Risulta quasi automatico, nell’immaginario comune, considerare Umberto Veronesi come il protagonista di numerose battaglie, tra le quali quella contro il cancro è certamente la più famosa e la più importante. Il suo nome è soprattutto riconducibile alla rivoluzione da lui portata nei campi della chirurgia (l’introduzione della quadrantectomia al fine di evitare la devastante mastectomia) e in quelli della ricerca scientifica e della prevenzione dei tumori, senza dimenticare i contributi etici e politici.
Per circa sessant’anni, da quando cioè l’oncologia è diventata una scienza sistematica, Veronesi è stato uno degli attori principali nel panorama internazionale della cura dei tumori. Ha raggiunto una serie di successi che hanno portato profondi cambiamenti al concetto stesso di sanità, trasformando le statistiche sulla guarigione dal cancro da disarmanti (due per cento a inizio del secolo) a incoraggianti (quasi sessanta per cento nel 2017); un nome importante, una mente brillante, una figura stimata, un sorriso rassicurante che trasmetteva fiducia.
Tuttavia, una delle sue fortune più grandi sembra essere quella di non avere mai incontrato il «morbo della solitudine», di non essere mai stato, cioè, unico e solo sul campo di battaglia, armato di bisturi o microscopio, ma di avere sempre avuto al suo fianco alleati importanti, sostenitori fedeli, collaboratori, amici e colleghi convinti della bontà delle imprese che assieme a lui stavano affrontando. Del resto, i generali educati da Sun Tzu nell’arte della guerra non avrebbero potuto vincere senza il proprio esercito, così come l’astuto Ulisse non avrebbe raggiunto Itaca senza i suoi marinai.
Nato il 28 novembre del 1925 da Erminia Verganti e Francesco Veronesi in una cascina alla periferia di Milano, Umberto ha potuto sempre contare sulla guida di grandi maestri e sul supporto di tanti compagni. Sarebbe, però, superficiale considerare quella del «mai stato solo» una semplice fortuna.
Come dimostrato nel corso della sua vita attraverso i suoi successi, una delle doti più affascinanti e vincenti come medico e professore è sempre stata la sua capacità di essere costruttivo, di tenere insieme i pezzi dei vari quadri d’esistenza (siano essi parti di Dna o équipe di collaboratori), al fine di rimarcare in positivo la logica degli eventi, delle situazioni, dei problemi. Una logica del tutto per tutti; un ordine d’insieme che coinvolgesse il maggior numero di persone, sia tra quelle che hanno bisogno di cure, sia tra quelle che sono chiamate a fornirle.
Proprio questo istinto di conservare, di formare, di reinvestire le risorse in nuovi progetti è la chiave di lettura più importante per analizzare le «tre anime» di Umberto Veronesi, i tre aspetti principali che hanno caratterizzato la sua carriera: l’anima scientifica, quella organizzativa e quella politica. Tre mondi che hanno influenzato tutta la sua vita, trovando di volta in volta equilibri diversi, sapendosi adattare alle necessità e alle situazioni storiche, trasformando le possibilità in energia raffinata da infondere alle proprie qualità, accompagnando quel ragazzo della cascina di Lambrate fino alle porte di Palazzo Chigi.
Non fu necessario aspettare la Seconda guerra mondiale affinché Veronesi incontrasse il suo più grande nemico, il cancro. Fin dall’infanzia, infatti, aveva abitato molto vicino all’Istituto nazionale dei tumori di via Venezian a Milano, che a quei tempi era chiamato con drammatico sconforto «il lazzaretto». Tuttavia, nella scelta di intraprendere la carriera medica pesò notevolmente la necessità di rispondere a uno dei quesiti più spontanei e infantili che ci siano: «Perché esiste il male?».
Durante la guerra, all’età di diciotto anni, Veronesi venne colpito da una mina. Arruolato con la forza a Milano e destinato a un reparto aggregato a una divisione tedesca, si ritrovò infatti in un campo minato vicino a Pistoia e, attraversandolo, saltò in aria assieme ad altri suoi compagni; dopo l’esplosione si risvegliò a Montecatini in ospedale, con numerose ferite da schegge.
Quell’evento tanto significativo rappresentò il suo primo vero incontro con il male in senso fenomenologico: il rischio di una distruzione totale della sua esistenza e la paura per tanta sofferenza lo spinsero a chiedersi se ci fosse un modo per prevenire una tale follia. Il primo desiderio fu quello di studiare psichiatria, al fine di comprendere le menti degli uomini, poi le cose andarono diversamente.
Finita la guerra e terminata l’università con il massimo dei voti, Veronesi decise di scommettere sulla sfida più difficile: invece della neurologia o della cardiologia, scelse la timida oncologia, la branca della medicina destinata ai rassegnati. Nel 1951 varcò la soglia dell’Istituto milanese dei tumori per affrontare, ancora fresco di laurea, il male più grande, quello più misterioso, illogico, devastante.
La peste ci ha sempre spaventato; ne parlano Tucidide, Manzoni, Camus, e l’Istituto di via Venezian era etichettato come «lazzaretto» proprio per rimarcare quella drammatica sensazione che il nome «peste» produce. Il male incurabile, il tumore, infondeva rassegnazione anche nel medico più bravo e lo trasformava inesorabilmente da razionalista a fatalista. Alcuni pazienti venivano mandati a casa a morire, altri subivano interventi così demolitivi che oggi sembrerebbero assurdi, altri ancora riponevano le loro ultime speranze nella radioterapia.
La fiducia di Veronesi nelle possibilità di successo dell’oncologia, invece di affievolirsi, si consolidò ancora di più; si trattava davvero di un male annichilente, di un qualcosa che andava compreso, studiato, curato, poiché, proprio come la guerra, anch’esso toglieva ogni speranza e procurava tanta, troppa sofferenza.
Sotto la guida di un ottimo maestro, il chirurgo Pietro Bucalossi (direttore dell’Istituto e poi sindaco di Milano), Veronesi iniziò a studiare la strategia migliore per ottenere risultati soddisfacenti, approfondendo gli studi di genetica e di biologia cellulare. Ciò fu possibile grazie a una borsa di studio presso quella «officina del Dna» che era allora il Chester Beatty Research Institute di Londra, lo stesso istituto di ricerca che annoverava tra i suoi scienziati i due premi Nobel James Dewey Watson e Francis Harry Compton Crick.
Nei primi anni Cinquanta, direttore del Chester Beatty era Sir Alexander Haddow, figura fondamentale per la formazione del giovane Veronesi. Sir Haddow si faceva portavoce di un’importante filosofia: la strategia di ogni ricerca scientifica poggia le basi sui paradossi. Il lavoro del ricercatore è noioso, abitudinario, talvolta banale, ma questo non deve lasciare spazio alla depressione e allo sconforto, anzi, è necessario comprendere che non si può avere tutto e subito, ma che la sfida è costante; essa nasce dall’intuizione, dall’ipotesi più paradossale, anche dalla fantasia, per poi essere ricondotta in un’ottica empiristica rigorosa, scientifica.
Con queste teorie, Sir Haddow aiutò il seme della determinazione a crescere nell’animo di Veronesi, il quale dimostrerà non solo di essere sempre pronto a ogni sfida, disposto a confrontarsi con qualsiasi campo d’indagine, ma, libero da dogmi e pregiudizi, alimenterà un’attitudine dinamica e adatta a qualsiasi questione di carattere scientifico, organizzativo, etico e politico.
Propenso ad analizzare ogni situazione, il ricercatore Veronesi non si spaventò di certo nel comprendere che l’origine del cancro sembrava quasi risiedere in un paradossale «eccesso di vitalità» della cellula e non in un suo istinto di morte. L’armonia prestabilita del corpo umano, così logica e perfetta come descritta nei testi sacri, era messa in scacco da una produzione incontrollata di cellule, a seguito dei danni al loro patrimonio genetico. Danni che, nel settanta per cento dei casi, derivavano da un agente cancerogeno presente nell’ambiente, come già si teorizzava agli inizi del Settecento con gli studi sulla pelle degli spazzacamini, i quali spesso si ammalavano di cancro a causa della continua esposizione alla fuliggine.
La biologia molecolare, la mappatura del genoma umano e la proteomica faranno poi passi da gigante proprio continuando a indagare su questa sovrabbondanza di vita che porta alla morte; l’aver compreso che alla base dello sviluppo del tumore c’è una disfunzione di uno o più geni è stata la prima grande rivoluzione.
Come agire in un processo tanto complesso? Scrive Sun Tzu nell’Arte della guerra: «La capacità di vincere dipende da noi, la possibilità di vincere dal nemico». E proprio questo terribile nemico concede una possibilità che permette di essere sfruttata. Si è scoperto con certezza che dal momento in cui un agente cancerogeno viene a contatto con il Dna cellulare a quello in cui compare il tumore passa un lungo periodo che potremmo definire di «incubazione». Proprio durante questa «lunga notte» del cancro è possibile agire, con la farmacoprevenzione, al fine di bloccare la cancerogenesi, assumendo un principio attivo o un elemento biologico specifico. Sarà proprio la prevenzione, quella capacità di vincere che dipende da noi, la prima grande convinzione di Veronesi, il quale non smetterà mai di riporre fiducia nella ricerca, auspicando un futuro che vedrà come protagonisti i farmaci intelligenti, mirati, studiati ad hoc per ogni tipo di cancro. Questa sfida è stata raccolta in modo particolare da un suo allievo, Andrea De Censi, che è diventato poi uno dei maggiori esperti mondiali sull’argomento.
Quel futuro, però, era ancora lontano negli anni Sessanta, quando l’attitudine generale non era quella del correggere, bensì quella del distruggere. Nel 1962, grazie a un’altra borsa di studio, Veronesi si reca in Francia, al Centre Léon Bérard di Lione, per approfondire nuove terapie chirurgiche nel trattamento dei tumori con il grande Marcel Dargent, perfezionandosi negli interventi al seno e alla tiroide.
Nel caso specifico dei tumori mammari, la tecnica più utilizzata era la mastectomia, ovvero l’asportazione totale della mammella, dei linfonodi ascellari e del muscolo grande e piccolo pettorale, a cui si aggiungevano intense sedute di radioterapia sul torace, sul collo e sull’ascella. Questo tipo d’intervento permetteva di fronteggiare i numerosi casi di carcinomi mammari e si presentava all’epoca come unica soluzione alla malattia devastante. Tuttavia, l’effetto che la mastectomia e la radioterapia procuravano sulla donna era altrettanto devastante: l’asportazione del seno e le dure sedute postoperatorie minavano definitivamente non solo la femminilità delle pazienti, ma il loro stesso vissuto, costrette com’erano a convivere per sempre con il ricordo di una piaga, di un male spaventoso che, in alcuni casi, poteva anche ripresentarsi da qualche altra parte del corpo. Infatti, l’azione violenta delle terapie era giustificata dal desiderio di debellare completamente il tumore, agendo in modo massiccio su tutta la zona malata, riducendo il rischio di nuove neoplasie in quella sede. Purtroppo, però, non sempre le cose andavano a buon fine e il tumore compariva altrove sotto forma di metastasi.
Fu tra il 1968 e il 1973 che Veronesi, interrogandosi sulla possibilità di correggere gli effetti della mastectomia, elaborò una nuova tecnica chirurgica dagli intenti conservativi; ancora una volta, si rivelò utile partire dal microscopio e, di nuovo, risultò indispensabile la presenza di un ottimo maestro: Piero Redaelli era stato per Veronesi, giovane laureato, una sorta di Socrate, capace di insegnargli a sfruttare l’arte del «non sapere», l’umiltà intellettuale e scientifica; in più, essendo professore di Anatomia patologica presso l’Università degli studi di Milano, lo aveva preparato a perseguire un’intuizione che si sarebbe rivelata estremamente innovativa.
Nel 1958 Veronesi, conseguita l’abilitazione alla libera docenza in Anatomia e istologia patologica, aveva appreso che c’era una fase in cui era ancora possibile contrastare l’avanzata del male: quella in cui le cellule si riproducevano in una forma poco aggressiva. In sostanza, se preso in tempo, il tumore non doveva considerarsi più così spaventoso e la sua dimensione (inferiore al centimetro e mezzo, stadio T1) rendeva credibile la possibilità di operare solo una parte della mammella conservando il resto e mantenendo un’immagine corporea di gran lunga più accettabile per la donna.
Le recenti scoperte attestavano una progressiva selezione naturale tra le popolazioni di cellule tumorali, in cui si affermano via via quelle più aggressive; per questo la diagnosi precoce può considerarsi la seconda grande rivoluzione della ricerca oncologica, una sfida contro il tempo che rende possibile bloccare e distruggere il nemico quando ancora è meno forte.
Il «male incurabile» offriva dunque un’altra possibilità di vittoria, che Veronesi sfruttò da un lato incrementando le potenzialità di pratiche diagnostiche già in uso da qualche anno, come la mammografia e l’ecografia, dall’altro concentrandosi sulla conservazione della mammella, sfidando così la prassi generalizzata della mastectomia.
Nella sua fase iniziale, il tumore poteva essere localizzato in uno dei quadranti che compongono la mammella: quindi la speranza era quella di poter intervenire solo su quest’area, ma ciò significava porsi in controtendenza rispetto all’opinione comune del tempo. Infatti, la comunità scientifica non accettò di buon grado tale ipotesi, che pareva quasi irresponsabile nei confronti di un male definito appunto «incurabile», capace di riproporsi anche dopo l’azione massiccia della mastectomia.
Veronesi fu biasimato e osteggiato, ma neanche in una situazione tanto critica si ritrovò da solo; i movimenti femministi degli anni Settanta, animati dal desiderio di vincere la malattia senza distruggere la propria femminilità, si pronunciarono a favore della nuova tecnica.
Per otto anni, settecento donne furono curate, secondo un ordine casuale, sia con la mastectomia sia con la «quadrantectomia» (tale era il nome della tecnica innovativa di Veronesi che prevedeva appunto l’asportazione di un solo quadrante della mammella), sempre accompagnate da sedute di radioterapia. I risultati, pubblicati nel 1981 sul «New England Journal of Medicine» si rivelarono più che incoraggianti, poiché confermavano che non c’era differenza di percentuale di guarigione tra le due tecniche: entrambe erano efficaci e praticabili. Il primato della mastectomia, che si poneva come obiettivo quello di salvare la vita, era stato superato dalla nuova quadrantectomia che non solo salvava la vita, ma anche la sua qualità.
Prima di aggredire con violenza, cioè prima del vero e proprio attacco, il tumore si prende del tempo e ci lascia una chance di vittoria; a noi spetta la prima mossa, con la prevenzione e con la diagnosi precoce. Il nemico ci offre una possibilità, noi dobbiamo avere la capacità di coglierla; questo, Veronesi non si stancherà mai di ripeterlo.
La sua vera scelta, quindi, fu quella della chirurgia, alla quale dedicò una parte preponderante della sua vita. «Forse non sarà mai possibile separare la scienza dall’arte,» era solito dire «il sapere dall’istinto, il dato biologico dall’emozione che suscita.» E forse per lui stava proprio in questo il fascino della chirurgia, la sua capacità di resistere ai continui tentativi di trasformarla in un puro esercizio tecnico, come se la massima aspirazione del progresso fosse la creazione di una specie di «chirurgo robot», in grado di ridurre al minimo il margine di errore umano nelle operazioni.
«Forse l’idea del chirurgo robot non è male» mi disse un giorno, con quel sorriso malizioso che gli veniva quando sapeva di mandare in confusione l’interlocutore «e come potenziale paziente ritengo che andrebbe perseguita...» Finse di prendere un appunto sulla sua agendina microscopica e aggiunse che ne avrebbe parlato con il capo del dipartimento di Informatica.
In effetti la chirurgia rappresenta un paradossale insieme di elementi fra loro diversissimi e, a volte, addirittura in contrasto. A cominciare proprio dal fatto che essa consiste nel compiere atti che in condizioni normali nuocerebbero enormemente alla persona distesa sul lettino operatorio, ma che invece sono finalizzati al recupero del suo stato di salute e del suo benessere.
Si diventa chirurghi quasi senza accorgersene. Si viene introdotti in sala operatoria dopo un bel po’ di preparazione teorica, ma di solito – la prima volta che si vede affondare il bisturi nella carne del paziente – si sviene. Se si capisce che si vuol continuare (e che si è in grado di farlo), si ritorna una seconda volta e si comincia a familiarizzare con l’ambiente, con l’odore di anestetico e di disinfettante, con lo sbattere dei f...