A volte accadono cose che ti scuotono fino a ribaltarti e toglierti ogni punto di riferimento. La tempesta mi aveva fatto questo effetto. Aveva spazzato via le mie certezze, ma non me ne aveva offerte di nuove. Era come se non mi fosse rimasto niente a cui aggrapparmi.
Avevo dato per scontato tutto, perché i boschi – pensavo – sono come il mare, mica possono scappare. Perché in Trentino si sta bene e il rischio più grande che puoi correre è ritrovarti imbottigliato in una folla di turisti a ferragosto o fare un brutto capitombolo sul ghiaccio mentre vai a scuola. Invece avevo visto con i miei occhi che tutto può precipitare dalla sera alla mattina e che niente è scontato. Niente è indistruttibile e nemmeno eterno.
Il vento aveva sfiorato i centonovantadue chilometri orari sul passo Manghen, proprio fra la Valsugana e la val di Fiemme. La mia valle era stata la più colpita, l’avevano detto i TG. 1,3 milioni di metri cubi di alberi in una notte sola. Cinque milioni in tutto, sulle Alpi: più o meno la quantità di legname che normalmente viene abbattuto in dieci anni. Ma per quanto facciano paura, i numeri non rendono l’idea. Certe cose devi vederle. C’era il nulla sopra Ziano e dalla parte di Passo Lavazé e in Valsorda e sul Manghen. Prima che scendesse la notte le montagne erano coperte di boschi fittissimi, al sorgere del sole si erano trasformate in mastodontiche patate marroncine e sporche di terra, con i bitorzoli di qualche tronco schiantato che spuntavano qua e là. Il lago di Carezza, famoso per le leggende e gli abeti muschiati che lo circondavano, era diventato un occhio azzurro nel deserto. Faceva male al cuore per noi che ci vivevamo, come quando abbandoni la tua terra per sempre, ma ancora peggio, perché in questo caso era la nostra terra che aveva abbandonato noi e non si poteva più tornare indietro.
Dopo la tempesta tornare a casa fu un’odissea. La Valsorda era inagibile, il sentiero da dov’eravamo saliti era sommerso da un dedalo di tronchi e pietrame. Ripiegammo salendo verso il Torre di Pisa e scendendo poi verso la strada di Pampeago. Era tutto franato anche là, ma almeno non c’erano alberi e un passo alla volta si riusciva ad andare avanti.
A casa i miei avevano passato una notte d’inferno. Dopo decine di telefonate inutili mi avevano data per dispersa. Quando ero tornata giù, con le orecchie basse, non c’era stato nessun rimprovero, solo abbracci e tanto sollievo.
Rimasi in Val di Fiemme per qualche giorno ancora. Non c’era corrente e dai lavandini usciva acqua gialla. Non avevamo più da bere. C’era tanto silenzio, si parlava sottovoce, si scendeva in strada ad aiutare e ci si stringeva a chi aveva più bisogno.
Quando riaprirono le strade tornai all’università. Le lezioni erano già ricominciate da un po’, in città nessuno sembrava essersi accorto di niente. La tempesta Vaia era stata solo un’immagine al TG, che presto la gente aveva scordato.
Lo studentato mi accolse con le sue porte giallognole, i corridoi bianchi, le fughe nere delle mattonelle. Mi sembrava una terra aliena. Anche qui regnava il silenzio, ma era un silenzio diverso. Se ascoltavi attentamente riuscivi a sentire un brusio ovattato, proveniente da qualche luogo indistinto, nascosto fra i muri spessi. Negli alloggi degli studenti niente è mai come sembra.
Svoltai l’ennesimo angolo e iniziai a contare le stanze: 510, 509, 508. Mi fermai, tendendo le orecchie. La valigia rossa sussultò dietro di me. Dall’altro lato c’era musica alta. Entrai senza bussare.
Una ragazza minuta, con le unghie fucsia e i capelli rossastri appena piastrati, era seduta sul letto, in mezzo a un oceano di fogli e libri sparsi. Aveva un pigiama con gli orsetti e una coperta a pois rossi e blu stesa sulle gambe. Mi rivolse un sorriso distratto.
Ricambiai con un cenno del capo. «Ciao Lucy.»
«Sei ancora viva?» chiese lei, gridando sopra la musica.
«Sembrerebbe.» Aprii la valigia e iniziai a lanciare i vestiti nell’armadio. Uno alla volta, con metodo.
Lei tornò a concentrarsi su un libro a caso. Avrei voluto urlarle qualcosa: possibile che non si rendesse conto? Almeno un gesto, un sorriso. Pensai a Elanor, che avrebbe capito subito, con uno sguardo.
«Grazie per l’interesse, comunque» borbottai dopo un po’.
Lei sollevò gli occhi: «Ah di niente. Al TG hanno parlato parecchio della Val di Fiemme, mi pare sia dalle tue parti, no?». Si mordicchiò un’unghia laccata.
Dopo due mesi di convivenza non sapeva ancora dove abitavo. Che razza di personaggio.
«Sì. Un vero disastro. Non so come faremo a riprenderci» abbozzai.
«Mi dispiace» fece lei, lisciandosi con una mano la coperta, mentre con l’altra si sistemava i capelli. «Sai invece il tipo che ho incontrato alla festa delle matricole? Quello che ci ha provato? L’altra sera alla fine ci siamo baciati.»
Divertente ma egocentrica. Lucy era fatta così, punto e basta.
«Ah sì?» Mi sforzai di mandare giù il magone e mi concentrai sui libri e i quaderni. Mi guardai intorno, alla ricerca di un posto dove infilarli in tutto quel caos. Li impilai sopra gli altri che già invadevano il comodino. Il risultato era una torre pericolante, che però al momento sembrava reggere.
«Poi lui avrebbe voluto anche altro, ma…» Lucy ridacchiò, con fare misterioso. «Comunque, secondo te è meglio questo o quello?»
Mi voltai stancamente e la mia compagna di stanza mi mostrò un vestito bianco col pizzo e due stracci di stoffa viola, che probabilmente attaccati insieme diventavano un corpetto.
«Devo essere sincera?»
«Sì, ma non troppo.»
«Né l’uno né l’altro.»
«Dai, perché sei sempre così acida? Perché non vieni anche tu stasera?»
“Perché io sono meno socievole di un orso impagliato” pensai. Mi tremarono le labbra e mi venne da piangere. Per fortuna ero girata verso l’armadio. Inspirai profondamente. Mi sforzai di sorridere e cercai con tutta me stessa di lasciarmi contagiare dalla sua civetteria spensierata. «Dove vai stasera?»
«Alla Portizza, sai quello in Piazza della Borsa? Per le matricole c’è da bere gratis fino a mezzanotte. E dopo… offrirà Mauro.»
Non vedeva l’ora di vantarsi delle sue ultime conquiste. «Chi è Mauro, il tipo che hai baciato?» chiesi per accontentarla.
«Ma noooo.» Si mise supina sul letto, abbracciando il cuscino. «È un altro che ho incontrato alla festa di un’amica di Giada. Pare un tipo in gamba. È di Monfalcone.»
Annuii, rinunciando a capire.
Stufa delle mie reazioni apatiche, Lucy afferrò i pezzi di stoffa viola e un paio di jeans e si diresse impettita verso la porta. «Vado a prepararmi» dichiarò.
Rimasi lì, con i miei pensieri. Invece di sentirmi sollevata, mi piombò addosso l’angoscia della solitudine e fu quasi peggio; almeno Lucy, con la sua testa per aria, mi metteva allegria.
Provai a chiudere gli occhi, ma vedevo i tronchi. Non quelli che volavano in aria la notte, ma quelli del giorno dopo. Una distesa infinita di alberi. Un bosco di cadaveri accasciati uno sull’altro. «Montagne senza più ombra né respiro» aveva detto qualcuno alla TV, forse il sindaco, o comunque una faccia che conoscevo. Io avevo le lacrime facili; Teo no, però. Eppure la mattina dopo la tempesta, fuori dal bivacco l’avevo visto piangere, per la prima volta da quando lo conoscevo.
Mi rigirai sul letto. Afferrai un libro, ma mi passò la voglia di leggerlo prima ancora di finire il titolo.
Ero arrivata da due minuti e già volevo tornare a casa.
Mi alzai per andare a sgranocchiare qualcosa. Uscii in corridoio. C’era un brusio tremendo che veniva dalla cucina. Stavo già per tornare sui miei passi quando udii una voce.
«Ehi, Alice, tutto bene?»
Mi voltai e incrociai un paio di occhi nerissimi. «Insomma.»
Karima, al primo anno di storia, era la prima persona che avevo conosciuto quando ero arrivata in convitto, ma poi l’avevo incontrata solo un paio di volte, di sfuggita. Si avvicinò con un sorriso. Aveva i ricci corti e una maglia bianca che risaltava sulla pelle scura. «Ho sentito di quello che è successo. Mi dispiace.» Lo disse senza aria di compatimento. «C’è stato un disastro simile anche dalle mie parti» continuò.
“Dalle mie parti.” Non mi ricordavo più se Karima fosse di origini siriane o marocchine. Me l’aveva detto una sera a cena, ma io stavo pensando ad altro. Mi sentii uno schifo: alla fin fine non ero mica tanto meglio di Lucy. La guardai imbarazzata, sperando che nominasse il suo Paese e mi togliesse dall’impiccio.
«Un paio di anni fa, proprio a Sfax. Cioè, è stato soprattutto sulle isole Kerkennah, ma è arrivato anche da noi, sulla costa.»
Non avevo idea di cosa e dove fosse Sfax.
«Cos’è successo da voi?» le chiesi.
«Una marea nera. Petrolio ovunque. E non ne ha parlato nessuno. Le responsabilità non le hanno mai chiarite del tutto e a noi è rimasto il mare avvelenato.»
«Triste sì, ma è una storia un po’ diversa, mi pare» borbottai.
Lei mi scrutò con estrema attenzione. «È sempre la stessa storia, invece.»
«Ossia?»
Karima alzò le spalle: «Disastri ecologici» rispose semplicemente.
Scossi il capo. «Cosa c’entra? Da me c’è stata una tempesta.»
Lei aggrottò le sopracciglia, piegando la testa leggermente di lato. E attaccò con una lezioncina in piena regola.
«Sul serio non lo sai ancora? Vaia è stato un ciclone tropicale di origine atlantica, che si è formato a causa della temperatura particolarmente alta del Mediterraneo, oltre due gradi sopra la media.» Karima allargò le braccia: «Più caldo è il mare, più è probabile che tempeste e alluvioni siano intense, chiaro no? Dietro ci son sempre l’inquinamento, i cambiamenti climatici e, stringi stringi, l’infinita stupidità umana».
L’ultima cosa di cui avevo bisogno era una predica. «Scusa, ma sono stanca. Vado a dormire.»
Un attimo dopo mi spogliai e mi ficcai a letto in mutande. Mi raggomitolai sotto il piumone, nascondendo la faccia nell’incavo del gomito.
«Cambiamenti climatici.» Mah. Karima doveva far parte di quel giro di ambientalisti fanatici, allarmisti e catastrofisti, che imputano ogni problema al riscaldamento globale: ti si rompe un’unghia? È colpa del riscaldamento globale.
Io volevo solo che mi lasciassero in pace; me e la mia tempesta.