30 settembre 1990
Giardino della villa di Giffoni, ore 23,55
«Se stavolta non ci fanno partire, giuro, sbaracco tutto quanto e me ne resto qui a farmi ammazzare» sibilo a mezza voce alla Franca, seduta in auto al mio fianco, per non farmi sentire dai bambini.
La frase è un po’ forte, lo ammetto.
Però, che cavolo, è il dodicesimo via libera che riceviamo. Gli altri undici se li sono rimangiati trenta secondi dopo. Una volta chiedono più tempo gli agenti di qui, un’altra la staffetta su in Toscana, un’altra ancora non torna il percorso concordato. Non avevano usato tutte queste accortezze una settimana fa, quando si sono presentati qui sotto con sirene e mitragliette alla mano. E via subito tutti quanti, uno appostato al terzo piano, gli altri alle finestre, due in giardino e un altro all’imboccatura del viottolo. Un casino tale che, dopo due ore, tutta Giffoni si chiedeva se fossimo terroristi o vincitori della Lotteria di Capodanno. Non hanno usato le stesse accortezze nemmeno l’altro ieri, quando hanno spianato i mitra in faccia al tizio che da un paio d’ore stava sulla sedia a dondolo, in fondo alla strada. Guardava e dondolava, dondolava e guardava. Si sono insospettiti e gli si sono piazzati di fronte.
Chi è, chi non è, cosa sta facendo. Quello se l’è fatta sotto, parola mia.
Mi ci scappa un mezzo sorriso. Ma basta un istante per farlo sparire. Basta che mi ricordi che ho trascorso una settimana con le finestre chiuse e le persiane sbarrate, che non faccio una telefonata da una settimana. Bastano i volti sbiaditi di Gerardo o Delli Cicchi, basta l’ansia di avere gente armata per casa.
Basta la paura.
Sì, perché sapete una cosa?
Quando il fastidio scompare, quando le rotture di coglioni cessano e subentra la noia, il silenzio, i pensieri, ecco, in quel momento compare anche la paura di essere minacciati, aggrediti. Io, la Franca e i bambini.
Anche per questo ce ne andiamo.
Saremmo dovuti partire alle 7, per la verità, ed essere già a casa dei miei suoceri in Toscana. Invece è mezzanotte, e siamo ancora a Giffoni. Non so se rendo l’idea.
Questo genere di cose mi fa impazzire, giuro su Dio. Mi pare quasi di essere tornato nella Questura di Agrigento. Questa gente gioca con la tua vita e nemmeno se ne rende conto.
Lascio la Franca e i bambini in auto. Smonto, faccio due passi nel viottolo, mi accendo una sigaretta. Cos’altro posso fare?
Alzo lo sguardo alla villetta che stiamo lasciando.
Non so se e quando ci rivedremo io e te.
Ma sì, cosa vuoi che gliene freghi a lei. Le case sono puttane, in fondo. Arriva una vecchia carampana, la riempie di comodini Art Déco, poltrone in velluto con gambe a capriolo, credenze laccate e assurdi ninnoli in ceramica, e lei è felice. La vecchia muore, entra un designer fighetto, tirandosi dietro le sue fisse in forma di egg chairs, lampade Castiglioni e radio Brionvega, e per lei è esattamente lo stesso.
Ecco, la villa di Giffoni ha tradito anche me.
Mi ha titillato con il suo enorme giardino, le orchidee fiorite e il suo viottolo all’ombra delle palme. Si è presa la mia fantastica sala da biliardo, il camino del salotto e il mio garage personale con tanto di Thema e Alfa 164 turbo. Si è presa i miei stupidi status symbol, e ora devo andarmene come un migrante anni Venti, con le valigie di cartone e infilando nel baule tutto quel che posso.
Butto un occhio sul retro dell’auto.
Ci sono dentro i vestiti della Franca, i giocattoli dei bimbi, le mie carte. C’è il cane acciambellato in mezzo.
A che diavolo ci servirà tutta questa roba, poi.
Non sappiamo nemmeno quale vita ci attenda. Voglio dire, non resteremo mica in eterno dai miei suoceri, no?
Di sicuro sappiamo come avremmo dovuto vivere qui, restando a Giffoni.
Una gran bella merda.
Ne abbiamo parlato proprio l’altro ieri insieme ai due questori, funzionari della Criminalpol, Cirillo e Pansa. Si sono presentati da noi a Giffoni e ce l’hanno detto senza mezzi termini. Signori, o ve ne andate di qui, oppure smettete di vivere come avete fatto fino adesso.
La Franca e io ci siamo guardati in faccia. Lo stesso pensiero negli occhi di entrambi. Ci volete dire sul serio che questa mirabolante rottura di scatole ha ancora margini di peggioramento?
Sì, ne avrebbe avuti eccome, restando a Giffoni.
Per esempio per mio figlio, che sarebbe dovuto andare a scuola scortato dagli agenti di Polizia.
Finora per noi è già stato un inferno. Possibile che questo surrogato di vita in cui ci dibattiamo da sei giorni rischi davvero di ingoiare la nostra esistenza?
Abbiamo dovuto tenere le imposte chiuse e le porte sbarrate. Pareva un assedio, ma là fuori non c’era un nemico. C’era solo silenzio. Pareva l’attesa di qualcosa, che da un momento all’altro dovessero risuonare la cavalcata delle Valchirie e il roteare delle pale di un elicottero. All’orizzonte, però, non c’era nessun istante fatale, nessun attimo decisivo, nessuno scontro finale. Un vuoto estenuante, che divora più della fatica e lascia tanto, troppo tempo per pensare. I poliziotti e i Carabinieri hanno finito probabilmente per comprenderlo, perché cercavano in tutti i modi di scusarsi della loro presenza, quasi di confondersi con l’arredamento di casa. Si sarebbero nascosti dietro le tende, se avessero potuto.
Eppure li abbiamo avuti di fronte a noi in ogni momento, gli occhi indulgenti e i mitra spianati. Qualcuno giocava pure con i bambini. C’era quel maresciallo, un po’ in là con gli anni, che continuava a prendere in braccio mia figlia, per divertirla come meglio poteva e canticchiarle qualche strofetta. Lei ridacchiava soddisfatta, non sembrava nemmeno accorgersi di tutto quello che aveva intorno. Non sapeva che sul tetto c’erano due dei migliori tiratori delle nostre forze dell’ordine a tenere sott’occhio la villetta e l’intero giardino. Non sapeva che la notte, in sala, un drappello di Carabinieri faceva i turni per vegliarci.
E poi mio figlio, il maggiore. Testardo come la Franca, già da piccino. Un giorno di inizio settimana fa i capricci, insiste per uscire di casa, per fare almeno un giretto in bici. I militari storcono il naso, ma la Franca e io stiamo dalla sua parte, ci impuntiamo. E che cavolo, non siamo mica prigionieri. Gli uomini armati cedono a un compromesso. D’accordo, fatelo scendere.
Due poliziotti si piazzano a un capo e all’altro della via. Nessuno intorno, tutto deserto, non c’è gente nemmeno ai balconi. Mio figlio pedala avanti e indietro sotto gli occhi dei due uomini. A tracolla, ovviamente, i mitra.
È vita questa?
Ritorna la sera, ritorna il qui e ora, ritorna il chiavistello della villa tirato.
L’orchestra delle cicale è un andante con brio che riecheggia in tutto il giardino.
La sigaretta, invece, è ormai prossima al filtro. La getto sul viottolo e la spengo. Eccolo qui, il mio addio ai monti, cara la mia Giffoni. Mai stato un poeta io, ma lo sapevi già.
A una decina di metri rimbomba una comunicazione gracchiante, e un agente accenna un conciso assenso.
Si parte, questa volta è ufficiale.
Monto in auto. Guardo la Franca e guardo i bambini, ormai appisolati. Una bella differenza rispetto allo scorso agosto, quando siamo partiti tutti e quattro per un bel viaggetto in giro per l’Europa.
Stavolta non c’è niente di bello, niente di allegro. Tocca guidare accorti e in campana, tocca immergersi nel buio, non dare nell’occhio e pregare che Montecatini arrivi in fretta sotto le ruote di questa schifosa Citroën.
Montecatini, sì. Perché, come dicevo, l’unica idea che ci si è affacciata alla mente è stata quella di andare a elemosinare un tetto dai suoceri. L’unico luogo immediatamente disponibile che non avesse niente, nemmeno una bolletta, intestato al sottoscritto.
Almeno il rombo del motore finisce inconsciamente per iniettarmi in vena due gocce di morfina.
Tranquillo, Piero. Sei in auto, sei alla guida. Sei nel tuo habitat naturale, ricordi?
Con noi ci sono cinque auto della Polizia di Salerno, e in ogni auto tre agenti, e per ogni agente un mitra e altro ancora. Siamo praticamente un commando. Un commando che non ha altra missione se non proteggere il viaggio notturno di un rappresentante di commercio, con famiglia al seguito, diretto dai suoceri.
Scuoto la testa.
Perlomeno da Caserta in poi, tutta questa gente se ne va per i fatti suoi, e noi ritroviamo il buon Natella. Rompiscatole pure lui, ma almeno ci vuol bene.
Così è.
Un’ora dopo eccolo ad aspettarci a lato di un vecchio distributore di benzina, poco distante dallo svincolo dell’autostrada. Da qui in avanti la nostra scorta sarà discreta, Giovanni ci seguirà a bordo di un’auto anonima, accompagnato da due agenti della Criminalpol in borghese.
Appena ci rincontriamo, Natella mi rifila una pacca sul braccio.
«Guarda chi si rivede.»
«Sì, ma non facciamone un’abitudine» scherzo io.
In realtà, sono felice di vederlo. Tutto questo trambusto mi ha messo addosso una bella ansia.
«Senti, Giovanni» gli chiedo mentre entrambi ci fumiamo una sigaretta, «ma ci saranno degli agenti lì sotto casa dei miei suoceri, giusto?»
«Nessuno.»
«Come nessuno? E io come cavolo…»
«Calma, lascia che ti spieghi.»
«E spiegami un po’…»
«Qualcuno che ogni tanto bazzica nei paraggi a controllare che non ci siano situazioni strane ci sarà, fidati. Ma non voglio che siano in troppi a conoscere le tue abitudini, d’accordo? Non un intero commissariato, questo è sicuro. Quindi scordati le ronde delle volanti. E non voglio nemmeno che capiti come a Giffoni, che arrivino a sirene spiegate a ricordare a tutto il quartiere che hai qualcosa da nascondere. No, niente di tutto questo. Tu te ne stai lì…»
«E chi si muove?» commento laconicamente.
«Tu te ne stai lì, esci il meno possibile, non ti fai chiamare per nome e cognome, e dici ai suoceri di tenere la bocca chiusa con tutti, senza eccezioni. Vedrai che tutto andrà bene.»
«Speriamo, Giovanni…»
Il viaggio scorre senza intoppi.
Soltanto a metà strada, durante l’unica pausa in autogrill, avvisiamo i genitori della Franca.
Inizialmente non capiscono, non sanno ancora nulla di quanto è successo. Poche parole e intuiscono che la faccenda è seria. In ogni caso, ci garantiscono tutta la loro disponibilità.
Poco prima dell’alba siamo a Montecatini.
Il padre della Franca dà una mano con i bagagli, la madre invece piazza un bel caffè sul fornelletto.
«Molto buono, signora. La ringrazio» commenta Natella tergendosi il labbro superiore con un dito.
«A proposito, Piero. Altro consiglio per te. Devi farti crescere i baffi, eh.»
«Grazie Giovanni, sto a posto così.»
Natella, co...