Come nasce un'epidemia
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Come nasce un'epidemia

La strage di Bergamo, il focolaio più micidiale d'Europa

  1. 192 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Come nasce un'epidemia

La strage di Bergamo, il focolaio più micidiale d'Europa

Informazioni su questo libro

Nella sciagura di una pandemia che non ha risparmiato nessun angolo della Terra, il caso della provincia di Bergamo costituisce una tragica anomalia. Lo si comprende facilmente anche solo con un dato numerico, + 464% dei decessi rispetto alla media degli anni precedenti, l'incremento più alto al mondo. E lo abbiamo compreso tutti anche troppo facilmente dalle immagini dell'ospedale Papa Giovanni XXIII trasformato in una bolgia infernale o da quelle dei camion militari carichi di bare che portavano i defunti fuori dalla regione perché i forni crematori non riuscivano a sostenere il ritmo. Tutto questo è accaduto in una delle zone più prospere d'Italia dove si pensava inoltre di poter contare su un sistema sanitario d'eccellenza, quello lombardo. Come è stato possibile? Dopo aver seguito in diretta, giorno dopo giorno, l'emergenza, Imarisio, Ravizza e Sarzanini sono tornati in Val Seriana, ad Alzano Lombardo, a Nembro e nella stessa Bergamo per riprendere le fila di quanto è successo, rintracciando responsabilità ed errori di quella che non è stata una fatalità. A questo scopo recuperano le testimonianze dei medici di base che già all'inizio di gennaio avevano lanciato i primi allarmi rimasti inascoltati, ricostruiscono, ora dopo ora, gesti e (talvolta mancate) scelte che hanno fatto dell'ospedale di Alzano il più terrificante detonatore del virus e poi, a seguire, raccontano il colpevole rimpallo delle decisioni mentre la gente si ammalava e moriva. A tutto questo aggiungono le storie toccanti di chi invece non ha avuto paura di sacrificarsi per salvare vite altrui e le drammatiche voci inedite di chi ha perso i propri cari in una condizione di assoluto abbandono, impensabile nel XXI secolo. I fatti di Bergamo non possono essere dimenticati. Questo libro, accuratamente documentato, li fotografa e cerca di interpretarli nella speranza che in futuro non vengano più commessi gli stessi errori che li hanno provocati.

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VII

J’accuse

10 storie vere
È solo leggendo il calvario che hanno vissuto gli abitanti della provincia di Bergamo, ascoltando le loro voci mentre raccontano la vana speranza, lo straniamento, il lutto patito in solitudine, che si può capire cosa sia accaduto. In quale dramma siano precipitati artigiani, commercianti, casalinghe, madri, padri e figli. Così, da un giorno all’altro. Prima le cose andavano come al solito, e in un istante, su queste tranquille vite di provincia, si abbatte una specie di apocalisse privata, le certezze che crollano, l’ansia di avere mille domande da fare e la frustrazione di non ricevere alcuna risposta, mentre si sta provando il dolore più grande, la perdita di un proprio caro.
I duecento esposti presentati alla procura della Repubblica dal comitato Noi Denunceremo formato dai familiari delle vittime del Covid-19 rappresentano un grande esercizio di memoria collettiva. Ma non è vero che queste persone stiano scrivendo di fatto la storia dell’Italia di questi mesi. Sarebbe bello poterlo dire, e spiegare che c’è condivisione, che la visita del presidente della Repubblica rappresenta un tributo destinato a durare. Non è così, non lo è mai stato, tantomeno adesso, quando ormai il resto d’Italia sta andando in un’altra direzione. Verso un futuro qualunque purché ci allontani da un passato così atroce che ci obbligherebbe tutti a porci le stesse domande che ci hanno accompagnato mentre guardavamo le immagini dei camion militari carichi di bare.
In questi racconti ci sono gesti di eroismo e di paura, c’è una rabbia che non può lasciare indifferenti, da parte di persone che chiedono innanzitutto di non essere dimenticate. Quando parliamo di Alzano Lombardo e Nembro, dell’ospedale e della mancata istituzione della zona rossa, del governo nazionale e della Regione, parliamo di questo. Persone, esseri umani, vite interrotte all’improvviso. Sembrano passati anni, ormai. In giro c’è tanta voglia di dimenticare. Ma è appena ieri.

IL DUBBIO

Mio padre è morto il pomeriggio di sabato 14 marzo 2020, da solo, senza nessuno che gli stringesse la mano. Se n’è andato in un ospedale della “eccellente” sanità lombarda, lasciando un vuoto incolmabile nella nostra famiglia. Io e mia madre vorremmo solo sapere chi dobbiamo ringraziare.
Papà aveva solo 73 anni, non era ancora la sua ora, non così. Aveva qualche disfunzione legata all’età come il diabete, che grazie a farmaci adeguati e alle cure della mamma riusciva a tenere sotto controllo conducendo intanto una vita attiva e piacevole. Andava ogni giorno a camminare e un paio di volte alla settimana a ballare. Era solare, acuto, rispettoso, amava stare in mezzo alla gente e aveva una parola gentile per tutti. Faceva parte della generazione del boom economico che con tanto lavoro ha contribuito a ricostruire l’Italia regalandoci quel benessere di cui abbiamo goduto finora.
Ha iniziato ad avere febbre venerdì 6 marzo e nel giorno successivo, progressivamente, diarrea, nausea, inappetenza e spossatezza intensa. Pur essendo un omone con un fisico massiccio, all’improvviso faticava a camminare.
Domenica 8 marzo, chiamiamo l’ambulanza perché è in evidente stato di sofferenza. Arrivato in Pronto soccorso, siccome non aveva febbre alta in quanto gli era stata somministrata la tachipirina, lo “mollano” in strada, tremante e infreddolito. Nonostante la nostra richiesta, non gli viene fatto il tampone, anche se sulla lettera di dimissioni è scritto il contrario. La diagnosi è gastroenterite. Torniamo a casa e telefoniamo al numero verde della Regione Lombardia. Ci dicono di metterci in contatto con il medico di base, che non risponde. Giovedì 12 marzo richiamiamo l’ambulanza e papà viene ricoverato tra gli isolati. Il giorno dopo riusciamo a parlare con un medico che ci comunica che non è messo bene ma è stabile. La mattina di sabato 14 un altro dottore ci telefona, ci dice che è con il cellulare di un degente lì vicino, ce lo passa… papà risponde a monosillabi ma mia madre e io siamo contentissime, gli diciamo che appena possibile lo andremo a prendere, di non preoccuparsi.
Dopo qualche ora, ci richiamano dicendo che le cose non vanno bene, chiediamo se è stato intubato o se ha un respiratore, ma il medico ci risponde chiaramente che hanno appena intubato un ragazzo di 44 anni e lui no, ha varie patologie, gli stanno somministrando morfina, comunque non soffre… Capiamo che hanno fatto una scelta spaventosa. Mia madre ribatte domandando se hanno deciso di lasciarlo morire. La risposta è evasiva, la scusa è che ha alcune patologie.
Sabato pomeriggio ci informano che è morto e che appena avranno l’esito del tampone ce lo comunicheranno. A noi dicono di misurarci la febbre ogni giorno e di rimanere in isolamento volontario per quattordici giorni. Più sentito nulla e nessuno.

DA UN REPARTO ALL’ALTRO

Martedì 18 febbraio 2020 accompagno mia madre all’ospedale di Piario (Bg) per una visita di controllo dopo cicli di chemioterapia a seguito di un tumore ai polmoni. Il medico decide di ricoverarla per farle fare delle radioterapie e contatta l’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, da cui comunicano che c’è subito il posto disponibile. Domenica 23 febbraio con il mio compagno e mio figlio di sei mesi partiamo dalla nostra abitazione di Costa Volpino per andare a trovare la mamma. Con lei siamo d’accordo che uscirà dal reparto di Oncologia affacciandosi nell’atrio di fronte all’ascensore, dove ci sono delle poltroncine. Così ci potremo vedere tutti senza che il bimbo piccolo metta piede all’interno del reparto.
Alle 14 circa io, il mio compagno e mio figlio raggiungiamo l’ospedale di Alzano, notando subito diverse persone che chiacchieravano tra loro, sedute su un muretto nel parcheggio dei dipendenti, e poi altre fuori dall’ingresso principale dell’ospedale. Entriamo dalla porta scorrevole e ci fermiamo alle macchinette del caffè al piano terra, dove sono presenti anche alcuni infermieri con mascherine che bevono un caffè. Io e il mio compagno subito abbiamo una sensazione strana, non abbiamo mai visto prima d’ora persone con mascherine nell’atrio di un ospedale. Dietro di noi arriva un’altra coppia con un passeggino, che mi chiede dove si trovi il reparto di Pediatria, ma non so rispondere. Nel corridoio sono presenti altri infermieri con mascherine un po’ agitati, che ci vedono ma non ci dicono niente. Prendiamo l’ascensore, arriviamo alla porta del reparto di Oncologia, trovandola chiusa a chiave. In quello stesso momento ricevo un messaggio vocale di mia madre (ore 14,10) che riporto: «Ciao, non so dove siete, ma niente, han detto che non fanno entrare nessuno per boh, non ho capito, di là al reparto Medicina probabilmente c’è qualche cosa che non va… mi spiace, non so dove siete arrivati, ma qua hanno bloccato tutti, i parenti quelli che c’erano qua li hanno fatti uscire e non sanno neanche poi stasera se li faranno entrare…».
A quel punto usciamo immediatamente dall’ospedale un po’ spaventati pensando subito che, dato il periodo, si possa trattare di Covid-19. Preciso che usciamo noi da soli, senza che nessuno degli infermieri presenti ci dica nulla. In effetti, l’ospedale in quel momento non è ancora stato chiuso. Nell’uscire ci sono di nuovo medici e infermieri sul muretto del parcheggio e dipendenti, che probabilmente aspettano indicazioni su cosa fare per il cambio turno.
Dal 23 febbraio mia madre è rimasta chiusa in reparto senza poter vedere più nessuno e senza fare le radioterapie, che sono state sospese, continuando solo le cure che portava avanti anche normalmente a casa. E così passano i giorni, la sento tramite messaggi scritti e vocali, telefonate, videochiamate, e sembra tranquilla. La voce è un po’ rauca, a volte mi comunica di avere qualche linea di febbre. Durante i nostri scambi, mi parla anche delle infermiere che si lamentano e continuano ad andare a chiedere in direzione le mascherine, ma non ce ne sono più. Mi parla anche di diversi medici con tosse che effettuano il giro visite dei pazienti entrando in contatto con gli stessi in quel reparto. Mi racconta che in Oncologia, oltre alle solite infermiere, ce ne sono altre provenienti da reparti diversi.
Il 4 marzo alle 9,24 la mamma mi invia un messaggio WhatsApp vocale per dirmi che l’esito del tampone è positivo. Decido di telefonare all’ospedale per parlare con un medico e capire la situazione. Ma appena passano la chiamata salta la linea, così per sei volte. Alla fine non riesco a parlare con nessuno. Nel pomeriggio, mia madre e un’altra signora vengono trasferite dal reparto di Oncologia a quello di Medicina Generale, in due stanze diverse. Lei mi comunica inoltre che il reparto di Oncologia è stato chiuso. Il 7 marzo ricevo la prima chiamata dall’ospedale, in cui la dottoressa mi dice che la mamma prima ha avuto una polmonite batterica e poi ha contratto il virus, e la descrive come una situazione critica. Il giorno dopo mi passano invece un medico che la visita per la prima volta e sostiene che la trova bene e che risponde alle terapie, perciò lui non capisce perché i colleghi abbiano scritto altre cose.
Ma il mattino seguente vengo ricontattata dall’ospedale che mi comunica che le condizioni della mamma sono ulteriormente peggiorate. In seguito, mia madre fatica a rispondere ai messaggi sia scritti che vocali. Nei pochi vocali che mi invia negli ultimi giorni, si sente la forte mancanza di respiro. Il 12 marzo le scrivo per augurarle il buongiorno e lei mi risponde quasi subito, diversamente dagli altri giorni in cui lo faceva solo verso sera. Mi scrive che ha bisogno dei cambi, allora le dico che troverò il modo di portarglieli. Poi aggiunge che deve mettere il telefono sotto carica. Questa è l’ultima volta che ho comunicato con lei.
Dopo cena le mando la buonanotte, che lei non ha mai letto. La mattina seguente mi contattano dall’ospedale e mi informano che è stata sedata. Il 15 marzo alla mattina telefono di nuovo come faccio tutti i giorni, ma mi dicono di provare più tardi perché la dottoressa sta facendo il giro delle visite; richiamo tempo dopo ma la dottoressa è ancora impegnata. Aspetto fino alle 15, poi telefono ancora io, ma mi rispondono che la dottoressa ha terminato il turno. Mi dicono di farmi sentire il giorno dopo, ma l’infermiera mi comunica che comunque la mia mamma è stabile. Alle 17 invece ricevo la chiamata che è deceduta da pochi minuti.

UN LEGGERO DIABETE

Il mio papà, uomo meraviglioso di 65 anni (avrebbe compiuto i 66 ad agosto), sempre presente, mai una malattia, artigiano piastrellista, andato in pensione a dicembre 2018, inizia ad avere la febbre il 17 marzo. Mia sorella, che vive con lui e la nostra mamma, chiama il medico di base, il quale è malato. La sostituta non esce a visitarlo e, dicendo che è influenza, prescrive due antibiotici e tachipirina.
Papà continua a non stare bene, ha sempre febbre, tosse, vomito, dissenteria, fa fatica a mangiare e anche solo a fare due passi. I giorni passano, mia sorella continua a chiedere alla dottoressa di venire a visitarlo, ma lei non si fa mai vedere. Arriviamo al 24 marzo, mia sorella chiama il 112 e i due ragazzi dell’ambulanza decidono di portarlo al Papa Giovanni XXIII. Il 26 marzo, dopo 48 ore passate al Pronto soccorso nei corridoi, finalmente il papà viene ricoverato, la dottoressa che ci chiama ci dice che è fortunato perché ha solo un pezzo di polmone disastrato, ovviamente è positivo al Covid-19.
Il 27 marzo ci sentiamo in videochat, la mattina tutto bene, la sera invece lui continua a tossire tanto che dobbiamo interrompere la videochiamata. Sabato 28 marzo non riusciamo proprio a sentirlo, dopo qualche ora la mamma esasperata telefona in reparto e ci comunicano che il papà non può rispondere perché ha il casco per la respirazione meccanica. Noi restiamo basite perché sembrava una situazione piuttosto tranquilla, ma siamo ancora convinte che il papà uscirà vivo da lì. Lunedì 30 marzo ci chiamano verso mezzanotte per dirci che lo vogliono intubare. Sono preoccupati per gli scambi respiratori e per la saturazione.
Mercoledì 1° aprile papà viene intubato, e da allora non siamo più riuscite a sentirlo né a vederlo. Morirà, avendo resistito e combattuto, 32 giorni dopo, il 3 maggio. Senza una carezza, una mano da stringere, un abbraccio da parte nostra. E lunedì 4 maggio, per darci la botta finale, ci dicono che mio padre avrebbe riposato per sempre in una bara nudo. Non ce la facciamo ad accettare questo ennesimo scempio e decidiamo di farlo cremare. Ora io mi chiedo come un uomo come lui possa essere morto, stava bene, aveva un leggero diabete da un anno, curava l’alimentazione e camminava tutti i giorni. So che nessuno potrà ridarmelo, le domande che mi girano in testa sono tantissime, forse abbiamo sbagliato, forse dovevamo fare meglio… Ma di una cosa siamo sicure. Se chi ci governa avesse chiuso tutto subito, non saremmo arrivati a questo punto e il mio papà avrebbe continuato a godersi le sue figlie, sua moglie, i suoi adorati nipoti che invece non vedrà crescere, e la sua sudatissima pensione. È una vergogna, qualcuno deve pagare per questo scempio.

IL CONTO DA PAGARE

Mio padre era appena andato in pensione dopo una vita da rappresentante. Si ammala verso il 2 marzo. Febbre a 37,3-37,5, vomito, nausea. La mamma chiama il medico di base che prescrive antibiotici e fermenti lattici, ma dice che non lo visiterà. Dopo una settimana, papà continua a peggiorare. Non mangia più, ha una dissenteria incontrollabile. A un certo punto perde i sensi per circa un’ora e mezzo in bagno. Mamma chiama il 118 e il numero speciale per il Covid-19, ma le rispondono che se non ha una crisi respiratoria non escono. Richiama il medico di base che dice di tenerlo idratato ma che non verrà a visitarlo.
Mercoledì 11 marzo mia sorella mi manda un messaggio dicendomi che papà sta sempre peggio. Gli telefono per provare a sentirlo. «Chicchi sto male…» mormora lui. «Papà», rispondo io «passami la mamma.» Lei mi riferisce che nessuno lo visita. Grido alla mamma che dobbiamo trovare un medico. Telefono a una mia amica dottoressa a Brescia, sento i miei ex compagni di scuola, faccio appelli sui social. Il dottor Lepore accetta di visitarlo. Ossigenazione a 65. Arriva l’ambulanza che, non essendo di Bergamo, chiede a noi la strada per l’ospedale. Papà non riesce nemmeno a reggersi in piedi, lo trasportano con una sedia a rotelle fino alla porta di casa. Il giorno dopo, l’esito del tampone è positivo, lo ricoverano nel reparto Covid-19. Ci danno un recapito telefonico da usare dopo le 14. Spesso non rispondono. L’unica volta che lo fanno ci dicono che chiameranno loro solo in caso di miglioramento o peggioramento.
Mercoledì 18 marzo verso le 13 avvisano la mamma che papà è peggiorato e che, senza un posto in terapia intensiva, non si salverà. I posti non ci sono, perciò chiedono anche a noi di sentire qualche altro ospedale. Lo trasferiscono in Pronto soccorso. La nostra disperazione è infinita, la vita di papà dipende da noi. Chiamo tutti quelli che conosco. Nulla, il posto non si trova. Papà viene intubato verso sera. Il giorno 19 alle 5 del mattino mi telefonano dall’ospedale dicendomi che l’ossigeno non arriva agli organi periferici di papà e che mi richiameranno appena sarà deceduto. Alle 7,45 riesco a parlare con l’ospedale. Mi dicono che papà è morto da dieci minuti. Sulla cartella clinica l’ora del decesso è 5,45. Insomma, si erano dimenticati di chiamarmi. Ho riconosciuto io la salma. Dagli occhi era uscito sangue, come dal naso. La bocca era spalancata. Ho tergiversato nel riconoscerlo. L’infermiere mi ha detto di sbrigarmi a chiudere la bara, perché dietro di me c’era una lunga fila di carri.
Sono tornata a casa con il sacco dell’immondizia che mi hanno dato all’ospedale. Dentro c’era la borsa di papà, che ho aperto quindici giorni dopo. All’interno, le sue cose, ma anche una maglietta intima sfilata con il pigiama e ricoperta da un’enorme chiazza di sangue. Materiale infetto. Nel frattempo, passano i giorni e della salma non sappiamo più nulla. Il 4 aprile le mie pompe funebri mi chiamano per dirmi che sicuramente il papà è a Ferrara perché a loro è stato richiesto il pagamento della tassa di cremazione dal Comune di Ferrara. E che bisogna saldare subito, prima di riavere le ceneri indietro. Poi ci dicono che la salma rientrerà il 18 aprile. Nessun’altra notizia. Quel giorno, il cimitero chiama le pompe funebri. Hanno istituito un numero solo in entrata. Non si può decidere il posto dove far riposare papà. Ci danno due alternative. Se non vanno bene, l’urna rimarrebbe in giacenza al cimitero aspettando la fine della pandemia. Ci vengono concessi quindici minuti per la tumulazione e per pagare una fattura totale di 3069 euro.

CONTAGIO IN FAMIGLIA

Ritengo doveroso fare una premessa perché quanto è accaduto a mio marito è indispensabile per capire quel che poi sarebbe successo a mio padre.
Il 18 febbraio mio marito si è recato presso l’ospedale di Alzano Lombardo per un Ecocolordoppler arterioso agli arti inferiori. Fino a qui, tutto normale. L’esame va bene, nulla di grave. Ma il 24 febbraio inizia ad avere i sintomi dell’influenza e mi ammalo anch’io. Un’influenza alquanto strana, molto diversa dalle soli...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Come nasce un’epidemia
  4. Quello che resta
  5. Il male è già qui
  6. Un ospedale di provincia
  7. Il grande errore
  8. La zona rossa che non c’è
  9. La lunga notte
  10. J’accuse
  11. Giustizia (forse) sarà fatta
  12. Ringraziamenti
  13. Copyright