Troppa famiglia fa male
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Troppa famiglia fa male

Come la dipendenza materna crea adulti bambini (e pessimi cittadini)

  1. 288 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Troppa famiglia fa male

Come la dipendenza materna crea adulti bambini (e pessimi cittadini)

Informazioni su questo libro

La famiglia, all'origine della civiltà, oggi ne sta decretando la fine. È una crisi che investe l'intera società perché ciò che accade all'interno della famiglia ha rilevanza sul sociale e sul futuro dell'uomo. I genitori hanno rinunciato al ruolo di guida proteggendo all'infinito i figli: è il plusmaterno che nasce dal fallimento della cura e sospende il momento della responsabilità. La generazione che ha contestato sta crescendo figli e nipoti docili, pronti all'assoggettamento. Cosa è successo? I giovani che non dissentono permettono al fantasma mai sconfitto dell'antica tendenza dell'essere umano alla sottomissione di giocare la partita della vita al posto loro, rovesciandola in morte. Laura Pigozzi, psicoanalista autorevole, esplora in questo saggio come lo scacco della famiglia sia la radice di una tragedia sociale più vasta e ferocemente distruttiva. Attraverso il concetto di disobbedienza civile elaborato da Hannah Arendt, prende forma in queste pagine una inedita rilettura delle origini del totalitarismo che per la prima volta riesce a spiegare le conseguenze politiche della pulsione di morte freudiana e ci permette di riscoprire alcuni casi emblematici di rapporti genitoriali fallimentari, come quello di Hitler con sua madre. «L'adattamento di un giovane» ci ricorda l'autrice «ha sempre qualcosa di immorale» perché sia un soggetto che una comunità si fondano sulla divergenza. È nelle famiglie che i ragazzi dovrebbero allenarsi a trovare lo slancio verso l'esterno, diventando adulti. Fallire questa trasformazione significa condannarli a un'eterna infanzia, che apre le porte non solo ai dittatori bambini ma anche a quelli veri.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
Print ISBN
9788817148818
eBook ISBN
9788831801416
1

Il cittadino-bambino

Ogni psicologia è psicologia sociale

Per uno psicoanalista è essenziale studiare i fenomeni sociali in cui i soggetti sono immersi e che costituiscono gli oggetti delle fantasie, dei sogni e dei racconti ascoltati sul divano. Tutta la psicologia individuale è anche psicologia sociale, ci ricorda Freud.1 I costumi di una società sono leggibili, così come lo sono i sintomi di un soggetto: esprimono il livello di umanità raggiunto e le possibilità di trasformazione sia del singolo sia del collettivo. Lacan dice che «l’inconscio è la politica»2 e i sogni dei pazienti recano ben visibili tracce dei traumi sociali e degli avvicendamenti politici. Prima del Covid-19, un paziente entrò nel mio studio annunciando: «La seduta di oggi sarà molto impegnata da questa immagine», e intanto mostrava la copertina di un settimanale dedicata al movimento delle Sardine, che presentava un disegno in cui l’Italia era una sardina deformata e chiusa in una boccia di vetro alla cui sommità c’era del filo spinato. Fuori, le sardine libere nel mare incitavano la sardina deforme dicendole: «Qui fuori è bello, esci». Il paziente si sentiva come quella sardina imprigionata nella sfera di vetro, impaurito dalla aperta vita marina. Ecco un modo in cui il fantasma personale di un paziente – un fantasma di claustrofilia, cioè di quell’amore per il chiuso che facilmente si trasforma in luogo di detenzione circondato da fili spinati psichici, un fantasma che era centrale nella sua storia – si è agganciato alla storia contemporanea, attraverso un fatto sociale. In quel momento, il paziente ha sentito che la necessità di uscire da una situazione claustrofilica non era solo sua, ma del collettivo intero.3 Specialmente i pazienti che hanno attraversato il claustrum psichico, dovuto a genitori iperprotettivi e controllanti, durante la recente quarantena hanno prodotto immagini oniriche in cui il loro trauma personale si agganciava a quello generale: i loro sogni si sono riempiti di stanze buie in cui avveniva qualcosa di losco, dove qualcuno ansimava forte e tossiva, oppure il paziente veniva chiuso dentro casa e non poteva uscire se non da un cunicolo che però finiva in un punto cieco; ponti interrotti e strade chiuse – sono immagini classiche – si sono incupiti, in questo tempo, con dettagli angoscianti. Per chi aveva alle spalle una storia di claustrofilia, sono stati sogni importanti che hanno permesso di approfondire il tema, arricchito di elementi decisivi non ancora emersi. In uno di questi casi, il laboratorio del nonno artista, che costruiva oggetti in metallo e aveva iniziato il paziente alla musica, si palesò come luogo equivoco che si affollava di figure irreali. Fu attraverso l’analisi di questo sogno di chiusura che si poté comprendere meglio il ruolo delle figure ibride, metà cavalli e metà uomini, che avevano occupato a lungo la fantasia del paziente, e anche alcuni suoi blocchi nei confronti della musica che, peraltro, amava.
Molti i sogni di contagi, di bombe al museo, di inseguimenti con siringhe piene di sostanze letali e di incubi da luogo chiuso, come tapparelle elettriche bloccate e porte senza maniglie né buchi della serratura, religiosi di clausura, sogni di ambre con l’intruso interno. Tra le donne che avevano nella loro storia un passato di famiglia claustrofilica, i vaginismi sono diventati più severi in chi già ne soffriva, o sono insorti a simbolo di difesa scegliendo la serrata sessuale come discorso a partire dal quale chiedere aiuto.

Chi è il cittadino-bambino

L’angoscia per il contagio dovuta al Covid-19 si è manifestata anche nella reazione di chi ha ridicolizzato le misure di contenimento. Più precisamente, il cittadino-bambino, che è stato uno dei protagonisti del tempo pandemico, ha pensato di poter infrangere la legge immaginando di piegarla a un uso privato, ritenendo che a una norma condivisa fosse opponibile un proprio credo individuale. Il cittadino-bambino è il frutto più corrotto di un’educazione plusmaterna, quella che non prevede il sacrificio delle pulsioni, requisito minimo per entrare nel collettivo. È il bambino tiranno, a cui nessuno ha detto no: è lui che può diventare quell’adulto senza legge che interpreterà a suo piacere norme e divieti, ed è lui che troviamo al centro della tavola imbandita in mezzo al parco, con amici e familiari, in pieno decreto quarantena. Lo fa per sentirsi vivo, perché crede che la vita debba danzare sulla melodia stonata della propria pulsione privata.
Ha poca familiarità col collettivo e nessun rispetto per l’altro, non conosce le regole di negoziazione, ma solo la superba disparità tra sé e gli altri. Il senso civico non sa cosa sia: d’altra parte, come potrebbe istituirsi in lui la civiltà se il suo primo Altro, quello materno, matrice dei rapporti successivi, gli ha offerto una versione della vita senza limite alla pulsione, un’esistenza in cui il seno della madre ha propagandato quel consumo senza termine, ritrovato poi nella quotidianità neocapitalista? Come può introiettare una legge o tenere fede a un patto, se i loro corpi, dormendo insieme, condividendo sogni e umori, hanno avuto una storia dal tratto incestuale che ha facilitato quella evaporazione del padre di cui parla Lacan? Alimentato a latte e trasgressione, egli sparge intorno a sé, come un’infezione virale, il godimento mortifero in cui è stato allevato. Egli è il prodotto di una (in)civiltà senza padri, di un tempo plusmaterno che lo autorizza a vagare su un sentiero fuori dalla legge e dalle regole. Fuori dalla polis.
La pandemia ha svelato, con evidenza spaesante, la debolezza educativa del nostro Paese nei confronti del bene comune. Soprattutto nella prima fase, nel momento in cui si chiedeva un certo rigore etico, siamo andati incontro, disarmati, alla più scabrosa delle verità: è stato evidente che non si erano spese abbastanza energie nell’allevare cittadini e, così, sciami di individualisti allergici al sociale, contravvenendo alle disposizioni, hanno percorso la penisola, alcuni per raggiungere la casa dell’infanzia, altri per andare a sciare sulle Alpi e godersi l’ultima neve della stagione. L’incuria verso il collettivo ha indotto qualcuno a uscire di casa quando era sconsigliato, ad allestire picnic nei parchi pubblici e, non da ultimo, a insultare, credendo di non essere uditi, i professori che tenevano lezioni a distanza. Il cittadino-bambino nasce in famiglia, ne esce con difficoltà e, soprattutto, non cresce. Quanto, nei pensieri degli adulti, i figli sono stati immaginati come cittadini? Educandoli, si è mirato solo alla loro riuscita come singoli contro tutti, oppure li si è pensati come parte di un organismo più grande, preparandoli quindi a un impegno comunitario? Abbiamo chiesto loro solo fedeltà alla famiglia o li abbiamo educati a un’etica sociale? Li abbiamo messi nelle condizioni di elaborare psichicamente una regola? Di introiettarla? Claudio Magris ha scritto che «c’è una asciutta e dura poesia delle regole che dobbiamo imparare a rispettare, come il poeta rispetta l’endecasillabo».4 Senza regole non si producono che cose infantili, grezze, e certamente non si può concorrere insieme a un lavoro collettivo.
C’è anche un altro tipo di cittadino-bambino: è il bambino ipnotizzato, addestrato alla manipolazione, a obbedire, a farsi complice, a tradire, entrato nella logica del rapporto mafioso per compiacere il genitore plusmaterno, preso nel meccanismo del giuramento di fedeltà al genitore manipolatorio. Anche i gruppi mafiosi, retti da patres familias deviati, stanno sotto il modello di funzionamento plusmaterno, fuori limite, estranei alla legge paterna simbolica che regolamenta civilmente l’esistere. Il romanzo di Tara Westover, L’educazione,5 ne descrive un esempio. La Westover racconta la storia della sua famiglia, al cui centro c’è un padre, un fanatico mormone, che obbliga i figli a vivere realmente fuori dalla polis. La sua casa è isolata in una grande valle chiusa in Idaho, che ospita una discarica. Ai figli è proibito frequentare la scuola, anzi non devono nemmeno studiare, ma hanno l’obbligo di aiutarlo a recuperare i materiali della discarica per costruire ciò che servirà all’autarchia della famiglia quando arriverà la fine del mondo, attesa allo scoccare del nuovo millennio. Ai figli del fanatico mormone è impedito anche andare in ospedale, persino dopo le ferite e le ustioni patite a causa del lavoro in discarica: a curarli è la madre, pratica di erbe e di diagnosi energetiche con le dita. I ragazzi non hanno contatti col mondo, se non nel momento della messa, quando finalmente la protagonista può vedere gli altri bambini. Con loro, però, non riesce a stabilire alcun rapporto, un po’ per l’isolamento sociale della famiglia e un po’ perché è convinta, come dice il padre, che gli altri bambini le siano inferiori in quanto, frequentando la scuola, ne sono plagiati. Si accorge tardi che la plagiata è lei, la perfetta figlia ipnotizzata dal carisma paterno. Tara è la figlia preferita, la più intelligente, e non si sottolineerà mai abbastanza quanto può essere duro, per un figlio, dover corrispondere a quella predilezione. Quando Tara decide di portare il fratello, vittima di un incidente stradale e coperto di sangue, in ospedale invece che a casa, come avrebbe voluto il padre, dice di sé: «Non sono una brava figlia. Sono una traditrice»6. Ecco la logica mafiosa che sta sotto questo patto di predilezione.
I ragazzi Westover non hanno una vera vita, non solo a causa della claustrofilia del padre, ma soprattutto perché questi li ha privati del primo atto simbolico che si dona a ogni figlio, quello che decreta l’esistenza di ognuno: l’iscrizione all’anagrafe. Per lui, lo Stato non deve sapere della loro esistenza. L’atto del padre che nega ai figli l’iscrizione all’anagrafe del mondo sottolinea proprio il contrario, cioè quanto l’esistenza sia sempre pubblica.
Il padre di Tara è un religioso talmente estremo che non va d’accordo nemmeno con la sua stessa comunità. Egli interpreta a proprio modo quel grande libro – per nulla fanatico – che è la Bibbia, e di cui egli offre la propria unica, folle, autovalidata interpretazione. È un genitore manipolatorio, carismatico, legislatore assoluto del suo piccolo mondo: un distillato puro della posizione plusmaterna. Tara scrive di lui, prima di prendere la decisione di andarsene: «O rimanevo una bambina per sempre, eternamente, o lo perdevo»7, ed è precisamente la posizione infantile quella richiesta al soggetto da ogni potere plusmaterno. Tara, rimasta semianalfabeta fino a diciassette anni, oggi insegna in un’università londinese e ha sporadici rapporti epistolari con la famiglia d’origine. Ha potuto salvarsi dal genitore manipolatore e dalla madre, sua inconscia complice, attraverso l’unico mezzo possibile: la distanza, il taglio con la famiglia e l’oceano come separatore. La sua storia ci aiuta a capire che il figlio ipnotizzato non è per forza uno stupido, ma uno che cade nella malìa di un genitore sopravvalutato. L’intelligenza del padre è piegata alle proprie insane fissazioni e brandisce il Libro come un’ascia, piegando il sapere alla sua follia.
La manipolazione affettiva è la via maestra per la produzione di cittadini-bambini del tipo ipnotizzato, una categoria che verrà ulteriormente approfondita in un prossimo capitolo, Sudditi innamorati. Qui ci interessa mettere in rilievo che la sua genesi proviene perlopiù da un genitore manipolante, plusmaterno.
La manipolazione affettiva è ben conosciuta dagli operatori della salute dei minori ed è una pratica in cui i figli possono apparire come ventriloqui che parlano in vece del genitore manipolante, utilizzando persino le sue stesse parole. Non sono né amati né rispettati, non sono riconosciuti come esseri a sé stanti, ma soltanto come riempitori di quei buchi esistenziali che l’adulto non ha risolto o come armi per le sue guerre private.
Ci sono casi in cui la manipolazione è attuata da un genitore affetto da patologia psichiatrica, come è stato per Tara, ma essa non è sempre così lampante e può non essere rilevata con facilità dagli specialisti, come talvolta capita nelle cause di separazione. La manipolazione non è facile da diagnosticare innanzitutto perché i figli diventano complici perfetti, e poi perché esistono genitori psicotici ad alto funzionamento, magari perfettamente istruiti, che hanno l’abilità di passare da uno stato alterato a una maschera impeccabile spendibile con gli estranei, il tutto in una rapidità impressionante. Il potere carismatico di un genitore su un figlio può essere direttamente proporzionale alla sua problematicità psichica, come vedremo in un’altra incredibile storia vera che discuteremo più avanti, quella di Gypsy.
La manipolazione, chiunque la eserciti, è opposta alla funzione paterna, perché quest’ultima annoda corpo e parola, è analoga alla funzione del limite che promuove il sacrificio della cieca pulsione, in modo che il desiderio possa ripartire. Siamo nati “bucati”, non interi, non integri: dunque fare Uno con il proprio figlio – trattenendolo a sé – significa essere ancora gravidi di lui, significa non avere accettato il suo distacco, non riconoscere l’importanza della separazione che si produce con la nascita, la prima nella sequenza delle separazioni. Per accedere al simbolico occorre accettare che il “buco” ci marchi, cioè che la separazione si produca e si acquisisca, così che l’Uno appartenga solo al mondo immaginario dell’origine dei tempi, a uno spazio mitico, verso cui provare quel sentimento di nostalgia che si crea dopo il lutto necessario. Se non si accetta la perdita del figlio – che non è più mio, se mai lo è stato – si entra nella vera morte, che può risultare un punto cieco, non elaborabile, al contrario del lutto che invece è, nella sua essenza, possibilità di rinascita. Può apparire curioso, ma se un genitore accetta il lutto del figlio, cioè la separazione da lui, vive; se non lo accetta, muore. Chi manipola non accetta quel lutto e, incurante della legge, gode del figlio in maniera mortifera e per tutti paralizzante.
Ricordiamo, per inciso, che per i figli che lo subiscono il rapporto di tipo manipolatorio tenderà a instaurarsi con molta facilità nella vita successiva: lo potranno ritrovare nei legami di amicizia e d’amore, che diventeranno tossici, o nella relazione maestro-allievo, come pure nei rapporti di lavoro e nel transfert di tipo familistico, in cui non c’è il trasferimento di un solo tratto familiare sulla figura dell’analista, ma la ripetizione mortifera di un tipo di rapporto a dominazione plusmaterna.

Asylum

Nonostante le famiglie tendano a considerare i bambini come proprietà esclusiva, essi fanno parte della polis – in un certo senso sono della polis – e non solo perché saranno loro a doverla reinventare nel futuro che ci aspetta, dopo la frattura introdotta dal virus, che chiederà invenzioni in un tempo lungo. È necessario pensare in modo nuovo ai diritti dei bambini e degli adolescenti: non dobbiamo tutelarli solo in quanto figli, ma anche in quanto cittadini. Ci si dimentica troppo spesso che i minori non sono una proprietà privata, ma vivono in un collettivo: in questo senso, uno dei momenti bui della nostra storia recente è stato quando un numero considerevole di genitori si è opposto all’obbligo dei vaccini per i figli, come se questi ultimi fossero oggetti di proprietà, da confinare in casa. Faranno lo stesso con il vaccino per il Covid-19? Temo di sì. Molti, già all’epoca dei vaccini obbligatori, avevano aggirato la legge non mandando i figli a scuola e sottoponendoli alla claustrale homeschooling. Oggi un bambino gioca perlopiù con un altro bambino nella casa o dell’uno o dell’altro, con il figlio dell’amica della mamma. All’asilo, invece, i compagni non sono preselezionati dalle famiglie e, nella bellezza della varietà degli incontri, ogni piccolo è obbligato a formulare strategie di avvicinamento dell’altro che è lui, e non la mamma, a scegliere nel gruppo dei pari.
La parola “asilo” significa riparo, tempio, zona franca, luogo di tutela dei diritti per chi vi si rifugia. Viene dal latino asylum e dal greco ásylon, ed è uno spazio inviolabile senza diritto di cattura. Nemmeno psichica. L’asilo è riparo perché luogo in cui, giocando con altri, il bambino è temporaneamente risparmiato dalla fascinazione che il corpo materno agisce ancora su di lui. Confinato in casa non ha, invece, protezione rispetto al rapimento, reale e psichico, che esercita la madre, anche quando non lo vorrebbe. Sembra dunque una buona proposta di legge8 quella avanzata a fine 2019 che prevede di rendere obbligatoria la scuola dell’infanzia a tre anni, per consentire il diritto alla prima esperienza di collettività. Considera il figlio come oggetto di proprietà, e ne lede il diritto al sociale, quel genitore che lo sottrae all’asylum, cioè al suo primo luogo pubblico dove incontrare i pari, negoziare e calmierare gli egoismi individuali. Anche il nido è decisivo per un piccolo, ma questa idea non è ancora entrata nella narrazione sociale che, al contrario, esalta la simbiosi madre-figlio come vademecum per la sua esistenza: lo sarebbe se avesse un limite, un’etica, ma più spesso si protrae indefinitamente, rendendo i figli inadatti alla vita. I figli sono soggetti verso cui abbiamo il più importante dei doveri: metterli al mondo, cioè lavorare perché essi stessi possano pensare la loro polis futura. L’esperienza dell’esogamico, del non familiare, è il fondamento di ogni soggetto che dovrà vivere insieme ad altri.
L’asylum è la prima, piccola polis di ogni bambino.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Troppa famiglia fa male
  4. 1. Il cittadino-bambino
  5. 2. Il ritiro sociale
  6. 3. Addio capitalismo infantile
  7. 4. Stato materno o Stato paterno?
  8. 5. Il lato politico della cura materna
  9. 6. Il vandalo e lo zombie
  10. 7. L’ultima ora
  11. 8. L’originaria infezione dell’anima
  12. 9. La Terza Onda
  13. 10. Sudditi innamorati
  14. 11. La famiglia Hitler
  15. 12. Nell’inconscio del dittatore
  16. 13. Come si genera la barbarie?
  17. 14. Non solo madri
  18. Note
  19. Bibliografia
  20. Copyright