Il letto su cui mi sveglio è una zattera in mezzo alla tempesta. Apro gli occhi e sono disorientato, mi sento cadere, precipitare. La tachicardia e la nausea sono il risultato di questo naufragio.
Dove sono? Dove sto andando?
Come sempre, evado dalle domande affidandomi alla ripetitività. Prendo la camicia dalla sedia, annodo la cravatta, infilo l’abito e sistemo le rose ribelli dei miei capelli che provano a interrompere la monotonia giornaliera.
Come sempre, prima di uscire, butto l’occhio verso la finestra di fronte al letto, dalla mia stanza al terzo piano vedo l’alba. Il sole mi calma, mi ricorda che ho tempo per ogni cosa. L’unica montagna che riconosco è il Monviso: è esattamente come le montagne che disegnavo da piccolo all’asilo, in pratica un triangolo perfetto.
Anche oggi sono in ritardo. Essere in ritardo tutti i giorni non è così male, mi costringe a essere rapido, e mi distrae dalle domande della tempesta mattutina.
Esco in un tempo da record: dal letto al tram numero 4 in circa quindici minuti.
Una volta sul tram inizio davvero a svegliarmi. Schiacciato nella calca dei lavoratori me ne sto immerso nella rabbia. Gli occhi di tutti intorno a me sul tram si portano dietro una sorta di indignazione, conscia o inconscia, verso il signor nessuno che ha deciso per loro e che li costringe ad alzarsi e ammassarsi lì, sul 4.
Mentre attraverso la città con l’esercito degli ammassati, indugio con lo sguardo fuori dal finestrino: Torino mi fa sentire protetto. Strade con chilometri di portici sotto cui ripararsi, ampie piazze spesso piene di gente e le montagne intorno a fare da scudo.
Scendo alla mia fermata e proseguo a piedi, lasciandomi alle spalle la pensilina che mi vede tutte le mattine prima di iniziare il lavoro e tutte le sere quando volto le spalle alla fonte del mio sostentamento. Questa iperprotezione forse mi fa anche sentire in gabbia. Forse contribuisce alla sensazione di irrequietezza e inquietudine che mi accompagna spesso: cosa sto facendo? Perché? È la strada giusta quella che sto percorrendo?
Le solite dannate domande tornano anche oggi, scandite come sempre dalla tachicardia. Dovrei affrontare quest’ansia.
Eccomi sulla soglia del vuoto delle mie giornate, in questa zona industriale in cui si trova la ManiTò, una delle più importanti aziende produttrici di manichini d’Europa. Nessuno si ferma mai a pensarci, guardiamo i vestiti quasi senza vedere i finti corpi atteggiati in posizioni improbabili che li sostengono… Io invece sono costretto a non pensare ad altro che a questi insostituibili supporti per tutto il giorno.
Con una laurea in Relazioni internazionali avrei sperato in qualcosa di meglio, tuttavia, durante il colloquio per essere assunto come tirocinante prima e come apprendista poi, il direttore dell’ufficio vendite, un omone con gli occhietti scintillanti e la testa pelata, mi ha prospettato una posizione nella quale avrei esplorato tutti i mercati internazionali, parlando come se, fra il posto che mi stava proponendo e la posizione di ambasciatore Onu non ci fosse differenza.
D’altra parte, si sa, l’Italia è una Repubblica fondata sui tirocini: chi ero io, il neolaureato Tommaso Distinti, per oppormi a questo destino? Senza contare l’ultimatum dei miei genitori: o trovi qualcosa da fare o torni a casa… e quindi ho ceduto. Prima sei mesi di tirocinio con rimborso spese e ora un contratto di apprendistato, che mi consente di mantenermi.
Non faccio in tempo a levarmi la giacca che mi accoglie il benvenuto del capo: «Tommaso, il report sulle vendite che ti avevo chiesto ieri dov’è?».
«Buon… buongiorno!»
«Non è un buongiorno per niente se non mi tiri fuori immediatamente il report!!!»
Gualtiero De Sommi, il direttore vendite, come tutte le mattine, mette a dura prova il mio sistema nervoso. L’atteggiamento da imbonitore che aveva sfoggiato all’epoca del mio colloquio è scomparso quasi subito, lasciando il posto alla sua reale natura dispotica e aggressiva.
A testa bassa mi lascio cadere sulla sedia della scrivania. Accanto a me Giustina. Ogni volta che la guardo non posso fare a meno di pensare che ha un nome davvero appropriato: fa tutte le cose per bene, ma non troppo. Non si permetterebbe mai di prendere un’iniziativa che non derivi da un ordine del capo, e anche dopo una sfuriata è già pronta ad allinearsi con le esigenze di servizio.
Come Giustina, ha superato i quarant’anni anche Valeriano, l’altro collega con cui condivido la stanza e le giornate. A Valeriano non interessa modificare il suo tran-tran: segue le solite attività, nel solito modo, percorso da un brivido di novità per un modulo che cambia colore o per una modifica a una procedura.
Dovevo essere l’apripista verso il nuovo: nuove modalità di comunicazione e nuovi contatti verso il mercato estero. Già pensavo alle trasferte, alle presentazioni in inglese o spagnolo… non per niente avevo un bell’Erasmus a Granada che scintillava nel mio curriculum. Presto però le mie aspettative sono andate a sbattere contro il muro della realtà, un muro che aveva le sembianze di un omone con la testa pelata e gli occhi febbricitanti. Il mio capo, insomma.
Mi è richiesto di chiamare possibili clienti, fissare appuntamenti e strappare nuovi contratti. Ma in realtà non posso prendere iniziative in autonomia. All’inizio ci provavo ma… ricevevo risposte del tipo: «Hai chiamato XYZ senza dirmelo? No, quello lo dovevo contattare io… È uno importante!»; «Dài, andiamo dal cliente Tal Dei Tali, però, mi raccomando, lascia parlare me, tu ascolta e prendi nota».
Quando le cose non girano e la proprietà ne chiede conto, il sommo De Sommi entra in ufficio con fare bellicoso e si rivolge sempre a me, anche se sono l’ultimo arrivato.
Quando c’è aria di tempesta Giustina diventa piccola piccola e si trincera dietro i suoi conti, mentre Valeriano comincia a tirare in ballo procedure strane che conosce solo lui.
Quindi l’unico destinatario di fulmini e saette sono io.
Ormai sono piuttosto rassegnato: di solito ascolto la sua sfuriata con un’espressione amorfa, mentre la mia fantasia immagina infiniti modi per torturare e mandare a morte l’omone urlante: scimitarre, spade dalla lama frastagliata oppure il buon vecchio mitra… una raffica e via.
Anche se è novembre, oggi è una mattinata particolarmente luminosa. Il cielo fuori dalla finestra non lascia presagire la sfuriata, che invece arriva.
«Non è possibile, non è possibile! Siamo fermi…» sbraita il capo, rivolto a me. «Quanti clienti nuovi hai portato nelle ultime settimane? Dài, dimmi!»
Apro la bocca per rispondergli che mi ha da poco dato un noiosissimo compito che riguarda il riordino degli archivi e l’aggiornamento dei dati, ma la sua non è una domanda che prevede risposta.
«Te lo dico io quanti: zero! A volte sembra che ti piaccia lo zero. Zero è il tuo numero preferito? Vuoi vivere una vita da zero?»
I miei due colleghi ridacchiano, lui non si ferma.
«Come si fa ad andare avanti così? Ti ricordo che sei solo un apprendista. Il tuo contratto ha una data di scadenza, e se non si producono risultati non è detto che diventi un tempo indeterminato…» Ed ecco che parte il film nella mia mente: sciabole che danzano nell’aria dell’ufficio e colpiscono, il sangue che zampilla come nei film di Tarantino.
Mentre De Sommi continua a sbraitarmi contro, Giustina fa lo sguardo del tipo “Lo avrei detto anch’io”, mentre Valeriano l’espressione “Ci penserei io se non avessi tutte queste incombenze urgenti…”.
Quando la sfuriata finisce, Giustina e Valeriano non mi rivolgono neppure un’occhiata. Sanno che, in questi casi, è meglio lasciarmi perdere. Ho bisogno di uno stacco e allora emigro prima in bagno e poi alla stanza della macchinetta del caffè. Non c’è nessuno, per fortuna.
Scende il bicchiere, lo agguanto appena finisce di riempirsi.
Sono davvero incazzato, il cuore mi batte forte. Il caffè non è la cosa migliore da bere, visto il mio stato di agitazione. Dopo averlo finito, rimango incantato a guardare il bicchierino vuoto. Indovini e oracoli ci hanno costruito una carriera sopra: come sarebbe bello conoscere il mio destino, la risposta a tutti i miei dubbi, scrutando i fondi di caffè! Allora capisco: le macchie di caffè che vedo sono i miei dubbi materializzati.
La testa mi gira, in perfetta coordinazione con la mia tachicardia. Ma una parte di me comincia a tranquillizzarsi guardando le macchie. Che abbia bisogno di rendere reali i miei dubbi e le mie paure (forse posso chiamarli dubbi-paura), ascoltare me stesso, fermarmi?
Alzo lo sguardo e all’improvviso vedo un mostro con gli occhi sporgenti, completamente bianchi. Sorride in modo terrificante come se avesse delle pinze alle guance. Ha un aspetto umano e i muscoli pronunciati sotto una canottiera da culturista. Che cosa significa? E soprattutto cosa mi aspetta?
L’istinto è quello di fuggire via, il più lontano possibile. Ma alla fine (forse per curiosità o perché non sono un grande corridore), decido invece di restare qui e di capire chi, o che cosa, ho di fronte. E in che posto sono finito.
«Ehm… dove sono?»
«Dove non guardi mai, fenomeno! Dentro di te.»
«Cosa? Ma tu chi sei?»
«In realtà ci conosciamo bene, forse non ha...