Questa è la storia della calda estate di Gigino Pestifero e della sua ghenga.
È una storia piuttosto avventurosa, perché Gigino era un ragazzo che non amava la vita tranquilla e, i guai, non aspettava che arrivassero per conto loro, ma andava a cercarseli.
Perché, e questo è bene precisarlo per evitare che vi facciate un’idea sbagliata del nostro ragazzo, il nomignolo «Pestifero» glielo avevano appiccicato gli altri ma, tirate le somme, Gigino i fastidi li procurava solo a se stesso.
Quindi non mettetevi delle strane idee in testa sentendo parlare di un ragazzo pestifero e di una ghenga: Gigino non era uno dei tanti piccoli teppisti che vanno tanto di moda oggi, uno di quei piccoli bulli che tentano nei loro giochi sciocchi e, spesso, crudeli, d’imitare i violenti, i “duri” dei film e dei fumetti di cui hanno piena la zucca.
D’accordo: Gigino era un bulletto, ma di quelli simpatici. Non da pensare che, se qualcuno lo infastidiva, andasse a piagnucolare dalla mamma: Gigino, quando era il momento di pestare, pestava e, quando il prepotente era molto più alto di lui, arrivava sempre ad ammaccargli il naso.
Unico suo imperdonabile difetto – quello, probabilmente, che gli aveva meritato il soprannome di Pestifero – era il suo dannato Leopardo.
Un Leopardo che, in ultima analisi, era poco più di un gatto in quanto si trattava d’una bicicletta a motore che si dava arie da motocicletta ma, tuttavia, riusciva a fare un fracasso quasi terrificante. Senza contare la dannatissima abilità con la quale Gigino manovrava l’infernale arnese e riusciva, con acrobazie da togliere il fiato, a fare drizzare i capelli a chiunque – pedone, ciclista, motociclista, automobilista – avesse la disavventura di trovarselo fra i piedi o fra le ruote.
La madre e il padre di Gigino lavoravano dalla parte opposta della città: partivano da casa la mattina presto e tornavano la sera. Gigino viveva, quindi, abbandonato a sé e, quando la scuola non lo teneva occupato, la sua casa era la strada.
Detto questo si capisce benissimo la ragione che aveva indotto Gigino e i suoi soci a riunirsi in ghenga. Ed è, poi, la stessa ragione che spinge tanti ragazzi a formare quei gruppi che, se spesso rimangono tali, molte volte, purtroppo, si trasformano in piccole bande di teppistelli.
È il progresso meccanico che richiama nelle città sempre maggiori masse dalla campagna e costringe le città ad allargarsi mostruosamente, divorando case coloniche, prati, boschi, frutteti, vigneti, come fa la lava quando esce dal cratere del vulcano.
È il benessere che permette anche alla gente modesta di comprarsi il televisore, gli elettrodomestici, l’automobile, di godersi gli spettacoli dei teatri, degli stadi, del cinema, di fare qualche scappata fuori città eccetera. Tutte cose bellissime ma che costano maledettamente e, allora, non solo il padre, ma anche la madre deve guadagnare e trovarsi un lavoro in una fabbrica o in un ufficio. Così, i ragazzi diventano come tanti pulcini che hanno perso la chioccia e si stringono l’uno all’altro, per scaldarsi fra loro.
Succede, insomma, come nei grandi allevamenti di polli: i pulcini, nati dall’incubatrice, si raggruppano sotto lampade elettriche speciali che emanano un dolce tepore come la chioccia, ma sono soltanto vetro e filamento metallico.
Qui bisognerebbe dire che, nel caso dei ragazzi, quelle lampade elettriche, quelle sorgenti di calore, sono costituite spesso da gente celebre – magari cantanti, o giocatori di calcio, o attori, o personaggi usciti dalla fantasia dei disegnatori di fumetti o dei soggettisti di film – ma questo è un discorso che non c’entra con la storia della calda estate di Gigino Pestifero e della sua ghenga. Il fatto è che io sono un “matusa” – come dite voi giovani – un vecchio di centomila anni, con candidi baffi lunghissimi che spazzano per terra e nei quali fanno il nido i passerotti: ma capisco che i ragazzi d’oggi debbono essere diversi da quelli dei miei tempi perché è diverso anche il mondo.
La piccola ghenga di Gigino Pestifero, volevo dire, si era formata perché si trattava di ragazzi troppo soli che sentivano il bisogno di stare vicini per scaldarsi il cuore.
E Gigino, il quale, pur non essendo né un divo né un campione né un tipo alla James Bond, possedeva una precisa e forte personalità, funzionava, nella ghenga, un po’ come quella famosa lampada che fa da chioccia ai pulcini. Era, cioè, qualcosa in più del “Capo”.
Con Gigino, la ghenga aveva un organico di sei elementi. Anzi, cinque e mezzo perché, fra i gregari, figurava anche un superminorenne chiamato Miko che arrivava, sì e no, ai tre anni. E ne parliamo subito così ce lo togliamo dai piedi.
Miko era il fratellino della Secca, la spilungona. La mamma della Secca, vedova da due anni, per tenere in piedi la baracca, doveva lavorare come domestica a ore in varie famiglie della città: e a Miko doveva badare la Secca. Quando la Secca era a scuola, Miko veniva affidato a una vecchia zia ma, il giorno in cui la vecchia venne ricoverata all’ospedale, la Secca andò a scuola con i libri sotto il braccio sinistro e Miko sotto il braccio destro.
L’insegnante scosse il capo:
«Non posso lasciarti entrare» disse brusco. «Perché non lo porti all’asilo?»
«Abbiamo provato: piange, urla, si rotola per terra, gli vengono le convulsioni. Miko vuole rimanere soltanto con me. Quando sta con me, è bravissimo. Se non può farmi entrare con Miko rimarrò fuori con lui.»
«Proviamo anche questa» borbottò l’insegnante.
Miko si rese conto della situazione e si comportò da vero gentiluomo. I ragazzi e le ragazze – si trattava di una classe mista – si distrassero un po’ dapprincipio: poi fu come se Miko non esistesse. Miko, infatti, venne ammesso in classe anche in seguito e andò a finire che il piccino, ignorato da tutti, passava il suo tempo giocando ai piedi della cattedra dell’insegnante.
Qualche volta, quando c’era compito in classe, Miko voleva partecipare anche lui all’esercitazione: ma, allora, era poco fastidio dargli un foglio, una matita rossa e blu, e poi dirgli: «Bravo!».
Naturalmente accadde un guaio: una mattina il bidello mise dentro la testa dalla porta, ansimò: «L’ispettore!» e scomparve. Mancava il tempo di allontanare Miko e l’insegnante, poveretto, diventò smorto. Per fortuna c’era lì, alla lavagna, Gigino Pestifero il quale, agguantato Miko, lo ficcò dentro il cestino della carta straccia ordinandogli:
«Stattene zitto e non muoverti!».
Miko, raggomitolato sotto la cartaccia, non si mosse e non parlò. E l’ispettore non si accorse di niente.
Questo non è un episodio molto interessante, ma bisogna ricordarlo perché, quando l’ispettore se ne fu andato, Gigino cavò fuori dal cestino Miko e gli disse solennemente:
«Miko, sei un uomo!».
E lo ammise nella ghenga assieme alla Secca che, fino ad allora, era stata respinta per via del Miko considerato da Gigino come un impedimento.
La Secca non era l’unica donna della ghenga: faceva parte della banda anche Lulù la Rossa: rotondetta e graziosissima, molto svanita, che si dava arie da “vamp” e da “pupa”.
Poi c’era Chico, il forzuto: un pezzaccio di ragazzo gagliardo come un toro, capace di disintegrare in pochi secondi un filone di pane lungo 55 centimetri.
Ultimo della ghenga, Asdrubale, l’intellettuale della faccenda: piccolo, grassoccio, occhialuto, sgobbone, fanatico divoratore di libri, primo della classe e ben sistemato a quattrini.
Asdrubale era l’unico intellettuale della ghenga. Mentre gli altri abitavano tutti in tristi casoni popolari, Asdrubale abitava in una bella e comoda villetta con ampio giardino. Suo padre aveva creato e dirigeva un laboratorio di medicinali e la moglie gli faceva da segretaria. Asdrubale, praticamente, era abbandonato come tutti gli altri: accudivano alla villa due persone di servizio, ma le persone di servizio non fanno famiglia.
Asdrubale era un ragazzo tremendamente pauroso e i suoi genitori non vedevano malvolentieri che il figliolo praticasse i ragazzi del quartiere. La strada, per particolari ragazzi, può funzionare da ottima scuola: e Asdrubale, appunto, era uno di questi tipi particolari perché tanto testardo e tanto convinto di pensare il giusto da non poter subire il malefico influsso di altri ragazzi. Figuratevi una sfera di ghisa in un cesto pieno d’uova: dure che siano, mai le uova potrebbero danneggiare la sfera di ghisa.
Però, come dicevamo, Asdrubale era un tremendo fifone: a parole era imbattibile ma quando qualcuno alzava la voce e mostrava i denti, Asdrubale diventava un povero pulcino nella stoppa.
Gigino lo chiamava Asdrubaluba, sporco capitalista e anche peggio: però, quando stava con lui, Asdrubale diventava “tabù”. E bastava il fatto di sapere che Asdrubale faceva parte della ghenga di Gigino per togliere ogni idea aggressiva ai violenti ragazzacci del rione. E Asdrubale era diventato un po’ l’ombra del Pestifero e lo seguiva fedelmente anche nelle imprese che personalmente disapprovava.
Adesso che abbiamo parlato un po’ dei personaggi di questa storia, bisogna parlare un po’ dell’ambiente nel quale vivevano e operavano. Ciò è importantissimo ai fini della nostra storia.
Quando si dice “grande città” o “metropoli”, chi non ci abita pensa al centro tumultuoso di Milano, di Torino: automobili, autobus, filobus, gente che corre da ogni parte, come formiche, negozi, grandi magazzini, insegne luminose e via discorrendo.
Ma questa non è la grande città industriale: questo è il suo nocciolo, è il suo centro convulso che fa un certo effetto soprattutto perché in vecchissime strade, in piazze e piazzette fiancheggiate o contornate da palazzi e monumenti che ricordano tempi lontanissimi, di cento, trecento, o mille anni fa, e lunghi, profondi e misteriosi silenzi e grandi spazi e, insomma, un mondo grandissimo, smisurato, si addensa la vita t...