Neoitaliani
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Neoitaliani

Un manifesto

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Neoitaliani

Un manifesto

Informazioni su questo libro

Chi sono i neoitaliani? Siamo tutti noi, che abbiamo attraversato la stranissima primavera del 2020 e ora affrontiamo un futuro incerto. "Ci vorrà tempo per capire come la pandemia, lo spavento e le difficoltà abbiano cambiato il nostro carattere. Ma un cambiamento è avvenuto." Beppe Severgnini, che ha dedicato la carriera alla meticolosa osservazione dei connazionali, non ha dubbi: "Dalla bufera siamo usciti diversi. Peggiori o migliori? Direi: non siamo andati indietro. A modo nostro, siamo andati avanti. Siamo stati costretti a trovare dentro di noi - nelle nostre città, nelle nostre famiglie, nelle nostre teste, nel nostro cuore - risorse che non sapevamo di possedere". Quindici anni dopo La testa degli italiani - il libro che, tradotto in quattordici lingue, ha spiegato agli stranieri il nostro carattere nazionale - l'autore ha deciso di raccontare i cambiamenti avvenuti e anticipare quelli che verranno. Neoitaliani ruota intorno a una sorta di manifesto: 50 MOTIVI PER ESSERE ITALIANI. Un modo insolito e brillante per spiegare chi siamo, e capire chi potremmo essere. Scrive Severgnini: "Il virus ci ha messo con le spalle al muro. La posizione in cui noi italiani diamo tradizionalmente il meglio". E aggiunge: "Abbiamo dimostrato di saper essere disciplinati, ma ci scoccia ammetterlo. Temiamo di rovinarci la reputazione". Il suo racconto - divertente, commovente, stimolante - vi convincerà che i neoitaliani sono pronti a fare cose nuove. Non sappiamo quali e non sappiamo quante e non sappiamo quando. Sappiamo, però, che dipenderà da noi. Noi siamo italiani. Non sottovalutateci mai.

Domande frequenti

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Informazioni

1

Perché, quando tutti s’aspettano che ci agitiamo, restiamo calmi

L’Italia è stato il primo Paese fuori dall’Asia a sperimentare il coronavirus. È stato il primo a scegliere la chiusura, il 9 marzo 2020. L’immagine degli autocarri dell’esercito che portavano via i defunti di Bergamo è stampata nella memoria collettiva. Anche le province di Brescia, Lodi e Cremona hanno sofferto molto: i giornali locali erano camposanti di necrologi, ogni giorno se ne andava un conoscente. Crema, dove sono nato e vivo, è stata una città-fantasma per due mesi. La gente era angosciata. Però è rimasta a casa.
In maggio l’Italia ha riaperto, con cautela. È stata consentita una limitata attività sportiva all’aperto, quindi le visite a parenti, partner e amanti («affetti stabili» ha dichiarato il governo, aprendo un dibattito nazionale su ciò che rende stabili i propri affetti). Le fabbriche e le imprese di costruzione sono tornate al lavoro. Qualche giorno dopo, tra accortezze e litigi, è toccato a negozi, bar e ristoranti. Le scuole sono restate chiuse, non si sa perché. Indossare la mascherina è rimasto obbligatorio. Ci portavamo in faccia un promemoria verdeazzurro: quello che era accaduto, quello che non dovrà più accadere.
L’Italia ha tracciato un percorso che si è ripetuto, con tempi diversi, in ogni Paese colpito dal Covid. Prima la sottovalutazione; poi l’incredulità, l’ansia, il lockdown. Quindi la reazione: battute e meme sugli smartphone, sbalzi d’umore, la rassicurazione dell’inno nazionale. A quel punto abbiamo capito. La sfida contro il virus sarebbe stata una corsa sulla lunga distanza; e abbiamo iniziato a correre.
A Crema l’ospedale era sopraffatto dai malati, molti erano gravi e avevano necessità della terapia intensiva. L’esercito italiano ha costruito un ospedale da campo in pochi giorni, nel parcheggio. Una brigata sanitaria, composta da cinquantadue medici e infermieri, è arrivata da Cuba per aiutarci. Per tutto il mese d’aprile le sirene delle ambulanze hanno riempito l’aria. Intorno cielo blu, alberi in fiore e la più splendente primavera da molti anni.
Ora che questi sono diventati ricordi, forse possiamo dirlo: ce l’abbiamo fatta. Ho raccontato alcune di queste cose sul «New York Times», il titolo era: Why Italy Coped, and Will Keep Coping, perché l’Italia ha resistito, e continuerà a resistere. La conferma – dopo un’estate colpevolmente distratta – l’abbiamo avuta in autunno e in inverno, prima dell’inizio della campagna di vaccinazione. Non è stata una battaglia: è stata una guerra, piena di ansia e dolore. Sessanta milioni di persone, nel complesso, hanno osservato le regole. Sorprendentemente, considerata la nostra reputazione indisciplinata.
Ma è davvero sorprendente?
In Italia le regole non vengono rispettate – o ignorate – come altrove. Pensiamo che sia un insulto alla nostra intelligenza osservare una norma senza prima metterla in discussione. Qualsiasi norma: legale, morale, sociale, fiscale, stradale. L’obbedienza cieca è considerata banale. Vogliamo decidere se una determinata regola si adatta al nostro caso specifico. Una volta stabilito che è così, la osserviamo. Davanti alla minaccia del coronavirus, abbiamo deciso che il blocco aveva senso; e lo abbiamo rispettato. Non è stata una decisione collettiva. È stata la somma di milioni di decisioni individuali.
Ci siamo riusciti anche perché avevamo le risorse sociali e psicologiche per farlo. Realismo, resilienza, inventiva, il sostegno delle famiglie allargate, l’istinto – talvolta addirittura esibizionistico – all’altruismo e alla generosità.
Ci ha aiutato il fatto di essere un popolo socievole. Il web ci ha fornito nuovi strumenti, utili nell’emergenza. Le relazioni personali e familiari – la cui importanza ha prodotto tanta scadente letteratura internazionale, ma non può essere sottovalutata – si sono rivelate cruciali. I maschi hanno cucinato, aggiustato, riordinato come mai in passato. Se avevano figli, hanno trascorso tempo con loro. Ogni mamma s’è trasformata in un’insegnante, aggiungendo quel lavoro a tutti gli altri. Gli amici si sostenevano a vicenda. L’aperitivo su Zoom o sul balcone non è durato a lungo. Ma la forza e la pazienza che abbiamo dimostrato, deposti i bicchieri, è stata sorprendente.
Una pandemia – come una guerra, come qualsiasi grave crisi – è rivelatrice. Ci fa capire meglio le persone, le comunità, le organizzazioni e le nazioni.
Gli Stati Uniti d’America sono nati da una ribellione, nella cultura nazionale resiste il culto della libertà individuale: e s’è visto. Dal Michigan alla Pennsylvania, molti cittadini sono scesi in strada – alcuni, armati – a chiedere una riapertura rapida, aizzati dallo stesso presidente – Donald Trump – che, dopo aver minimizzato i rischi, aveva ordinato le restrizioni. Gli scossoni assestati dal coronavirus – scossoni sociali, economici, politici – hanno portato alle rivolte del movimento Black Lives Matter e poi alla sconfitta dello stesso Trump.
La Francia ha sempre mostrato un certo talento per la protesta di piazza, e le proteste sono arrivate: prima nelle periferie, poi in centro a Parigi, protagonisti anche medici e infermieri. Gli svedesi credono nella società aperta, e sono stati tra gli ultimi a chiudere, con riluttanza. I russi sono rassegnati al potere, ed è accaduto di nuovo con il Covid: nessuno sa cos’è accaduto davvero. In Gran Bretagna minimizzare è la religione ufficiosa di Stato; ma stavolta l’understatement ha portato a sottovalutare la minaccia. Solo il dramma personale del primo ministro Boris Johnson – ricoverato d’urgenza, ha rischiato la vita – ha convinto gli inglesi a rivedere il proprio punto di vista.
In Italia nessuna rivolta, poche manifestazioni, nessuna violenza, tanto meno una protesta armata. Qualche giustificato mugugno, tutt’al più, davanti alle indecisioni del governo, nazionale e regionale. L’inizio della campagna di vaccinazione è stato caotico, e ha mostrato episodi di egoismo contagioso. Ma poi la grande maggioranza degli italiani – del Nord e del Sud, di ogni condizione sociale e con qualsiasi livello di istruzione – ha deciso che le misure sanitarie avevano senso. I governanti dovrebbero ringraziare i governati, per una volta.
Ci sarebbe un modo di dimostrare questa gratitudine. Il governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi – utilizzando i molti denari in arrivo dall’Unione Europea – dovrebbe cercare di creare una nuova Italia, non solo di riaprire quella di prima. La burocrazia e l’eccessiva regolamentazione sono state spesso aggirate, durante l’emergenza; e l’Italia non è crollata, anzi. Lavorare da casa, per esempio, è diventato la norma per milioni di persone, in pochi mesi abbiamo compiuto enormi progressi in materia. Progressi che, in tempi normali, avrebbero richiesto anni; perché ministeri, uffici pubblici e privati, aziende e sindacati avrebbero trovato ogni pretesto per rimandare.
I nuovi italiani hanno mostrato di saper essere pazienti e, all’occorrenza, diligenti. Ora abbiamo bisogno di organizzazione, rapidità e precisione. Viviamo un tempo emotivo, e le emozioni sono il carburante italiano. Ma non bastano. Lo abbiamo capito? Credo di sì.
2

Perché siamo fragili, quando pensiamo d’esser forti, e viceversa

Esistono caratteri nazionali capaci di nascondere le incertezze dietro la vivacità. Noi italiani siamo fatti così. A ogni età, in ogni parte di Italia e in ogni condizione sociale sappiamo usare l’esuberanza come una cortina fumogena: soprattutto verso gli stranieri, ma non solo.
Nel tempo di pandemia è accaduto di nuovo. La reazione all’emergenza richiedeva empatia, prontezza, capacità d’immaginazione: tutte specialità della casa (italiana). Per superare il dolore – centotrentamila morti, ma probabilmente sono stati molti di più – abbiamo allestito una rappresentazione che serviva a consolare e a consolarci. Da una fragilità per noi inammissibile, abbiamo tirato fuori una forza inimmaginabile.
La prontezza con cui abbiamo affrontato la sfida del Covid – sperimentando tecnologie domestiche e nuove forme di socialità – non deve ingannare: è stata durissima per tutti, per alcuni più che per altri. Poi, lentamente, il trauma è stato rimosso. Di quella fragilità rimangono ombre e ricordi. La nostra mente ha iniziato a catalogarli, cestinando quelli più sgraditi.
Ci sono cose che non dobbiamo dimenticare, invece. Per esempio: la pandemia ha dimostrato che in Italia non siamo più abituati all’incertezza. Pensate a quanto avete letto, visto, ascoltato e ripetuto un corollario di annunci, paure, ansie, precauzioni, incomprensioni, litigi. Abbiamo l’illusione del controllo, e ogni tanto si rivela per ciò che è: un’illusione.
È inutile negarlo: siamo esseri umani, esseri fragili. Non c’è da vergognarsi, né da essere sorpresi. Siamo i cittadini degli Stati Esauditi dell’Occidente. I rischi della vita quotidiana in altre parti del mondo – rischi sanitari, alimentari, climatici, politici, polizieschi, militari – sono sconosciuti per chi vive in Italia e in Europa. Sarebbe interessante capire cosa pensano del Covid i giovani africani che, per venire qui, hanno sfidato il deserto, le prigioni libiche e il mare: potrebbero sorprenderci.
Le epidemie sono state affrontate, nei secoli, col passaparola, che poteva diventare isteria e calunnia (ce lo ha raccontato Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi). Poi sono arrivati i giornali; quindi i bollettini radio e i notiziari televisivi. Oggi sappiamo molto e molto in fretta: probabilmente troppo. Siamo iperinformati e ipersensibili. Abbiamo attraversato la prima pandemia social: le notizie che ci scambiavamo – a voce, per iscritto, per immagini – erano emotive e frammentarie. La sovrabbondanza di informazioni – spesso imprecise, talvolta false – diventava ansiogena. Virologi ed epidemiologi, spesso assai loquaci, hanno qualche responsabilità: frastornati dalla notorietà, alcuni di loro hanno contribuito alla confusione.
C’è chi parla di autosuggestione collettiva: ma ogni spavento nasce dentro di noi. Fuori accadono solo fatti, più o meno comprensibili. Perché siamo diventati tanto sensibili? Forse perché, insieme ai rischi, sono diminuiti gli imprevisti. In tasca portiamo un aggeggio che ci consente di conoscere le condizioni del traffico, la posizione dell’auto che verrà a prenderci, le previsioni meteo, la distanza da percorrere. Gli imprevisti esistono, lo sappiamo; ma li abbiamo confinati in una casella apposita, come nel gioco del Monopoli.
Gli strumenti che abbiamo a disposizione ci hanno disabituato all’imprevedibilità che ha accompagnato le generazioni prima di noi. Forse per questo temiamo tanto le malattie, che hanno segnato la storia dell’uomo. Averne sconfitte moltissime è meraviglioso; ma ci lascia psicologicamente vulnerabili davanti a quelle che restano. L’ipocondria ha smesso di essere una patologia, è diventata un aspetto della condizione italiana.
C’è un racconto familiare che non dimentico. Mio padre Angelo era nato nel 1917 in una cascina a Offanengo, nella campagna cremasca, settimo figlio in una famiglia di agricoltori. Contrasse l’influenza spagnola, che tra il 1918 e il 1920 uccise tra cinquanta e cento milioni di persone nel mondo, seicentomila in Italia. I genitori lo lasciarono nella culla in una stanza poco riscaldata, affidandosi alla provvidenza: dovevano pensare agli altri figli. Mio padre guarì, e sopravvisse: per quasi cent’anni. Raccontava spesso questo episodio, confermato dalle zie che ai tempi erano adolescenti, come un fatto della vita. Accadeva, un secolo fa, che una famiglia numerosa perdesse un figlio.
Tempi crudeli, che nessuno rimpiange. Tempi che stendevano sulla popolazione una patina di fatalismo che confinava, da un lato, con la rassegnazione, dall’altro, con il coraggio. Oggi siamo, insieme, più forti e più deboli. La medicina ha fatto passi da gigante, la sanità pubblica è, con l’istruzione gratuita e obbligatoria, la più grande conquista della nostra società. Fatichiamo però ad accettare che esistono fenomeni difficili da controllare. Eventi che ci costringono a usare parole antiche: contagio, quarantena, isolamento.
Chissà se noi italiani impareremo qualcosa da quanto è accaduto. Per esempio, se ricorderemo di essere fragili e di aver bisogno di aiuto. Se capiremo che, mentre passiamo in questo mondo, possiamo affrontare meglio le difficoltà unendo le forze e le intelligenze. Davanti al virus e a tutto il resto.
3

Perché sappiamo essere seri, ma lo ammettiamo malvolentieri

Ringraziare era doveroso. Ringraziare, guardare e salutare, senza far perdere tempo. Perché chi deve montare un ospedale da campo in tre giorni non ha tempo per la conversazione. Sono arrivato, ho appoggiato la bicicletta al cavalletto: da casa, ho pedalato per settecento metri. Mai avrei immaginato di vedere le gru, i camion e le tende gialle con le croci rosse nel parcheggio davanti al pronto soccorso, appena dietro l’edicola chiusa. Crema è piccola, spiccia e robusta. Ma ha avuto bisogno di aiuto, in marzo; e l’aiuto è arrivato. L’Ospedale Maggiore – che all’inizio ha assistito Codogno e la bassa lodigiana – non ce la faceva più.
È arrivato il 3° Reparto Sanità «Milano», di base a Bellinzago Novarese. Esercito italiano, trenta uomini. Quindici – mi aveva spiegato il tenente colonnello Michele Ricci, che li comandava – sarebbero rimasti a Crema dopo l’allestimento: trentadue degenze, tre in terapia intensiva. Poi è sopraggiunta una brigata sanitaria cubana, ospitata presso la Caritas diocesana. I militari alloggiavano nell’ex tribunale. Carro-attrezzi, allacciamenti, pulizie: le imprese locali non hanno voluto essere pagate. Domenica 28 marzo 2020, la parte militare era finita. Lunedì, i medici e i sanitari di Crema si sono coordinati con i colleghi di Cuba. Martedì, il primo paziente è entrato nell’ospedale da campo. Da quel momento, i malati sono arrivati senza sosta, a ogni ora, per un mese.
Michele Ricci è di Massafra, provincia di Taranto, è stato in missione in Kosovo, Afghanistan, Iraq: vederlo a Crema era surreale. Le ambulanze si susseguivano: lo stesso suono di sempre, ma noi non eravamo quelli di prima. Abbiamo attraversato il campo in allestimento insieme al sindaco Stefania Bonaldi, che era stanchissima, ma riusciva a sorridere dietro la mascherina. Ci conosciamo da anni. A Crema ci conosciamo tutti. Conoscevamo i morti, conoscev...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Neoitaliani
  4. Una spiegazione
  5. 50 motivi per essere italiani
  6. 1. Perché, quando tutti s’aspettano che ci agitiamo, restiamo calmi
  7. 2. Perché siamo fragili, quando pensiamo d’esser forti, e viceversa
  8. 3. Perché sappiamo essere seri, ma lo ammettiamo malvolentieri
  9. 4. Perché siamo imprevedibili, se non diventiamo inaffidabili
  10. 5. Perché siamo capaci di bei gesti. Sui buoni comportamenti, stiamo lavorando
  11. 6. Perché nel mondo ti guardano, in Italia ti vedono
  12. 7. Perché troviamo eroi insospettabili
  13. 8. Perché impariamo, volenti o nolenti
  14. 9. Perché abbiamo visto quasi tutto, e il resto lo immaginiamo
  15. 10. Perché arriva il momento in cui spegniamo il risentimento
  16. 11. Perché siamo autocritici, se non diventiamo autolesionisti
  17. 12. Perché molti parlano, alcuni ascoltano, ma tutti capiscono
  18. 13. Perché ogni tanto facciamo cose imbarazzanti, ma lo sappiamo
  19. 14. Perché quando parliamo poco diciamo molto, e viceversa
  20. 15. Perché non siamo tutti poeti, ma riconosciamo la poesia
  21. 16. Perché molti di noi sono stati fortunati, e se ne rendono conto
  22. 17. Perché i nostri figli vedono il futuro, e ogni tanto ce lo spiegano
  23. 18. Perché ci divertiamo senza essere sbronzi
  24. 19. Perché vogliamo fare bella figura. Ma sappiamo farci anche una bella risata
  25. 20. Perché Milano è politica e sensuale
  26. 21. Perché Roma è una storia a sé
  27. 22. Perché il Nord e il Sud bisticciano come una vecchia coppia
  28. 23. Perché la Sardegna profuma di pazienza
  29. 24. Perché il vino è un’educazione sentimentale, e il caffè è un armistizio
  30. 25. Perché sappiamo d’istinto cos’è buono e genuino
  31. 26. Perché molti ci criticano, ma quasi tutti ci copiano
  32. 27. Perché chiediamo lo smart working, ma ci piace stare con gli altri
  33. 28. Perché conosciamo il confine tra gentilezza e molestia
  34. 29. Perché le piccole chiese sono meglio di certi difensori della fede
  35. 30. Perché siamo indulgenti con gli imbroglioni e incompetenti, ma li riconosciamo subito
  36. 31. Perché abbiamo la scuola pubblica, l’ultimo frullatore nazionale
  37. 32. Perché abbiamo gli asili e abbiamo avuto Maria Montessori
  38. 33. Perché abbiamo il Servizio Sanitario Nazionale e i medici di famiglia
  39. 34. Perché i poliziotti non ci guardano male (ogni tanto, dovrebbero)
  40. 35. Perché sappiamo pensare con le mani e lavorare con i pensieri
  41. 36. Perché i campi non hanno mai l’aria annoiata
  42. 37. Perché lavorare stanca, ma non sappiamo farne a meno
  43. 38. Perché in ogni laboratorio del mondo ci sono un computer, una pianta verde e un italiano
  44. 39. Perché abbiamo vecchie case bisognose di amore e manutenzione
  45. 40. Perché le città vuote producono rumori interessanti
  46. 41. Perché vogliamo le consegne a domicilio e amiamo i negozi sotto casa
  47. 42. Perché nei ristoranti sorridono, anche quando viene il temporale
  48. 43. Perché nei parchi amiamo passeggiare, riposare, litigare
  49. 44. Perché abbiamo elevato il lamento a forma d’arte
  50. 45. Perché amiamo confondere chi ci giudica
  51. 46. Perché sappiamo che quei giudici, talvolta, hanno ragione
  52. 47. Perché è difficile sentirsi diversi, se di uguale non c’è nessuno
  53. 48. Perché ogni tanto ci cadono le braccia, ma poi le tiriamo su
  54. 49. Perché siamo quello che gli altri vorrebbero essere, e non osano
  55. 50. Perché sorridiamo, nonostante tutto
  56. Copyright