Come diceva il nonno: «Per mangiare il cioccolato buono, bisogna prima assaggiare…».
Ci avevo sempre creduto, ma fino a quel pomeriggio del 24 agosto 2010, a quel caldo infernale e a quello strano desiderio di dissolversi nel nulla insieme al mio sudore, non avevo capito davvero cosa intendesse.
La sede del «Gazzettino della Bassa» era quasi deserta, fatta eccezione per un paio di ventilatori e altrettanti ragazzini, probabilmente stagisti-senza-diritto-alle-vacanze, nonché il direttore del giornale, apparentemente impegnato in qualcosa di grosso. Lo conoscevo da anni ormai, e neanche al bancone del bar perdeva l’espressione di chi sta per salvare il mondo.
«Eccolo lì, il mio apprendista giornalista preferito. Merlini, vieni qui, credo di avere un lavoro per te» mi disse senza alzare la testa, sventolandosi con un foglietto scarabocchiato.
«Sull’attenti, direttore!»
«Hai detto che vuoi occuparti di sport, giusto? Ed eccoti lo sport, il calcio, che poi è anche il più bello, vorrei dire.»
Mi passò quel post-it bagnaticcio, pieno di scritte e cancellature rosse e blu che, presumibilmente, doveva contenere le informazioni riguardanti la mia mansione. Riguardo il mio futuro.
Solo due parole si potevano leggere con facilità, vergate rigorosamente in maiuscolo.
«ATLETICO NORD?»
«Esatto, Merlini! Seguirai una bella stagione di Terza categoria!»
«…»
Sognavo la serie A, o almeno la B, la C… Insomma, un campionato di professionisti. Essendo alle prime armi, mi sarei accontentato anche della Lega Nazionale Dilettanti, Eccellenza, Promozione… Ma una discesa simile negli inferi del calcio, fino alla Terza categoria, non me la sarei immaginata.
Un passo ancora, e avrei curato la cronaca dei bambini che giocano nella piazzetta davanti a casa.
«Che ti aspettavi, di intervistare CR7?!» mi chiese alzando finalmente la testa.
«No, però…»
«Ascoltami. Tu oggi vai nella Bassa, a Borgoriso, a raccontare l’inizio di preparazione di quella squadra lì… l’Atletico Nord» concluse, dando un’occhiata furtiva ai suoi preziosissimi appunti. Evidentemente non ricordava il nome della squadra, che io invece già conoscevo.
«E… Merlini?»
«Sì, direttore?»
«Mi raccomando. Anche se forse non ci crederai, è un compito delicato!»
Al suono di quelle parole ebbi un sussulto che spezzò la monotonia del mio encefalogramma piatto.
Insomma, era sicuramente una squadra piccola, un compito un po’ striminzito rispetto ai miei sogni… Ma, alla fin fine, cosa poteva aspettarsi un esordiente trentenne e squattrinato come me, con un solo articolo all’attivo sul «Gazzettino», peraltro sulla sagra della polenta con le lumache?
Per il cioccolato avevo tutta la vita davanti, mi dissi. Quello era certamente il modo migliore per cominciare la mia avventura da giornalista.
La redazione distava quaranta chilometri dal piccolo paese di Borgoriso, non uno scherzo. Ma non mi avrebbero certo spaventato.
«Merlini! Oh!»
«Sì, sono qui» risposi, distogliendo la mente dai miei mille pensieri.
«Allora, sei contento?»
«Mai stato meglio, direttore! Vado subito!»
Mi buttai come un parà al primo lancio, chiudendo gli occhi e cacandomi anche un po’ sotto per l’emozione.
Fiero e automotivato, presi con orgoglio il badge che recitava «Giovanni Merlini, giornalista» e salii sulla Ford Fiesta del ’99. Un pezzo d’epoca adattissimo a un viaggio che sarebbe durato un quarto di secolo.
Ma viaggiare non era mai stato un peso, per me. Fin dalle elementari, se c’era una cosa che avevo imparato benissimo era che la parte più bella di una gita era il tempo che si passava in pullman, a fare cazzate con gli amici.
Quel giorno, però, niente pullman, niente compagni e niente cazzate. Eravamo solo io, la mia Ford Fiesta, un cd di Lucio Dalla e poi quel cielo di un colore indefinibile, le risaie, i moschini e flotte di trattori rombanti.
I miei pensieri si perdevano nei panorami paradisiaci della Bassa Piemontese.
Dopo un’ora di macchina nel nulla assoluto, finalmente un cartello all’orizzonte: BORGORIS, senza la O finale. Un simpatico vandalo della zona si doveva essere divertito a tradurre in dialetto il nome del suo paese.
L’ingresso principale dell’impianto sportivo comunale somigliava a uno di quei vialoni alberati che si trovano nei cimiteri; l’unica differenza era che, al posto di una bellissima strada asfaltata, bisognava proseguire su cumuli di sassi e buche.
Il cartello indicava che ero nel posto giusto, anche se trovavo strano che, a preparazione appena cominciata, ci fossero solo tre macchine nel parcheggio che costeggiava quello che, con tutta probabilità, era uno spogliatoio.
Taccuino alla mano, perché usare un computer portatile sarebbe stato un po’ da sguarone, scesi dall’auto, surriscaldata e bisognosa di un meritatissimo riposo, poggiando così i piedi sul suolo caldo e arido della Bassa. Era il tramonto ormai, ma faceva ancora un gran caldo.
Nell’aria c’era quell’odore di fine estate che si può sentire solo in campagna. Una gran puzza di merda.
E mentre cercavo di capire se avessi sbagliato posto, giorno o lavoro, una mano accompagnata da un vocione tetro mi si appoggiò sulla spalla: «Oh, tu! Sei nuovo?».
«No, sono il giornalista del “Gazzettino”, sono qui per l’articolo di inizio stagione!»
«Oh, porco mondo! Quest’anno mandano pure i giornalisti!»
Era un signore un po’ avanti con gli anni, sulla settantina, con rughe spesse e occhi azzurri. Avrei potuto ribattere e farmi sentire, ma dopo aver dato un’occhiata alle sue mani e al rastrello che stringeva in pugno, preferii aspettare qualcun altro.
Dopo alcuni istanti di suspense, i suoi occhi arrossati dalla polvere che scavavano nei miei, una voce molto più pacata e accogliente arrivò a soccorrermi.
«Non farci caso! Sarebbe capace di mandare via anche il papa in persona!»
Mi voltai e sorrisi. Di fronte a me c’era un omone sui novanta chili, barba folta e capelli tagliati al millimetro.
«Io sono Dario Lucciardone, sapevo del tuo arrivo, ho sentito poco fa il direttore!»
«Lucciardone… il bomber?»
«Eh-eh, qualche anno fa, ora mi godo la pensione dal calcio giocato! Ma sì, sono io!»
«Piacere mio!»
Per chi, come me, è cresciuto in provincia c’è la consapevolezza che esistano, negli interminabili pomeriggi d’infanzia, poche certezze. E allora talvolta, per passare la giornata, ci si aggrappa alle attività di genitori, nonni, zii. Ecco perché conoscevo bomber Lucciardone. Il mio sogno era sempre stato quello di diventare giornalista, così, nonostante qualche stagione sul campo, con tante panchine e pochi sussulti da campione, ho sempre inseguito la strada della carta stampata. Per questo cominciai presto a seguire il calcio, insieme a nonno Franco, che andava sempre a vedere le partite della Falcettese, una delle tante squadre disseminate nella provincia. Ed è lì che scoprii, come un piccolo Luciano Moggi, il mitico Lucciardone. In provincia era un’istituzione, il Paolo Rossi della Bassa, con i dovuti paragoni.
Fu anche per questo che lo fissai per quaranta secondi senza dire niente, per poi seguirlo verso quella che, con tutta probabilità, doveva essere la mia tribuna d’onore, il mio posto di lavoro.
«Guarda, io ti ho preparato questo tavolino, ci sono dei fogli, una penna… fai tu, facci fare bella figura!»
«Senz’altro!» risposi sorridendo.
Avevo immaginato quel momento per tutto il viaggio. Era come a un primo appuntamento, quando immagini, hai delle aspettative, ti regoli su come comportarti, e poi va sempre tutto all’opposto.
Fu una sensazione strana, ma bella.
Non sarei andato ogni domenica a San Siro per commentare prodezze fuori dal comune. Per il cioccolato buono, non ero ancora pronto.
Ma eccomi lì, fiero, con un badge di giornalista appena guadagnato e una fastidiosa mosca intorno alla penna.
Borgoriso, Stadio Comunale, 24 agosto 2010
Atletico Nord ai nastri di partenza