1
Risuonò un rimbombo che, seppure distante, fu abbastanza forte da penetrare gli strati più profondi del suo sonno.
Poi una serie di scricchiolii e tonfi metallici, e infine una folata d’aria fredda e un fascio di luce che ondeggiava. Echi di voci lontane, incomprensibili, ma decisamente umane.
Un angolino remoto della sua mente se ne accorse. Una parte primordiale, istintiva, che la spingeva a riprendere i sensi, incitandola ad aprire gli occhi… apri gli occhi!… prima che fosse troppo tardi.
Kira si sforzò di muoversi, ma il suo corpo si rifiutava di obbedire. Aveva l’impressione di fluttuare all’interno di se stessa, intrappolata dalla carne e incapace di controllarla.
Poi inspirò, e recuperò le sensazioni. I rumori si fecero molto più forti e nitidi, come se si fosse tolta i tappi dalle orecchie. La pelle le formicolò quando la maschera della muta le scivolò via dal viso, e allora boccheggiò e aprì gli occhi.
Un fascio di luce accecante la investì. Strizzò le palpebre.
«Porca miseria! È viva!» Una voce maschile, giovane, eccitata.
«Non toccarla. Chiama il dottore.» Una voce femminile, calma, risoluta.
No… il dottore no, pensò Kira.
La luce continuava a essere puntata su di lei. Cercò di schermarsi gli occhi con la mano, ma la trovò bloccata da un telo isotermico. Ce l’aveva avvolto intorno al petto e alla gola. Quando l’aveva fatto?
Un volto di donna le comparve davanti, pallido e rotondo come una luna butterata di crateri. «Riesci a sentirmi? Chi sei? Sei ferita?»
«Co…» Le corde vocali si rifiutarono di collaborare. Kira non riuscì a emettere altro che un gracchio inarticolato. Si contorse per liberarsi dal telo, ma ogni tentativo fu inutile. Allora si accasciò contro lo schienale, stordita ed esausta. Cosa… dove…?
La sagoma di un uomo ostruì la luce per un momento, poi lo sentì dire, con un forte accento esotico: «Si sposti, mi faccia dare un’occhiata».
«Aish» rispose la donna, facendosi da parte.
Dita calde, affusolate, cominciarono a tastarle le braccia, i fianchi, la mascella, poi Kira si sentì sollevare dal sedile.
«Wow! Guardate che razza di skinsuit ha addosso!» esclamò il più giovane.
«Guarderemo dopo. Adesso aiutatemi a portarla in infermeria.»
Altre mani la toccarono e la girarono; adesso aveva la testa rivolta verso l’airlock. Kira fece un debole tentativo di alzarsi, ma il dottore (o almeno lei presumeva che fosse il dottore), le disse: «No, no. Si riposi. Non deve muoversi».
Kira sprofondò di nuovo in quello stato confusionale dove alternava momenti di veglia ad altri di incoscienza, mentre galleggiava attraverso l’airlock… lungo un passaggio a soffietto pressurizzato… poi un corridoio marrone illuminato da tubi al neon scheggiati… e infine in una piccola stanza gremita di cassetti e apparecchiature… era un medibot quello sulla parete?…
2
Un sobbalzo di accelerazione la riscosse, e Kira riprese i sensi. Per la prima volta da settimane avvertì la magnifica sensazione del peso.
Batté le palpebre e si guardò intorno, ormai pienamente sveglia, anche se debole.
Era sdraiata su un lettino medico inclinato, con una cinghia di sicurezza che la teneva bloccata per impedirle di fluttuare o cadere. Aveva una coperta tirata fin sotto al mento, ma indossava ancora la tuta di volo. Tubi fluorescenti correvano lungo il soffitto; in un angolo era montato un medibot. La vista le riportò alla memoria il risveglio nell’infermeria su Adra…
No, questa era diversa. Al contrario di quella del campo base, questa stanza era piccola, poco più di un ripostiglio.
Seduto sul bordo di un lavandino di metallo c’era un ragazzo. Lo stesso che aveva sentito parlare poco prima? Era magro e allampanato, con le maniche della tuta verde oliva arrotolate sulle braccia nervose. Anche le gambe dei pantaloni erano arrotolate, lasciando intravedere i calzini a righe rosse. Sembrava poco più di un adolescente, ma era difficile stabilirlo con precisione.
Tra lei e il ragazzo c’era un uomo alto con la pelle scura. Il dottore, pensò Kira, notando lo stetoscopio che portava al collo. Le mani lunghe si muovevano esperte, le dita che guizzavano come pesciolini affaccendati. Invece di una normale tuta di volo, indossava un maglione a collo alto blu ardesia e un paio di pantaloni in tinta.
Le loro non erano uniformi standard, quindi non erano militari. E nemmeno uomini della Hydrotek. Professionisti a contratto forse, oppure lavoratori autonomi. Kira era sconcertata. Se non era finita sulla stazione mineraria, allora dove?
Il dottore notò la sua espressione. «Ah, è sveglia.» I grandi occhi rotondi la scrutarono seri. «Come si sente?»
«Non…» gracchiò Kira. Si interruppe, fece un colpo di tosse e riprovò. «Non male.» Sebbene sorprendente, era la verità . Si sentiva le membra anchilosate e indolenzite, ma tutto sommato stava bene. Anzi, per certi versi addirittura meglio di prima, come se i suoi sensi si fossero acuiti. Si chiese se la muta si fosse integrata ulteriormente nel suo sistema nervoso durante il viaggio.
Il dottore aggrottò la fronte. Sembrava un tipo ansioso. «È singolare. La sua temperatura corporea era eccezionalmente bassa.» Prese una siringa. «Devo prelevarle un campione di sangue per…»
«No!» esclamò Kira con più foga di quanto avrebbe voluto. Non poteva permettere al dottore di esaminarla, altrimenti si sarebbe accorto della Lama Morbida. «Niente analisi del sangue.»
Tirò giù la coperta, si sganciò la cinghia e scese dal letto.
Nell’istante in cui i piedi toccarono il pavimento, le ginocchia le cedettero e barcollò. Sarebbe caduta a faccia avanti se il dottore non fosse intervenuto a sostenerla. «Non si preoccupi. La tengo io. La tengo io.» La sollevò e la rimise sul letto.
Dall’altro lato della stanza, il ragazzo trasse una barretta energetica dalla tasca e cominciò a masticarla.
Kira alzò una mano, e il dottore indietreggiò. «Sto bene. Posso farcela. Mi dia solo un minuto.»
Lui le rivolse un’occhiata dubbiosa. «Da quanto era a zero g?»
Kira non rispose, ma scese di nuovo dal letto. Stavolta le gambe ressero, anche se appoggiò una mano sul letto per sicurezza. Rimase sorpresa, e compiaciuta, di come i muscoli funzionassero senza la benché minima traccia di atrofia. Ogni secondo che passava si sentiva tornare le forze.
«Circa undici settimane» disse.
Le folte sopracciglia del dottore schizzarono in alto. «E quando ha mangiato l’ultima volta?»
Kira fece un rapido controllo interno. Aveva un certo appetito, ma non era morta di fame come avrebbe dovuto. Si era aspettata di arrivare a 61 Cygni troppo debole per reggersi in piedi.
Doveva essere merito della Lama Morbida. In qualche modo l’aveva messa in ibernazione.
«Non ricordo… un paio di giorni, forse.»
«Porca miseria» mormorò il ragazzo con la bocca piena. Sì, decisamente la voce che aveva sentito sul Valkyrie.
Il dottore si girò verso di lui. «Hai qualche altra razione con te, vero? Danne una alla nostra ospite.»
Il giovane trasse un’altra barretta dalla tasca e la lanciò a Kira. Lei la prese al volo, strappò l’involucro e l’addentò. Aveva un buon sapore: banana, cioccolato e qualcos’altro. Il suo stomaco emise un sonoro gorgoglio quando inghiottì il boccone.
Il medico aprì un cassetto e le porse una sacchetta argentata di liquido. «Quando avrà finito di mangiare, beva questo. Serve a reintegrare gli elettroliti e le fornirà tutti i nutrienti necessari.»
Kira annuì. Divorò il resto della barretta, poi trangugiò il contenuto della sacchetta. Aveva un sapore terroso, leggermente metallico, come sciroppo arricchito di ferro.
L’uomo si fece di nuovo avanti con la siringa. «Mi scusi, ma devo insistere. Ho bisogno di prelevarle il sangue per…»
«Senta. Dove mi trovo? Voi chi siete?»
Continuando a masticare, il ragazzo rispose: «Sei sulla USL Wallfish».
Il dottore mostrò un certo fastidio per l’interruzione. «D’accordo. Il mio nome è Vishal, e lui è…»
«Io sono Trig» lo anticipò il ragazzo, battendosi una mano sul petto.
«Okay» disse Kira, ancora perplessa. USL era la designazione di una nave civile. «Ma…»
«Come ti chiami?» le chiese Trig con un cenno del mento.
Senza riflettere, Kira rispose: «Sono il guardiamarina Kaminski». Avrebbero scoperto il suo vero nome senza difficoltà se avessero controllato le registrazioni, ma l’istinto le aveva suggerito di andarci con i piedi di piombo finché non avesse inquadrato meglio la situazione. Avrebbe sempre potuto sostenere di essersi confusa per la debolezza. «Siamo vicini a Ciolkovskij?»
Vishal aggrottò la fronte. «Vicini a… No, tutt’altro, Ms Kaminski.»
«Siamo dalla parte opposta di 61 Cygni» specificò il ragazzo.
«Come?» esclamò lei, incredula.
Il dottore annuì. «Sì, sì, Ms Kaminski. La sua nave ha perso potenza non appena è tornata nello spazio normale, e ha proseguito per inerzia attraversando il sistema. Se non l’avessimo soccorsa, chissà per quanto tempo avrebbe continuato ad andare alla deriva.»
«Che giorno è oggi?» chiese Kira, sempre più turbata. I due la guardarono incuriositi; di certo si stavano chiedendo perché non usasse gli overlay per controllare la data. «I miei impianti non funzionano. Che giorno è?»
«Il 16» rispose Trig.
«Novembre?»
«Novembre» confermò lui.
Il viaggio era durato una settimana in più del previsto. Ottantotto giorni, non ottantuno. Avrebbe dovuto essere morta. Ma ce l’aveva fatta. D’un tratto le tornarono in mente Tschetter e il caporale Iska, e si preoccupò. Erano stati salvati? Erano ancora vivi? Avrebbero potuto morire di fame mentre lei era in viaggio sul Valkyrie, oppure essere stati uccisi dagli afferratori, e lei non lo avrebbe mai saputo.
Quale che fosse la verità , decise di non dimenticare mai i loro nomi e le loro gesta finché avesse avuto fiato in corpo. Era l’unico modo per onorare il loro sacrificio.
Vishal schioccò la lingua. «Più tardi potrà fare tutte le domande che vuole, ...