15 giugno
Il pick-up di Colter Shaw percorreva un viale di ghiaia. Superò un cartello semplice e modesto, una scritta viola su sfondo bianco:
Shaw proseguì verso l’entrata principale, incuneata in una piccola strettoia all’interno di una formazione rocciosa alta quindici metri. Gli ricordò un’immagine del capolavoro letto e riletto da ragazzino: Il Signore degli Anelli. La minacciosa porta di ingresso a un qualche regno antico. Shaw notò che un’eventuale frana – naturale o artificiale – avrebbe bloccato in un attimo l’unica via di entrata e uscita per la Fondazione, almeno con la macchina. Aveva studiato con cura le mappe dell’area: non c’erano altre strade, neppure vecchi sentieri, che portavano al campo dell’organizzazione.
Dopo aver superato il muro di roccia vide una recinzione di metallo alta più di un metro e ottanta. Raggiunse la guardiola accanto al cancello elettrico. Una costruzione squadrata, tre metri per tre. Un camino spuntava dal tetto, cosa che gli fece capire che il cancello era sorvegliato a qualsiasi ora del giorno e della notte: al calare del sole si gelava in quella vallata, anche in estate. Ricordò che il campo della Fondazione era chiuso in autunno e inverno. Harbinger Road era di sicuro impraticabile per buona parte dei mesi più freddi.
Un uomo massiccio con pantaloni neri e una vecchia camicia grigia – una specie di tunica che gli arrivava a metà coscia – bussò al finestrino di Shaw. Aveva il classico auricolare ricurvo dei buttafuori e dei presentatori televisivi, e al fianco portava un walkie-talkie. D’istinto, Shaw esaminò l’uniforme, sempre ammesso che si potesse chiamare così, ma il vestito era troppo largo perché potesse scorgere il rigonfiamento di un’eventuale pistola. Sul petto la guardia portava un tesserino con su scritto: UNITÀ DI ASSISTENZA.
«Buon pomeriggio.» Un sorriso sereno, tranquillo.
«Salve» disse Shaw. «Ho un appuntamento.»
«Nome?»
«Carter Skye.»
Il guardiano consultò il suo touchscreen e ci picchiettò sopra. L’identità fittizia di Shaw venne confermata. «Piacere di conoscerla, signor Skye. Dunque, ha con sé armi, droghe o alcolici, o li trasporta all’interno del veicolo?»
«No. Solo vestiti, il kit per farsi la barba, le solite cose.»
Un altro colpetto sul touchscreen.
Sulla sua identità aveva mentito, ma aveva detto la verità sui bagagli. E aveva fatto bene, a quanto pareva, perché in fondo al parcheggio altri due uomini, sempre con la stessa uniforme, stavano perquisendo con grande scrupolo un SUV. Persino sotto il telaio: uno di loro muoveva qua e là un lungo bastone a cui era legato uno specchio. Era la tecnica con cui gli artificieri individuavano gli ordigni esplosivi, e gli agenti dell’antidroga le sostanze illegali.
Il guardiano tornò al Silverado e scribacchiò qualcosa su una busta. Quasi sicuramente targa e modello. Se avessero controllato – ma perché avrebbero dovuto? – avrebbero scoperto che il pick-up era stato preso a nolo da un’azienda. Una soluzione anonima, sicura, e niente affatto sospetta. Passò la busta a Shaw. «Parcheggi dove preferisce, lasci le chiavi infilate e superi il cancello principale. Là troverà un addetto che le farà da guida. Si ricordi di portarsi dietro la sua domanda di ammissione.»
«Capito.»
Il guardiano sfiorò di nuovo il touchscreen e il cancello si aprì con uno stridio attutito.
Dopo aver parcheggiato, cercò la domanda di ammissione e la infilò nella tasca interna della vecchia giacca a vento. Indossava una maglietta bianca tutta spiegazzata, blue jeans scoloriti, stivali Nocona logori, marrone scuro. Mentre prendeva i bagagli, guardò l’entrata del campo. La rete metallica non era l’unica protezione dietro cui si barricava la Fondazione Osiride. Shaw fissò l’alta staccionata di legno e le scure sbarre di metallo del cancello incassato all’interno. Sopra campeggiava una scritta in ferro battuto: PASSATO, PRESENTE, FUTURO.
I due battenti, larghi un metro e ottanta ciascuno, erano aperti. Li superò e un uomo lo salutò con un sorriso. Avrebbe benissimo potuto essere il gemello del primo guardiano. Gli prese la busta con le chiavi e i bagagli e lo fece passare attraverso un metal detector.
Shaw obbedì e si voltò a guardarlo. Il secondo custode gli indicò un sentiero e disse: «Prosegua fino al campo. L’ufficio dell’Amministrazione è il terzo edificio sulla sinistra».
Shaw allungò la mano per prendere lo zaino e la sacca da palestra.
«Ci occuperemo noi delle sue cose, signore.»
«Preferisco tenerle io.» Carter Skye era un tipo un po’ diffidente, a volte addirittura scostante.
«Sono in buone mani, signore.» Un altro sorriso. Più o meno. Il messaggio era chiaro: sui bagagli Shaw poteva anche metterci una croce sopra. Esitò. Poi abbandonò zaino e sacca in cambio di una ricevuta.
Il custode sfiorò il suo touchscreen.
Shaw seguì il sentiero per una trentina di metri, tra boschi fragranti di pini, eucalipti e gelsomini. Quando la vegetazione si diradò, si fermò a contemplare lo spettacolo che si apriva davanti ai suoi occhi.
Il campo della Fondazione Osiride era annidato in una valle di prati e boschi, una dozzina di ettari in totale. Su tre lati si innalzavano imponenti facciate di pietra; alla sinistra di Shaw, ossia a est, c’era una foresta battuta da una miriade di sentieri. Più in là , una ripida discesa. Anche se da lì non si riusciva a scorgere, dall’altra parte della scarpata c’era il grande lago che aveva visto sulle sue mappe. In lontananza, nel fitto della foresta, si intravedeva lo spettacolare panorama delle montagne.
Shaw notò una schiera di edifici, quasi tutti a un solo piano. Uno, il più grande, svettava all’estremità meridionale del campo. Tre piani, con una vetrata ottagonale a dominare la vallata. La struttura si trovava in fondo alla tenuta, a sud. Non era difficile immaginare chi ci vivesse.
Tutti gli edifici, dotati di tetti spioventi per prevenire i danni causati dagli accumuli di neve, ricordavano i rifugi di montagna stile casa in tronchi, ma non erano certo stati costruiti sul posto abbattendo alberi e segando il legno a mano. I pezzi erano troppo regolari, incastrati alla perfezione. Si trattava di prefabbricati, senza dubbio, Shaw se ne intendeva. Tutto il campo si poteva tirar su in un mese. E il conto sarebbe stato parecchio salato.
Pensava a quel posto come a un campo perché era così che veniva definito nel materiale pubblicitario che gli era stato recapitato insieme alla domanda di ammissione. Aveva da poco portato a termine un lavoro nella Silicon Valley, quello stesso mese, e adesso quella parola lo colpiva particolarmente: laggiù, i terreni delle grandi aziende venivano chiamati «campus», come nei college. La parola «campo» invece aveva un’altra connotazione. C’erano i campi estivi, ovvio, ma anche i campi di addestramento. Anche i campi di concentramento, se è per questo.
E poi – un pensiero che lo raggelò – Colter Shaw si rese conto che quelle parole arcuate di ferro battuto che sormontavano l’entrata richiamavano un’altra struttura infame del secolo scorso.
Quel posto era, allo stesso tempo, splendido e sconvolgente. Anne DeStefano lo aveva messo in guardia dalla Fondazione. Ma lui non poteva starne lontano. Non l’aveva detto alla deprogrammatrice che effettivamente era coinvolto a livello personale.
Adam Harper era morto per causa sua.
E inoltre adesso sapeva che la sua morte non c’entrava niente con la sparatoria alla chiesa. Quella era stata semplice legittima difesa.
Un periodo no capita a tutti, giusto? Stringi i denti e va’ avanti. La vita continua.
Ironiche, le parole scelte dal padre di Adam. Certe volte la vita non continua. Shaw lo sapeva bene.
Quella morte era una questione che doveva essere risolta.
C’era anche un’altra immagine che continuava a infestargli la mente: la Donna sul precipizio, l’unica persona tra coloro che avevano visto il corpo a mostrarsi devastata dalla tragedia. E poi il robusto conducente del furgoncino, le sue parole sprezzanti e secche… un rimprovero, era evidente. La donna che si ritraeva, disgustata, appena lui la sfiorava. Era in pericolo, come Adam? Per colpa della Fondazione?
Una minaccia mortale incombeva su di lei, e su altre persone?
La carriera di Shaw come cacciatore di ricompense – no, la sua intera esistenza – era incentrata sulla sopravvivenza. Vite da salvare. Vittime da ritrovare. Un uomo in fuga, un commesso o uno studente minacciati da un serial killer. Lui li metteva al sicuro. E invece adesso aveva fallito. Adam era morto. Doveva scoprire perché, e se qualcun altro era in pericolo.
Anche quel che stava facendo era diventato una missione, con l’unica differenza che stavolta non c’erano ricompense in ballo. Era lì per indagare e per salvare chiunque avesse bisogno di essere salvato. Se c’erano abusi e violenze da portare alla luce, non si sarebbe tirato indietro.
«Cerca l’Amministrazione, signor Skye?» Una voce alle sue spalle. Un altro tizio con la tunica grigia. Sorrideva anche lui. Con quegli occhi immobili, attenti. Studiò a lungo l’abbigliamento logoro di Shaw, anche se il metal detector aveva già escluso che avesse con sé armi o oggetti pericolosi.
E come fa a sapere il mio nome?
Il tablet, ovvio. Il nuovo guardiano si infilò il touchscreen in uno zainetto.
Shaw mormorò: «No, l’ho vista. Sto solo dando un’occhiata al posto. Bel panorama».
«Concordo.» Il tizio restò impassibile.
Shaw colse l’antifona – l’equivalente di un poliziotto che ti intima di circolare. Proseguì lungo il sentiero. Superò un edificio con l’insegna DEPOSITO BAGAGLI e un altro, più ampio: UNITÀ DI ASSISTENZA.
Il successivo era l’Amministrazione, più grande degli altri che aveva appena superato. Entrò nell’atrio immacolato e tirato a lucido. Una mora alla reception lo salutò. Sulla trentina, con lo stesso outfit di quelle che erano arrivate con il furgoncino da Highland Bypass per prendere Adam ed Erick: top azzurro, gonna nera.
E indossava una collana: un segno dell’infinito viola, proprio come quello che portava Harvey Edwards, l’assassino del giornalista di San Francisco. La prova quasi certa che era affiliato alla Fondazione. Di sicuro ce l’avevano anche i seguaci sul furgoncino, anche se quel giorno si trovava troppo lontano per vederla.
Lungo un corridoio alle spalle della ragazza, Shaw notò delle porte con delle targhe: ACCETTAZIONE, AFFARI, PIANIFICAZIONE, MEDIA. C’erano anche altri uffici, ma il corridoio era debolmente illuminato e non riusciva a leggere bene.
La ragazza consultò l’ennesimo tablet, e poi: «Signor Skye, la prego di entrare». Un cenno verso la porta ACCETTAZIONE.
Anche quella stanza brillava da quant’era pulita. Dodici metri per dodici, più o meno. Immagini ben poco originali di albe o tramonti sulle pareti imbiancate. Sul muro in fondo, una scritta in caratteri neri:
LA FON...