La Conner, Stato di Washington
Quando l’incubo arrivò, Hayes era disteso al centro del letto. Il tremolio partì dal bordo delle labbra, un’increspatura che si deformò in un ringhio ferino. Cominciò a sudare, le mani che straziavano le lenzuola, gli occhi che si muovevano come palline da flipper sotto le palpebre chiuse, la mente intrappolata negli orrori del passato.
Aspettava nell’ombra, gli occhi chiusi, le orecchie tese a captare ogni suono della preda in arrivo. Ammazzarli tutti, quello era l’ordine. Lui era solo uno strumento, e l’avevano condizionato a uccidere senza esitazione. La mano si era chiusa attorno all’impugnatura del coltello, assicurato sulla schiena. Aveva avvertito il freddo del metallo attraverso il guanto. La lama era uscita dal fodero con un sibilo, l’acciaio che scorreva nel cuoio, e lui aveva aperto gli occhi. Il volto della sentinella appariva verde nel visore notturno.
Adesso, gli aveva detto la voce. E lui aveva colpito.
La mano di Hayes strisciò sotto al cuscino, le dita si serrarono attorno al rassicurante acciaio della sua 9 millimetri, una Springfield EMP. Rotolò giù dal letto e si acquattò, il legno freddo come un cadavere contro le ginocchia nude. La memoria muscolare aveva preso il sopravvento, le mani si muovevano senza bisogno di pensarci. Fu naturale puntare l’arma sul bersaglio e far scattare la sicura.
Solo quando l’indice si piegò attorno al grilletto comprimendo la molla – tanto che sarebbe bastata una pressione leggerissima a fare fuoco – Hayes prese coscienza di quanto stava accadendo.
Poi l’incubo si dissolse.
Sbatté le palpebre per mettere a fuoco il mondo e il suo sguardo si posò sulla pistola tesa, il mirino puntato sulla camicia appesa alla porta.
Gesù Cristo.
Tolse il dito dal grilletto e rimise la sicura. L’essere arrivato a un soffio dallo sparare un 9 millimetri a punta cava contro la porta gli diede la nausea.
Erano le 5:05 del mattino. E gli incubi stavano peggiorando.
Quando fu certo che le gambe l’avrebbero retto, Hayes svuotò i polmoni con un verso gutturale, posò la pistola sul comodino e percorse il parquet fino al bagno. A tentoni raggiunse l’interruttore e le luci sul soffitto presero vita, rivelando le cicatrici che gli attraversavano il torace nudo come linee di una cartina topografica.
Si fermò davanti al lavandino, prese un flacone arancione dall’armadietto dei medicinali – aperto – e ne svitò il tappo, facendosi cadere una pillola oblunga sul palmo calloso. Quella vista gli ricordò l’ultimo appuntamento con l’analista di Tacoma.
«E gli incubi?» gli aveva chiesto sopra al fruscio della penna sulla carta.
«Non ne ho uno da mesi.»
«Adam, sta facendo grandi progressi» aveva detto lei, strappando il foglio dal blocchetto delle ricette. «Ma…»
C’è sempre un «ma».
«Ma ci saranno ricadute.»
Ricadute.
Sentì la rabbia rimestargli lo stomaco, come un lupo che si desti nella tana. Tre incubi in una settimana non erano una ricaduta: erano un fottuto crollo. Era incazzato. Furioso per averle dato retta, per essersi illuso di aver fatto progressi. Di poter essere normale.
«No» disse ad alta voce. «Io non sono più questo.»
Prese un respiro, si mise la pillola in bocca e chiuse piano la porta. Bevve un sorso d’acqua dal rubinetto e, quando alzò lo sguardo, i suoi occhi si posarono sul cartoncino colorato attaccato al vetro con il nastro adesivo. Una famiglia stilizzata si teneva per mano sotto un sole giallo limone. Sfiorò con le dita le parole scritte a pastello, AMO IL MIO PAPÀ, e un sorriso triste si allargò sulla sua faccia.
Entrò nella doccia, aprì l’acqua fredda al massimo e si infilò sotto il getto ghiacciato. L’acqua gelata gli sferzò la carne come un colpo di frusta. La sua mente si ritrasse, i muscoli guizzarono come cime sotto la pelle, spingendo l’aria fuori dai polmoni, ma lui restò dov’era, in attesa della domanda che lo accoglieva ogni mattina da diciotto mesi a quella parte.
Come sono arrivato qui?
La prima volta che aveva sentito parlare della Treadstone si trovava in Afghanistan. La missione doveva durare sei mesi, e in appena tre aveva già perso due uomini. Era stato allora che le cose avevano preso a degenerare. Confini un tempo netti, bianco o nero, di colpo erano parsi di un grigio sfumato. Lui non dormiva più, ma aveva ancora la situazione sotto controllo. O così si ripeteva. Poi era stato convocato nell’ufficio da campo del colonnello Patten. Aveva trovato il suo superiore seduto alla scrivania di compensato, la pelle grigiastra, gli occhi arrossati dalla sabbia afghana che si insinuava in ogni fessura.
«Si accomodi, capitano Hayes.»
Lui si era seduto, ascoltando l’eco degli elicotteri che arrivavano dalla valle. Era la sua terza missione laggiù e ormai li distingueva dal suono. Riconobbe un Chinook: il rumore dei rotori era inconfondibile.
Impossibile che siano i rifornimenti: è troppo pericoloso far girare gli elicotteri per la valle.
«La mando a Bagram» aveva annunciato Patten, indovinando i suoi pensieri.
«Per quale ragione, signore?»
Il colonnello aveva sputato un filo di tabacco nella tazza di polistirolo macchiato che teneva sulla scrivania e si era messo comodo. «Gli uomini cominciano a parlare.»
«È quello che fanno i soldati.»
«Il capo è preoccupato, Adam. Lo siamo tutti. Stanno mandando qualcuno dagli Stati Uniti a darle un’occhiata. Una specie di dottore.»
«Una valutazione psicologica? Sul serio?»
«Ascolti, la cosa non piace neanche a me, ma sono ordini che arrivano dall’alto. Quindi monti sull’elicottero e vada a rispondere alle domande del dottore. La prenda come una pausa: quel tizio la rimetterà in sesto, e domani sarà di nuovo qui.»
Era una palla, ma all’epoca Hayes non ne aveva idea.
Uscì dalla doccia, si asciugò e indossò un paio di lisi pantaloni della Carhartt e una camicia di lana sopra a una t-shirt nera; calzò ai piedi degli stivaletti in pelle della Ariat, dall’aspetto vissuto, si infilò alla cinta la fondina con la Springfield e andò in cucina. Per colazione si preparò due uova fritte e due fette di pane tostato, e finì quanto restava della bistecca cotta la sera prima, per cena; poi uscì sul terrazzo con il caffè. La maggior parte delle barche da pesca era già al largo, e le prime luci dell’alba rischiaravano l’orizzonte dandogli la sfumatura di un livido fresco.
La Treadstone era una lama a doppio taglio; una lama che – pensava – gli avrebbe consentito di fare la differenza. Non gli importava del dolore legato al condizionamento comportamentale e alla riprogrammazione genetica: poteva gestirlo. Avrebbe gestito ogni cosa gli avessero riversato addosso.
Solo che non era stato in grado di gestire quel che era venuto poi. Ecco perché lui viveva nello Stato di Washington e sua moglie Annabelle si era trasferita dall’altra parte del Paese assieme al loro bambino, Jack.
Adam… prometti che non proverai a trovarci.
Lo squillo di un telefono lo riscosse dai ricordi. Era la linea del lavoro. Hayes gettò i fondi del caffè oltre il terrazzo e seguì il suono fino alla rimessa rossa dietro la villetta.
Chi diavolo chiama a quest’ora?
Tempo di sbloccare la serratura a combinazione digitando il codice d’accesso, aprire la porta e accendere le luci, era ormai partita la segreteria.
«Risponde la Sterling Construction, lasciate un messaggio dopo il bip.»
«Adam, sono Sally Colvin… Ho bisogno che mi richiami…»
Hayes agguantò il ricevitore e premette il tasto per interrompere la registrazione.
«Sally, eccomi.»
«Adam, ciao. Io…»
Sally Colvin era l’agente immobiliare che aveva assunto per vendere Casa Smith. Quel progetto lo aveva tenuto sano di mente durante i diciotto mesi di esilio autoimposto, inoltre rappresentava il suo capitale futuro. L’ultima possibilità di dimostrare ad Annabelle che sapeva anche costruire, oltre che distruggere. Il denaro ricavato dalla vendita gli avrebbe permesso di smetterla di ristrutturare case altrui, per dedicarsi a rimettere insieme i pezzi del proprio matrimonio.
Qualcosa, nella voce della donna, lo insospettì. Si domandò che stesse succedendo, poi decise di chiederlo a lei. «Sally, tutto a posto?»
«Sì. Ehm… Io… Ho un acquirente interessato alla casa.»
Un’altra esitazione… «Be’, è fantastico, no?»
«Ecco, gli ho detto che è praticamente pronta. Chiavi in mano.»
«Che problema c’è?» ribatté Hayes. «Resta solo da pavimentare la cucina.» Non comprendeva il perché di quella nota di panico nella voce della donna.
«È che ha appena chiamato dall’aereo: verrà a vederla oggi, a mezzogiorno.»
Grandioso.
Hayes abbassò lo sguardo sulla valigia posata a terra, il biglietto per la Florida che spuntava dalla tasca laterale. Annabelle aveva acconsentito a fargli vedere Jack, quel weekend. Certo, ancora non si fidava a lasciarlo solo con il figlio, quindi ci sarebbe stato qualcuno a controllare, ma lui era pronto a cogliere ogni occasione gli venisse offerta.
«Sally, non posso. Sto partendo per…»
«Adam, hai lavorato tanto per arrivare a questo» lo interruppe lei, con un impeto che lo lasciò spiazzato. «I ragazzi del parquet hanno promesso di essere lì alle dieci e un quarto. Mi serve solo che tu posi il sottofondo.»
Scoccò un’occhiata colma di nostalgia al borsone, poi scrutò l’orologio alla parete. Erano le sei meno un quarto: se fosse uscito subito e ci avesse dato dentro poteva ancora farcela.
«Posso farcela.»
Caricò il compressore e il resto degli attrezzi sul retro della Chevy Suburban del ’66, premette il pulsante per far aprire il garage e uscì sul vialetto di ghiaia.
Svoltò sulla strada lungo la costa, la seguì scendendo dalla collina e prese il ponte sospeso che collegava la terraferma a Cliffside Island, proseguendo fino a trovarsi di fronte Cliffside Manor, incorniciata da due enormi pini. La proprietà nasceva dall’intraprendenza di Amy Harris, ereditiera locale che aveva messo le mani sull’isola per trasformarla in un’enclave per nuovi ricchi. Hayes poteva entrarvi solo perché aveva comprato Casa Smith a prezzo di occasione: il precedente proprietario aveva bisogno di incassare, quindi aveva venduto l’immobile a un valore inferiore a quello del mutuo.
Giunto al cancello, rallentò. Lo stridio dei freni della Suburban e il sorrisetto divertito della guardia che uscì dal gabbiotto gli ricordarono quanto fosse fuori posto, lì.
«Pensavo avessi il giorno libero» disse l’uomo controllando un portablocco.
«Mi ha chiamato Sally: ha un acquirente interessato a Casa Smith, e il tizio sta venendo qui a dare un’occhiata.»
«Nessuno mi ha detto niente.»
«Quindi che dovrei fare?»
«Va’ pure: ci penso io a siste...