E vissero felici e contenti.
Fin da piccole, ci hanno raccontato un sacco di favole, tutte con lo stesso finale: una principessa bellissima e indifesa viene salvata da un tizio belloccio in calzamaglia col cavallo bianco e questo le basta per innamorarsi e volerlo per tutta la vita.
Tutte caxxate, ragazze! Se c’è una cosa che ho capito, in quarant’anni di vita, è che il principe azzurro non esiste e forse nemmeno le principesse rosa. Per rendermene conto, ho baciato un sacco di ranocchi che ranocchi sono rimasti e poi, alla fine, mi sono salvata da sola.
Adesso che ho una figlia di cinque anni, sono felice di vederla crescere con cartoni animati e letture di tutt’altro tipo, in cui le protagoniste sono eroine che raggiungono la felicità grazie alla loro determinazione e al loro coraggio, e che non hanno bisogno di un figo biondo con gli occhi azzurri che le risvegli da un lungo sonno o le protegga da streghe e sorellastre cattive.
Come dice Shrek a Fiona: «Sai, ho sempre pensato che io avessi salvato te dalla fortezza del drago e invece no. Sei stata tu che hai salvato me».
Ecco, io negli anni sono diventata un po’ la mia versione di Fiona, finalmente libera di essere me stessa. E quando ci sono riuscita… tutti i ranocchi sono scomparsi ed è comparso A., il mio uomo che a volte è un principe, a volte un drago, a volte solo un rompiscatole in carne e ossa, ma io lo amo esattamente com’è.
Dopo anni vissuti raccontandomi menzogne e fingendo di essere quella che non ero, mi sono lasciata andare e soprattutto ho imparato ad amarmi.
Non è successo in un attimo, ovvio. Mi ci è voluto del tempo e un sacco di lavoro dentro di me, su di me. Però poi tutto è accaduto in un lampo o quasi.
Ma partiamo dal principio, dal fatidico: «C’era una volta».
Io e A. abbiamo lavorato nello stesso posto per tantissimi anni ma non siamo mai diventati amici. Colleghi sì, ma ognuno ha sempre fatto la sua vita, io spesso persa a inseguire storie impossibili e lui sempre fidanzato con gnocche da paura.
Eppure, a un tratto, A. inizia a invitarmi alle sue serate: lui fa il deejay, è molto bravo, famoso e seguito. Sono andata spesso a ballare con i colleghi, quindi accetto e non ci vedo nulla di strano.
Lui mi manda l’invito, io rispondo ok e mando il numero di amici da mettere nella lista degli ospiti e via, si balla!
Nel frattempo A. si sfidanza, ma lungi da me pensare che ci stesse provando con la sottoscritta, così cerco pure di presentargli tutte le mie amiche single che lo trovano carino. E loro: «Ma sei sicura che non ci stia provando con te?».
«Ma figurati… Non credo proprio!»
Io allora ero reduce da una serie di incontri sentimentali e sessuali con casi umani e ormai avevo perso le speranze di trovare un ragazzo normalmente capace di assumersi la responsabilità di una bella e sana relazione che comprendesse testa, cuore e organi genitali.
Sul frigorifero, mi ero scritta a mo’ di mantra un messaggio: «Non essere la donna che ha bisogno di un uomo, ma la donna di cui un uomo ha bisogno». Che, tradotto, significava prendermi chi e cosa volevo, senza lasciarci nemmeno un frammento di cuore.
Onestamente era un bel periodo per me, era il mio momento magico. Dopo anni trascorsi a soffrire per amore e per le relazioni, a non capire perché i maschi si comportassero così da schifo con me, a cercare di essere quella che gli altri si aspettavano che io fossi, avevo trovato il mio equilibrio e mi volevo un gran bene.
Così, quando dopo l’ennesima serata di A. in un locale milanese, lui mi manda un messaggio chiedendomi se poteva fermarsi da me a riposarsi prima di tornare a casa – dal momento che lui viveva fuori Milano e aveva bevuto un po’ troppo – io rispondo semplicemente con l’indirizzo di casa.
E cerco di mantenere il mio proposito anche con lui: usare e gettare.
Non appena A. entra in casa, finiamo orizzontali sul divano: sesso, sesso e sesso. Punto.
Quando ci svegliamo il giorno dopo, io vorrei soltanto rimanere sola e vivermi la domenica da single, facendomi gli affari miei, soprattutto dopo la serata sex and drinks… E A. lo capisce benissimo: si riveste, mi saluta e se ne torna a casa.
Ma nel pomeriggio mi scrive, dicendomi che si è dimenticato l’anello sul tavolo. Gli rispondo che glielo avrei portato l’indomani al lavoro, ma lui mi dice: «No, tienilo pure a casa. Passo io domani sera a riprendermelo, se posso?!».
E io penso che, se mangi per la prima volta in un ristorante e decidi di tornarci la sera successiva, ti sei trovato non bene, di più. O no?
Ebbravo il mio collega A.!
La sera successiva torna a riprendersi l’anello, mi cucina un piatto di pasta al pomodoro semplice ma buonissimo, e di nuovo facciamo sesso, sesso e sesso.
Da quella sera iniziamo a vederci abbastanza regolarmente, sempre in posizione orizzontale.
A quel punto un po’ mi spavento, perché non è più una trombamicizia, ma nemmeno amore… E non riesco a capire dove siamo e dove ci potremmo ritrovare.
Ero finalmente riuscita a raggiungere una mia stabilità emotiva e l’ultima cosa che volevo era stare male di nuovo per un uomo, tant’è che quando gli amici mi chiedevano se mi stessi fidanzando, io continuavo a ripetere di no, che io e A. facevamo solo sesso e nient’altro.
E cercavo di ripeterlo a più non posso, perché dovevo convincermene assolutamente.
Mi facevo desiderare, a volte lo rimbalzavo lasciandolo ad aspettarmi invano. A volte facevamo le quattro del mattino, ma io senza pietà lo cacciavo fuori casa perché volevo dormire da sola.
Ancora oggi, dopo quasi otto anni che stiamo insieme, lui mi ricorda di quando, pur di non incontrarlo al lavoro, mi nascondevo dietro il carrello del tipo che faceva le pulizie, mettendomi il mocio in testa per mimetizzarmi meglio.
In effetti, facevo di tutto per evitare di creare una continuità che temevo, che non volevo diventasse una cosa fissa. Ero single praticamente da otto anni e, a parte alcuni flirt estemporanei, vivevo da sola in un monolocale col mio cane e non volevo più fare spazio per l’amore.
Ma più andavamo avanti e più mi rendevo conto che A. non era sfuggente, non era bugiardo, non era già impegnato, non era un eterno Peter Pan e sapeva benissimo cosa voleva dalla vita. Era, è, una persona risolta, felice e soddisfatta e così mi sono rilassata. E mi sono resa conto che a me le sue attenzioni piacevano, che il fatto di rivederci una sera e poi quella dopo e quella dopo ancora non era poi così male, e che forse potevo buttare via tutte le stronzate che mi ero raccontata fino a quel momento. Avevo passato anni a mentirmi, urlando al mondo che non volevo l’amore ma solo il sesso, soffrendo ogni volta.
Ma non era vero. E se non racconti tu la verità a te stessa, come puoi pretenderla dagli altri?
Insomma, ho iniziato a capire che tutti gli amori sbagliati che avevo vissuto fino ad allora me li ero cercati, che andava tutto male perché dicevo di volere una cosa quando invece ne volevo un’altra, ma siccome mi era troppo difficile ammetterlo, preferivo buttarmi in situazioni che già sapevo non mi avrebbero portata da nessuna parte.
AVEVO PASSATO ANNI A MENTIRMI, URLANDO AL MONDO CHE NON VOLEVO L’AMORE MA SOLO IL SESSO, SOFFRENDO OGNI VOLTA. MA NON ERA VERO. E SE NON RACCONTI TU LA VERITÀ A TE STESSA, COME PUOI PRETENDERLA DAGLI ALTRI?
Insomma mi auto-sabotavo. Fino a che non mi sono tolta la maschera e sono rimasta con la faccia che ho: la mia. Senza più paura di essere me stessa.
Perché il ragazzo giusto non esiste, quella giusta puoi essere solo e soltanto tu. E finalmente io lo ero diventata.
Dopo quasi un decennio a lavorare insieme nello stesso posto, anni in cui a malapena parlavo ad A., mi è scattato qualcosa dentro: “Ma vuoi vedere che la risposta a tutte le mie domande d’amore era già qui, quattro piani sotto di me?”.
Sì. Proprio così. La vita, come dice la mia amica Fede, è sempre più grande dei nostri piani. Ed è davvero imprevedibile.
Io e A. abbiamo iniziato a vederci poco prima dell’estate, quando entrambi avevamo già pianificato le nostre vacanze: lui avrebbe fatto il cammino di Santiago in bicicletta con un amico, io due settimane in barca con un gruppo di amici tra Ibiza e Formentera.
Sentivo che era arrivato il momento di mandare un chiaro segnale ad A. ma soprattutto a me stessa. Così, prima di partire per le mie vacanze, che lui temeva perché era ed è gelosissimo, pubblico online un collage di foto in cui io e lui ci baciamo e ridiamo, guardandoci con quello sguardo che hanno solo due che hanno appena fatto sesso.
Il mio telefono esplode di messaggi: «Ma è tutto vero?», «Oddio ti sei fidanzata?», «Siete fighissimi insieme!».
Così ufficializziamo il nostro rapporto. Ora stava solo a me capire fino a che punto ero disposta a rischiare, dopo tutte le storie andate aff…, e quanto potevo fidarmi ancora di un maschio, ma anche quanta voglia avevo di avere nel mio letto solo e soltanto lui.
Durante le vacanze io e A. ci sentiamo tutti i giorni, più volte al giorno, con telefonate, messaggi, foto e la voglia di rivederci presto, ma poi succede che mi slogo la caviglia ballando per ore a piedi scalzi con otto, leggasi otto, mojito nella pancia.
Glielo racconto in videochiamata e lui mi rassicura: sarebbe venuto a prendermi in aeroporto e saremmo andati insieme a recuperare il mio cane dai miei, in provincia di Bergamo.
Così videochiamo mia madre, a cui non presentavo un ragazzo da otto anni e, prendendola molto alla larga, le spiego che sarei arrivata con un collega, anzi no un amico, forse qualcosa di più di un amico… tanto, tanto tatuato, che, dopo nemmeno tre mesi che stavamo insieme, stava per conoscere i miei. Non è che stiamo correndo troppo?
No, perché tutto fila naturalmente, senza problemi e senza paranoie. E, da lì in avanti, io e A. scopriamo il bello di andare in discesa.
Lui mi porta a conoscere i suoi, inizia a stare più giorni di fila a dormire da me e poi, un bel giorno, mi accorgo che c’è il suo spazzolino in bagno e sorrido, perché non si può più tornare indietro.
Deglutisco, mi guardo allo specchio e mi dico: “Basta fare la bambina, caccia via la paura. Stai bene, sei felice, ti fa stare bene: avanti così!”.
Dopo sette mesi, cerchiamo un appartamento più grande per andare a vivere insieme.
E da lì viaggi, weekend, cene, vita a due: più stiamo insieme, più capiamo quanto sia bello.
La felicità è reale solo se condivisa e noi condividiamo un rapporto speciale, magico, che si fa più profondo ogni giorno.
Un anno dopo, mentre stavamo sul divano a guardare un film mangiando la solita vaschetta di gelato da un chilo in due, dico a bruciapelo: «Certo che sarebbe bello essere qui sul divano, io te, Uma e una piccola creatura, no?».
E ora eccoci qua: otto anni insieme, una bambina di cinque che è la nostra gioia quotidiana, e un cane di tredici. E chi l’avrebbe mai detto? Io no di sicuro. Soprattutto se ripenso a chi sono stata e agli uomini in cui mi sono imbattuta prima. Prima di amarmi e di amare A.