Marzo 1870
Regno d’Italia (Novara)
L’ufficiale giudiziario Leone Pompei non avrebbe saputo dire da quanto tempo era seduto lì, immobile, su quella panchina nel parco dei vecchi bastioni di Novara a fissarsi le ginocchia, dove un velo di polvere gli ingrigiva i pantaloni neri.
Guardava quelle due macchie chiare e non riusciva a pensare ad altro che al momento in cui se le era procurate. Al momento in cui si era lasciato cadere in ginocchio nel cortile del Municipio, davanti al prefetto, e gli aveva preso la mano, piagnucolando e cercando di baciargliela.
E non riusciva a sentire intorno a sé i rumori delle carrozze né dei venditori di rane, non si accorgeva dei passanti e nemmeno degli uccelli che ciarlavano tra loro sui rami dei platani secolari. Sentiva e risentiva soltanto, ininterrottamente, la propria voce lagnosa che implorava: “Vi prego, Eccellenza! Non rovinatemi! Perdono! Vi prego… perdono, Eccellenza!”.
Ed era così cristallizzato nella disperazione in cui era precipitato che non si mosse neanche quando l’aria fu scossa da un tuono e poi cominciò a piovere.
«Signore, vi sentite bene?» chiese un uomo in marsina che affrettava il passo per ripararsi sotto ai portici.
Leone Pompei sollevò il volto, a fatica, e incrociò lo sguardo del passante, ma senza realmente accorgersi di lui.
«Piove» disse il passante.
Leone annuì lentamente, senza metterlo a fuoco. «Sì…»
Il passante si dileguò in fretta. Leone abbassò la testa e tornò a fissare le macchie chiare sulle ginocchia.
E solo quando la pioggia, sempre più insistente, finì per lavargli la polvere dai pantaloni, Leone si alzò. Si guardò intorno, rinvenendo alla realtà, e si avviò a passi strascicati verso casa, senza fretta, a capo chino, come l’asino che fa ritorno alla stalla.
Mentre camminava si infilò una mano in tasca e sentì i due fogli di carta ripiegati in quattro che il prefetto lo aveva costretto a prendere perché ricordasse. E un affanno in petto lo costrinse a fermarsi, in mezzo alla strada, ansimando come dopo una corsa.
Estrasse i fogli. Il prefetto li aveva fatti copiare dal suo segretario appositamente per lui. Li aprì. La pioggia annacquò immediatamente l’inchiostro, trasformandolo in una guazza blu notte nella quale le parole si perdevano, lentamente. Ma Leone sapeva leggere ognuna di quelle macchie. Perché la sua vita stessa era ormai una grande macchia, indelebile nella sua anima.
«Aiuto…» disse.
E nonostante il suo aspetto repellente – le croste tra i capelli radi, la nevicata di forfora sulle spalle che la pioggia nascondeva parzialmente, il ventre tondo e prominente che tirava i bottoni del panciotto, le mani deboli dalle unghie tagliate a punta – a chiunque avesse avuto il tempo di osservarlo, a chiunque avesse avuto orecchio per la disperazione che colorava la sua voce, quell’uomo schifoso avrebbe ispirato comunque un po’ di pietà.
La frase con cui il prefetto l’aveva accolto gli risuonò in testa: “Leggete, idiota!”.
Quando la servitù di villa Odìn aveva denunciato la scomparsa della Contessa, la gendarmeria aveva accompagnato Leone a fare il sopralluogo e a inventariare i beni. E in quella circostanza erano venuti a galla due fatti gravissimi. Fatti di cui il prefetto aveva incolpato Leone Pompei. E non senza ragione. In particolare erano state raccolte due testimonianze, una della servetta che si occupava del piano inferiore e l’altra della donna di camera della Contessa.
“Il signore grasso” aveva testimoniato la servetta del piano terra, “era nel salottino privato con la Contessa e il suo figlioccio adottivo e le disse che avrebbe potuto sgomberare la casa con comodo dato che era lui che comandava e poteva fare come gli pareva e le fece intendere che se fosse andata a letto con lui, perché era giovane e bella, lui l’avrebbe favorita…”
Leone chiuse gli occhi e serrò la mascella. Era tutto vero. Era esattamente ciò che aveva fatto. Tornò a vedere la Contessa e la sua scollatura provocante. E tornò a sentire quell’impulso malato che l’aveva spinto ad agire. Di fronte alla seducente bellezza della Contessa, alla sua alterigia, qualcosa lo aveva fatto cadere. Si era visto negli occhi di quella donna che, pur rovinata, continuava a guardarlo con disprezzo, come a dirgli che lui non era alla sua altezza, che un omarino così insignificante non avrebbe mai potuto aspirare nemmeno a immaginare di toccarla. E allora aveva creduto di poter possedere la Contessa. E di umiliarla come lei lo stava umiliando. Aveva ceduto a quell’idea malata.
“Il ragazzino difese la matrigna sfidando il signore grasso con un coltello. Il signore grasso si spaventò e se ne andò, minacciando entrambi, mentre la Contessa lo insultava” si concludeva la testimonianza della servetta.
Il prefetto lo aveva squadrato e con voce stentorea, in modo che tutti i presenti sentissero, aveva aggiunto: “Vi siete fatto mettere in fuga da un ragazzino e da una donna. Siete un miserabile, un disonesto, un laido ciccione…”.
Tutti i gendarmi presenti avevano riso.
Leone ripeté a bassa voce la sentenza del prefetto: «Abuso di potere… corruzione… frode ai danni del Regno…».
Leone aveva messo un piede nel fango, senza rendersi conto che erano sabbie mobili. E ora stava irrimediabilmente sprofondando.
“Voi avete piegato gli interessi del Regno alla vostra spregevole libidine! Avete messo in secondo piano Sua Maestà il re promettendo illeciti favori!” gli aveva urlato in faccia il prefetto. Aveva afferrato l’elenco dei beni di villa Odìn. Li aveva sventolati in aria, con rabbioso disprezzo, e aveva letto la dichiarazione della donna di camera della Contessa: “All’elenco dei gioielli mancano almeno quattro anelli, uno con uno smeraldo grande come uno scarabeo, un rubino come un fagiolo, e due diamanti che da soli illuminavano una stanza buia”.
Leone lasciò cadere a terra i brandelli di carta di quelle due testimonianze che lo inchiodavano, che lo condannavano.
E per la seconda volta mormorò: «Aiuto…».
“Non vi occuperete più della questione Odìn” aveva sentenziato il prefetto con una voce così neutra che se si fosse trattato di un colore sarebbe stato trasparente. “Non siete più un ufficiale giudiziario del Regno. Siete assegnato, insieme al capitano Lonigro, alla ricerca della fuggiasca Contessa Silvia di Boccamara. E lo accompagnerete all’inferno, se necessario. Il capitano ha l’incarico di arrestare e consegnare alla giustizia la Contessa e voi farete di tutto per aiutarlo.” Il prefetto lo aveva fissato con una severità che rasentava la ferocia. “Il vostro stipendio è ridotto a zero. Avrete da dormire e da mangiare. Niente di più. Alla fine di questa vicenda sarete licenziato con ignominia e interdetto a vita da qualsiasi incarico. Adesso andatevene e presentatevi alla caserma domani alle undici.”
Era stato allora che Leone era caduto in ginocchio e aveva cominciato a implorarlo, cercando di baciargli la mano.
“Siete già fortunato” gli aveva detto sprezzante il prefetto. “O preferite che vi accusi di alto tradimento?”
Leone si portò una mano al petto, dove il cuore batteva all’impazzata.
Poi si avviò verso casa. Da sua moglie.
Mentre camminava, lasciando dietro di sé una striscia d’acqua che non diluiva né le sue colpe né le sue pene, cercava di mettere insieme una storia plausibile per spiegarle cosa era successo. Ma cosa avrebbe potuto spiegarle? Che aveva cercato di portarsi a letto la Contessa? E che per questo era stato radiato dal servizio? Che non sarebbe più stato in grado di provvedere al loro sostentamento? Come le avrebbe spiegato che erano rovinati a causa sua? Come avrebbe potuto guardarla in volto?
Ma si rese conto che non sarebbe stato capace di inventare qualcosa di plausibile. E che almeno a lei, almeno in quel momento tragico, doveva un po’ d’onestà.
«Oh Gesù! Sei fradicio!» esclamò la moglie vedendolo entrare nel loro modesto appartamento. «Che ti è successo?»
«Siediti» le disse Leone.
La donna – che come tutte le donne sapeva per istinto quando una disgrazia si stava per abbattere su di lei – si sedette.
Leone invece le rimase di fronte, a sgocciolare in piedi.
«Devi trasferirti da tuo fratello a Omegna» esordì. «E vendere questa casa.»
La moglie non chiese spiegazioni. Si limitò a guardarlo. Era brutto, scostante, bugiardo nel profondo, ottuso e anche disonesto, aveva sempre sospettato. In ogni caso, non aveva mai trovato nessun altro che la prendesse per moglie. E che non la incolpasse di non avergli mai dato un erede. Non era né un buon partito né un buon marito. Ma era tutto quello che aveva.
La pozza d’acqua ai piedi di Leone continuava ad allargarsi sul pavimento di cotto.
«Asciugo» fece la donna istintivamente.
«Stai seduta e ascolta» la fermò Leone. Ripensò al volto angelico della Contessa. E poi fissò i lineamenti sgraziati della moglie, abbozzati malamente, rozzamente, come se il Creatore avesse avuto di meglio da fare nel momento ...