto, libero come un marinaio, dall’originalità incompresa tipica dei geni e fuori di testa come lo sono gli artisti. O i folli. Colto e di bell’aspetto, anche con i suoi chili di troppo. Irreale a tratti, quanto il suo modo di vivere o quanto l’idea che forse mi sono costruita del suo essere. Un uomo privo di vincoli e profondamente infelice, nonostante non lo ricordi mai triste. Credo riservasse la malinconia per i momenti in cui ero assente, momenti che aumentavano di pari passo con i miei anni. La sua era una solitudine intenzionale, ma non per questo meno amara. Ci sono state occasioni in cui ho provato pena per lui e mi spaventavo nel riconoscere in me la stessa anima irrequieta. Sono cresciuta sentendomi ripetere che ero uguale a lui, a come era prima che mi lasciasse. La sua assenza è stata il mio violento ingresso nel mondo reale, quello abitato unicamente dagli adulti, dove i sogni diventano pesanti e smettono di volare. Dove la magia svanisce. Parlo delle separazioni involontarie, quelle dove non esiste possibilità di ritorno. Parlo di quella volta in cui sono diventata grande, nel giro di una notte durata un istante e che mi porterò dietro all’infinito.
Era il 2004, l’ultimo dell’anno, e mi trovavo all’estero, intenta a brindare all’ennesimo inizio. Festeggiavo il mio ventitreesimo capodanno al ritmo frenetico di musiche orientali, bevendo champagne in eleganti calici e abbracciando nuovi amici. Ero giovane e spensierata, è impossibile non sentirsi belle quando si possiedono queste caratteristiche. D’altronde la bellezza più attraente è quella inconsapevole. Possedevo la forza di chi stringe il mondo in una mano, di chi pensa di poter fare qualunque cosa, di chi crede di sapere tutto e invece non sa ancora che la vita coglie sempre impreparati e che non esiste avvertimento o difesa per gli orrori.
E accadde proprio nel pieno della festa che, mentre il mio cuore batteva in preda all’eccitazione, quello di mio padre si fermava una volta per tutte.
La mia vacanza a Sharm el-Sheikh si interruppe con lo squillo di un cellulare, il mio. Una chiamata arrivata da lontano e la voce di mia madre, piena di parole che alle mie orecchie giungevano sconnesse. La composizione spaventosa delle frasi nel realizzarne il senso.
«Eva. D...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il frutto della passione
  4. Prologo
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. Epilogo
  13. Ringraziamenti
  14. Inserto fotografico
  15. Copyright