
- 208 pagine
- Italian
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Informazioni su questo libro
Durante la quarantena hanno parlato tutti: virologi, politici, giornalisti, ministri, professori, presidi, opinionisti, esperti e inesperti, leoni da tastiera. Ma i ragazzi? Loro, dove sono finiti? Non li abbiamo più sentiti passare per le strade deserte, non li abbiamo visti in piazza e al parco, non hanno più potuto affollare i locali della movida, non sono più andati a scuola, non hanno più riempito i centri sportivi. Allora, dove si sono cacciati? Come hanno vissuto la quarantena? Abbiamo voluto chiederglielo. Ci hanno risposto così.
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Informazioni
Print ISBN
9788817149464eBook ISBN
9788831801249CAPITOLO 1
COME QUANDO FUORI PIOVE
I REALISTI
UN TWEET A CAPODANNO
Iniziò tutto il 31 dicembre del 2019, alle ore 23,25. Ero appena tornato a casa dopo aver visto Il primo Natale di Ficarra e Picone al cinema insieme ai miei genitori quando, scorrendo Twitter, scovai un post di un’agenzia di stampa sconosciuta che diceva: “Registrati alcuni casi di polmoniti sospette simili alla Sars. Epicentro nella metropoli cinese di Wuhan, situata nella regione dell’Hubei”. Non diedi alcun peso all’annuncio: era Capodanno, la notizia non era riportata su nessun giornale importante e un 2020 pieno di aspettative era alle porte.
Forse fui uno dei pochi a venire a sapere dell’esistenza del Covid-19, che all’epoca non aveva ancora un nome.
Passarono circa due settimane, nelle quali quasi nessuno accennò al fatto che si stava diffondendo un’epidemia a livello globale. Il 10 gennaio lessi un articolo intitolato: “Coronavirus, non sarà un’epidemia. Ecco le bufale sul nuovo e non pericoloso ceppo di influenza virale”.
Del Covid-19 si iniziò a parlare seriamente il 15 gennaio, quando una virologa di Hong Kong dichiarò: “Vi sono varie evidenze scientifiche che ci dicono che il virus si possa trasmettere da persona a persona”. Appresi questo fatto mentre ero sul treno che ogni giorno mi porta (o meglio, mi portava) da casa a scuola. Proprio in quel momento, il mio vicino di posto cominciò a tossire. Mi chiesi se fosse prudente spostarmi, ma lasciai perdere: mi immaginavo il virus come una cosa lontana, inaccessibile.
Ma così non fu. Nella settimana tra il 15 e 22 gennaio fecero i primi ingressi nelle trasmissioni televisive i cosiddetti “big” della virologia. La loro presenza, però, era ridotta: rari collegamenti con l’obiettivo di rassicurarci e di sottovalutare il Covid-19. Questa critica, ovviamente, è rivolta anche a me stesso: in un primo momento anch’io ho sminuito il virus, definendolo una semplice influenza.
Il 24 gennaio apparve in prima pagina su tutti i giornali la foto scattata a Wuhan della costruzione di un ospedale dedicato solo ai contagiati. In via precauzionale, chiesi a mio padre di poter essere accompagnato a scuola a Milano con la sua auto. Ogni mattina, quindi, ascoltavo insieme a lui la radio. Le notizie dalla Cina sembravano surreali.
E poi, la data fatidica: il 31 gennaio due turisti cinesi che alloggiavano all’ormai celebre hotel Palatino di Roma risultarono positivi al Covid-19. Mi ricordo perfettamente quella sera: il premier Giuseppe Conte, in una conferenza stampa, disse che eravamo preparati. Furono bloccati i voli da e per la Cina, la leggera paura di una possibile epidemia divenne sempre più forte, anche se molti politici di tutti gli schieramenti e i virologi continuavano a dirci che saremmo stati al sicuro. Io, però, al sicuro non mi sentivo affatto: implorai i miei genitori di fare scorte di mascherine (fortunatamente la farmacia della mia città ce ne aveva ancora). E fu una mossa astuta, tanto che, poi, quando l’inimmaginabile divenne realtà, ero tra i pochi che possedeva il nuovo oro del 2020: le protezioni individuali FFP2 ed FFP3.
Da quel momento l’Italia cambiò: meno persone sulle strade, mascherine esaurite dappertutto, discussioni sul regime cinese, su come gli stranieri fossero un possibile vettore di contagio, sulla preannunciata catastrofe economica ed episodi di razzismo contro i cinesi. Si sa, la paura dell’ignoto causa sempre degli effetti inattesi.
Una settimana dopo, i riflettori erano accesi su ben altro: il Festival di Sanremo. Vi fu infatti un periodo di transizione, in cui l’attenzione sul Covid-19 si abbassò leggermente: i contagi in Cina decrescevano, i turisti cinesi in Italia stavano meglio e una settantina di italiani bloccati a Wuhan fecero ritorno in patria. Insomma, i temi principali delle prime pagine dei giornali non riguardavano più il pericoloso virus cinese.
La mattina del 21 febbraio mi svegliai tutto sommato felice alle 6,45: nonostante fosse un giorno feriale di inverno, il sole splendeva, e in quella mattina io e la mia la classe saremmo dovuti andare a teatro. Ma questo stato passeggero di gioia fu spezzato da una notizia che appresi esattamente alle 6,53. Un’agenzia titolava così: “Caso positivo di Coronavirus a Codogno, allerta nel Lodigiano”. Ecco la seconda fatidica data per il nostro Paese, dopo quella del 31 gennaio. L’incubo era tornato.
Ma non potevo di certo fermare la routine: così, come ogni mattina, arrivai a scuola in auto con mio padre. Mentre ero in macchina mi chiesi: “Ma dov’è Codogno?”. Appresi dalla radio che si trovava vicino a Lodi. Com’è possibile che la prima comparsa del virus in Italia (oltre al caso isolato dei due turisti cinesi) avesse avuto luogo in uno sperduto paese del lodigiano?
Commentai la tragica notizia col mio professore di italiano, che era molto preoccupato. I miei compagni, invece, erano del tutto sereni.
Le ore tra il 21 e il 22 febbraio furono veramente pesanti a livello psicologico: in ogni momento si aveva notizia di nuovi contagi (e non era come oggi, ogni nuovo contagio era un colpo al cuore), fino alla notizia del primo morto in Veneto. L’Italia si scopriva vulnerabile al virus.
Sabato 22 febbraio, il professore di scienze entrò in classe dicendo: «Ragazzi, aprite la finestra. La situazione, a mio parere, sta sfuggendo di mano. Preparatevi al peggio». Ecco, lui non è solito pronunciare questo tipo di frasi, per questo io uscii turbato da quella lezione.
Fu quello l’ultimo giorno in cui vidi la mia scuola, i miei compagni e i miei professori dal vivo. Chi se lo sarebbe mai aspettato?
Domenica 23 febbraio fu una giornata confusa: alcuni miei compagni dissero che le scuole avrebbero chiuso, altri decisero che non sarebbero venuti comunque per non esporsi al rischio di prendere i mezzi pubblici.
Non sapevo più cosa pensare. Alla notizia che il presidente della Regione Lombardia aveva disposto la chiusura delle scuole per una settimana, non posso negarlo, gioii: sarebbe stata rinviata la versione di latino del mercoledì successivo.
Passarono delle giornate in cui la pigrizia prese su di me il sopravvento, anche perché non ci erano stati assegnati dei compiti. Neanche a dirlo, la maggior parte delle persone era convinta che saremmo ritornati in classe a breve; io no.
In quei giorni uscii solo una volta con i miei amici per andare a pranzo insieme: vidi in giro tantissime persone al parco, in strada e nei bar. Capii subito che, così, sarebbe stato un disastro. Il pomeriggio andai a trovare mia nonna. Mi disse: «Ognuno nella propria vita deve affrontare un fatto catastrofico che lo cambierà. Il nostro è questo». Le ho sorriso, l’ho abbracciata. Quanto aveva ragione. In ogni giorno della quarantena ho sentito risuonare in testa queste sue parole.
Marzo fu infatti un incubo: ambulanze tutto il giorno, numeri da bollettino di guerra.
Ed eccoci a maggio. Se rifletto sulle molte persone che non ci sono più, su quelle che hanno sofferto e soffriranno, mi commuovo e penso ai comportamenti irresponsabili che tutti noi abbiamo adottato, inconsapevoli di quello che sarebbe accaduto.
Mai sottovalutare ciò che non conosciamo: questa è la dura lezione che il Covid-19 ha insegnato a tutti noi.
Luigi, seconda superiore
SCUOLE CHIUSE, EVVAI!
Quando scoppia un temporale improvviso, fino a pochi minuti prima le persone sono spensierate e svolgono le loro attività quotidiane come se niente fosse. All’arrivo dei primi fulmini e dei primi tuoni, alcuni corrono immediatamente ai ripari, tornando a casa o cercando una tettoia, mentre altri, sottovalutando la situazione, rimangono allo scoperto, perfino scherzandoci su, fino al momento in cui giungono acquazzone e vento: coloro che hanno preso sul serio i segnali di emergenza sono salvi e asciutti, mentre quelli che hanno ignorato i segnali si ritrovano fradici e si chiedono per quale motivo non sono stati previdenti.
Nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni viene raccontato il diffondersi della peste a Milano. L’obiettivo dell’autore non è solo quello di mostrare la devastazione portata dalla malattia, ma anche e soprattutto far vedere quanto l’ignoranza delle persone favorì la diffusione della peste. I milanesi non volevano assolutamente credere al contagio per un motivo molto semplice: lo temevano troppo.
Quando abbiamo paura di qualcosa, tendiamo a far finta di niente, perché non vogliamo che questo ci condizioni. È esattamente quello che è successo anche con il Covid. Appena è arrivata la notizia del virus dalla Cina, tutti dicevano che il tasso di mortalità era ancora più basso di quello dell’influenza. Queste affermazioni fanno ripensare immediatamente a quei due capitoli di Manzoni, in cui viene detto che gli esperti affermavano inizialmente che in realtà non si trattava di peste, ma solo di una malattia poco grave.
Quando un virus si sottovaluta, le conseguenze sono drammatiche. Basta pensare al Regno Unito e agli Stati Uniti, dove i Governi hanno annunciato più volte di non essere in pericolo, e che oggi sono tra i Paesi con più morti al mondo.
Io, lo confesso, ero dalla parte di Donald Trump e di Boris Johnson: credevo che l’allarmismo fosse eccessivo, me ne stavo bello tranquillo. Ne ho parlato una mattina a colazione con mio padre, che mi ha detto: «Non dobbiamo preoccuparci e non dobbiamo seguire questa isteria collettiva».
«Quindi, papà, non è nulla di grave?»
«Hai sentito, Mario, è solo un’influenza: detesto chi si fa venire ansie inutili!»
Domenica 23 febbraio, la prima dopo la scoperta dei casi in Lombardia, sono andato come sempre a pranzare da mia nonna con la mia famiglia. Eravamo in quindici, compresi i cugini e tutti gli altri parenti. Stare lì insieme non mi ha mai esaltato, soprattutto perché mi fa passare la fame, ma adesso non so cosa darei per poter fare un altro pranzo in famiglia dal vivo, senza dover aspettare mezz’ora per parlare con la nonna perché non riesce a collegarsi alla chiamata.
Subito dopo pranzo sui social è arrivata la notizia che la settimana dopo non saremmo andati a scuola. Eravamo le persone più felici del mondo. Una vacanza fuori stagione! Che meraviglia! Sembrava di essere in una favola! Avrei oziato beatamente fino alla fine delle vacanze di Carnevale! L’odiosa sveglia poteva andare a farsi benedire per un po’! Una vita da re, insomma…
Nei giorni successivi siamo andati a sciare in Trentino. In quella regione non avevano ancora deciso di chiudere le scuole, per questo motivo non ci siamo fatti scrupoli a partire. Adesso mi vergogno a scriverlo.
In vacanza con noi c’erano degli amici, e, ancora più spensierati di prima, abbiamo accolto la notizia di un’ulteriore sospensione delle attività scolastiche per le successive due settimane. I più grandi sbuffavano e si lamentavano: ritenevano eccessive le restrizioni attuate dal Governo. Noi ragazzi esultavamo come pazzi. I prof erano già pronti a catturarci nel laccio delle loro verifiche e interrogazioni che avevano dovuto rimandare e invece saremmo sfuggiti ancora per un po’! Tiè!
Eppure, da qualche parte dentro di me saliva una certa inquietudine, come un sottile odore sgradevole che non sai da dove viene. Era strano, troppo, essere così a lungo liberi dalla scuola in quella stagione. I conti non tornavano…
Rientrato in città, mi ero già accordato con gli amici per vederci il giorno dopo, come se nulla fosse. Ma la sera sono andato al supermercato con i miei genitori e ho capito che qualcosa, sul serio, non andava. Eravamo costretti a fare spesa: dopo la vacanza in montagna non avevamo nulla in casa. Non è stata un’idea geniale: al supermercato c’era l’intero quartiere! Tantissime persone correvano impazzite tra gli scaffali, riempiendo il carrello. Quasi nessuno, compresi noi, aveva mascherine o pensava alla distanza di sicurezza. Mi ha colpito la presenza di molti cinesi con carrelli stracarichi e mascherine sul viso: forse loro sapevano già cosa aspettarsi. Siamo usciti dal supermercato veramente impressionati e certi di aver fatto un’imprudenza che avremmo potuto pagare cara.
L’odore sottile era diventato una puzza insopportabile. Qualcosa ci era sfuggito di mano. Qualcosa di molto grosso.
Mario, prima superiore
QUELLI DELLA “MATURITÀ DEL COVID”
Suona la sveglia, scendo dal letto, vado in bagno, bevo velocemente un caffè, corro a prendere i mezzi, vado a scuola, studio, esco per fare sport o per andare a scuola guida, ceno, guardo qualcosa su Netflix, vado a dormire e poi si ricomincia: suona la sveglia, scendo dal letto, vado in bagno, bevo velocemente un caffè, corro a prendere i mezzi, vado a scuola, studio, esco per fare sport o per andare a scuola guida, ceno, guardo qualcosa su Netflix, vado a dormire…
Il tempo scorre frenetico, le azioni si susseguono come da routine, magari a volte si aggiunge qualche variabile: le uscite al sabato sera con gli amici, l’aperitivo nei locali preferiti di Milano, ma a grandi linee è così che va la mia vita.
Eppure una mattina la sveglia non è suonata: al suo posto ci sono state la voce di mia madre e la tapparella alzata da cui entrava la luce del sole. Da quel giorno, 24 febbraio 2020, le giornate sono cambiate.
Scuole chiuse. Inizialmente ho tirato un sospiro di sollievo: ho pensato che alcuni giorni in più per lo studio arretrato sarebbero stati perfetti. Poi però quei pochi giorni sono diventate settimane, mesi, e alla fine ho perso quasi l’intero anno scolastico. Il mio ultimo anno scolastico.
Sorrido perché, probabilmente, se fosse accaduto l’anno scorso avrei gioito a dismisura, ma solo noi maturandi possiamo capire cosa sto provando in questo momento.
Avremo un esame facilitato? Non saprei dirlo, forse sì o forse no. Ma il dispiacere è tanto: non abbiamo appreso tutto quello che un diciottenne o un diciannovenne dovrebbe possedere nel suo bagaglio culturale.
E non è solo questo. Il punto è che niente potrà compensare le esperienze che stanno sfuggendo ora dalle nostre mani e che non entreranno mai nei nostri ricordi. L’esame, il rito di passaggio per molte generazioni italiane, non segna solo un voto e la fine di un percorso, ma regala anche attimi e felicità che non potremo mai vivere. I cento giorni, le gite scolastiche, la ricerca disperata dei commissari esterni e del presidente, l’ultima foto di classe, l’ansia la notte prima del tema, gli esami scritti, l’abbraccio e la festa subito dopo l’orale, il mitico viaggio di maturità d’estate… tutti momenti che non vivrò e che sicuramente una verifica copiata e un’interrogazione online in cui me la sono cavata in qualche modo non possono sostituire.
Avevamo immaginato di vivere la notte prima degli esami come in un film, a bere qualcosa con gli amici e a scherzare, magari tirando a indovinare le possibili tracce, oppure semplicemente a parlare e a ripercorrere quello che quei cinque anni sono stati, ripensando agli errori commessi e alle persone incontrate.
Niente potrà rid...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Overture. James Bond al supermarket
- Capitolo 1. Come quando fuori piove. I realisti
- Capitolo 2. Le montagne russe dei sentimenti. I romantici
- Capitolo 3. Andrà tutto bene. Gli ottimisti
- Epilogo. Una stanza nel 2100
- Senza scuola non si può stare. di Marco Erba
- Ringraziamenti
- Copyright