L’Orfanotrofio del Piccolo Tulipano era un edificio insolitamente alto, che sorgeva in mezzo a una lunga fila di edifici insolitamente alti. Affacciata alla minuscola finestrella dell’ultimo piano, una ragazzina con gli occhi insolitamente scuri rivolse un’occhiata al canale ghiacciato sotto di sé. Milou seguiva la traiettoria dei fiocchi di neve che si posavano sui tetti adorni come uno strato di glassa sopra una torta. Giù, sul ghiaccio, cominciava a radunarsi una piccola folla, persone sorridenti con i nasi arrossati dal freddo. Al posto delle biciclette erano comparse le slitte, al posto degli zoccoli i pattini e strilli di gioia si mescolavano al nitrire dei cavalli attaccati alle carrozze.
La scena diventava sempre più indistinta man mano che il respiro caldo di Milou appannava il vetro, finché, con un ultimo pesante sospiro, la ragazzina abbandonò la finestra.
In quel momento un pezzetto di vernice ormai congelato si staccò dal muro e cadde per terra con un rumore secco. Perfino le assi del pavimento del dormitorio erano coperte di un sottile strato di brina, e per il freddo a Milou facevano male gli occhi ogni volta che li chiudeva. Il piccolo camino era spento e vuoto, come sempre.
«L’Orfano Ghiacciato» disse Milou alla ragazzina con i capelli rossi seduta sul letto di fronte a lei. «Non ti sembra il nome di uno di quei dessert dei ricchi, Finny? Forse è il nuovo piano della direttrice: se non riesce a piazzarci come figli adottivi, magari ci vende come gelati!»
Finny fece una smorfia e alzò gli occhi al cielo, poi tornò a dar da mangiare pezzetti di pane secco al topolino grigio che teneva accoccolato in grembo.
Milou arricciò il naso e atteggiò la bocca a una smorfia imbronciata. «Gelato all’orfanello!» gracchiò, in una perfetta imitazione dei rauchi strilli della direttrice Gassbeek. «Accorrete, gente! Venite a prendere il vostro gelato all’orfanello! Il migliore di tutta l’Olanda! Solo cinque centesimi a pallina!»
La fronte corrucciata di Finny si distese, e gli angoli della bocca si mossero appena. Milou sentì una punta di soddisfazione scaldarla dolcemente.
«Meglio che ci sbrighiamo» disse, facendosi seria. Pulì un piccolo cerchio di condensa sul vetro e guardò la torre dell’orologio in fondo alla via. «Abbiamo solo quattro minuti prima dell’ispezione dei panni sporchi; la Gassbeek ci strapperà i peli delle braccia se siamo di nuovo in ritardo…»
Rabbrividì dalla punta delle orecchie fino alla base del collo. Non era un brivido di freddo, ma di allarme.
In quel momento si udirono dei passi nel corridoio. Le due ragazzine si scambiarono un’occhiata terrorizzata. Milou saltò giù dal davanzale. Finny rotolò all’indietro per scendere dal letto, stringendo al petto il suo topolino. Mentre Milou afferrava un mucchio di panni gettati per terra, Finny nascose il topo nel suo cestino da picnic, il tutto un solo istante prima che la porta del dormitorio si spalancasse.
Sulla soglia apparve la testa di un ragazzino con le orecchie dalle proporzioni bizzarre e un ciuffo spettinato di capelli biondi, subito seguita dal resto del corpo, i cui arti magri e lunghi come le zampe di un ragno sembravano appartenere a quattro diverse specie di aracnidi.
«Ah, è qui che vi eravate cacciate!» gridò il ragazzo senza fiato, mentre con le lunghe dita si tormentava l’orlo della camicia piena di macchie d’unto.
«Oh, Sem, sei soltanto tu» disse Milou con un sospiro di sollievo. «Che succede?»
Sem le offrì un sorriso sbilenco. «Abbiamo… ospiti.»
C’era così tanta speranza nella sua voce affannosa che Milou sentì un fantasmino vorticarle dentro la pancia. Esisteva un solo tipo di ospite che poteva fare questo effetto a Sem.
Aspiranti genitori adottivi.
«Ospiti» ripeté Milou. Finny si lasciò scappare un leggero sussulto.
Erano passati mesi dall’ultima volta che qualcuno era venuto al Piccolo Tulipano in cerca di orfani da adottare. E se quella fosse la volta buona? E se i suoi genitori fossero finalmente tornati a prenderla? Milou non se li ricordava, naturalmente, ma aveva le sue teorie al riguardo. Un intero Libro delle Teorie, a dirla tutta, che in quel momento era ben nascosto nella tasca sinistra del suo grembiule. In ognuna di queste teorie, i suoi genitori erano intelligenti e coraggiosi. In tutte tranne una stavano disperatamente tentando di venire a riprenderla. E forse, dopo dodici lunghi anni, quel momento era infine arrivato.
«Milou» incalzò Sem. «Dobbiamo sbrigarci.»
«Solo un attimo!»
Milou scavalcò tre letti per arrivare a quello che divideva con Finny e Dita. Con la mano che le tremava, allungò il braccio al di sotto per tirare fuori il cesto a forma di bara, che teneva sempre pronto in caso di necessità. Dentro, in cima a un piccolo mucchio di oggetti, c’era il suo gatto di pezza. Milou gli passò un dito sulla zampa, dove in lettere rosse piene di svolazzi era scritto: Bram Poppenmaker, marionettista. Sopra la marionetta era posata una ciocca di riccioli rossi, legata da un nastro verde smeraldo. Milou mise tutto da una parte, poi tirò fuori i due fogli che c’erano sotto: uno era un suo ritratto a carboncino, e l’altro un manifesto della famosa compagnia parigina del Cirque de Lumière. In fondo, nascosto da questi tesori, c’era un taglio di prezioso velluto nero di Amsterdam accuratamente ripiegato.
Sem si sedette sul letto accanto a lei, le gambe piegate sotto il mento. «Milou…»
«Ancora un minuto!»
Le rivolse di nuovo quello sguardo che conosceva bene: secondo lui, Milou era stupida a restare aggrappata alla speranza che i genitori tornassero a prenderla. Lui non nutriva alcuna speranza. Nei confronti dei suoi genitori aveva sempre provato più che altro un certo disprezzo. Forse anche Milou avrebbe provato lo stesso se fosse stata abbandonata dentro un sacco di iuta. Ma Sem non poteva capire: lei semplicemente sapeva che, un giorno, avrebbe ritrovato la sua famiglia.
La questione era quando, non se.
Milou infilò il vestito di velluto nero sopra quello di cotone impataccato che aveva indosso, e vi passò sopra le mani per sentirne la liscia morbidezza. Se si trattava davvero dei suoi genitori, di certo avrebbero riconosciuto quella che era stata dodici anni prima la sua copertina. Ormai le stava piuttosto stretto; negli anni Sem l’aveva allargato il più possibile, ma tra un po’ sarebbe diventato decisamente troppo piccolo per lei.
Sem la scrutò con aria professionale, poi si avvicinò e le sistemò con cura il colletto. Milou rimise tutto nel cesto e prese il suo pupazzo, stringendoselo al cuore che le batteva forte. Da piccola, era stata certa che anche al gatto di pezza battesse il cuore. L’aveva cullato durante tante notti fredde e insonni, finché alcuni anni prima quel tic toc era cessato, e Milou aveva capito che probabilmente se l’era sempre immaginato.
Forse adesso le notti fredde e insonni sarebbero finite. Forse quello era il giorno in cui avrebbe finalmente lasciato per sempre quel posto.
«Forse dovremmo darci una mossa» insistette Sem con impazienza, avviandosi alla porta insieme a Finny.
Milou li seguì. Il dormitorio era al quarto piano del vecchio palazzo sul canale, un edificio pieno di ombre nere e assi di legno vacillanti, malamente tenuto insieme dalla vernice scrostata delle facciate. Milou scese con passo deciso le scale pericolosamente ripide, superando la stanza del cucito al terzo piano, la lavanderia al secondo e l’aula delle lezioni al primo, mentre Sem volava davanti a lei, tre gradini alla volta. Finny invece sembrava scivolare sull’aria, tanto i suoi passi erano leggeri e silenziosi.
Il piano terra era l’unica parte dell’edificio che non dava l’impressione di poter crollare al primo starnuto. Nella sala principale il pavimento di marmo era stato tirato a lucido, i muri erano dipinti di una piacevole sfumatura di lilla e un orologio a pendolo faceva tic toc in un angolo. Un gruppo mal assortito di bambini si stava disponendo in fila lungo una parete: i più piccoli da un lato, i più grandi dall’altro. Tutti si affannavano a rendersi presentabili: tentavano di ripulirsi dalle macchie d’unto, si sistemavano le camicie nei pantaloni, si lisciavano le sottogonne, si tiravano su i calzini. Ma non c’era modo di nascondere ciò che erano davvero, ovvero trasandati, affamati, disperati orfanelli.
Sem e Finny s’inserirono nella fila mentre tre piccoli topi marroni sfrecciavano sul pavimento di marmo in diverse direzioni. Una ragazzina con un gilet sopra il vestitino di cotone azzurro stava cercando di pulire le dita di un suo compagno dai capelli nerissimi. Gettò uno sguardo preoccupato a Milou.
«Perché ci hai messo tanto?» chiese Dita, poi si accorse del vestito di Milou e del pupazzo che si teneva stretto. «Lascia perdere. Presto, aiutami a togliere il carbone dalle mani di Oval.»
Milou prese l’altra mano del ragazzino e cominciò a strofinarla con l’interno della manica. Il nero del carbone si sfumò, lasciando sulla pelle di Oval un’interessante sfumatura di grigio.
«La Gassbeek voleva un altro ritratto» si giustificò lui con la voce piena di angoscia, sfilandosi dalla presa delle sue amiche e cercando di sistemarsi lo scialle, sporco di fuliggine anch’esso, che aveva intorno al collo. «Non ho avuto tempo di lavarmi le mani.»
«Non ti preoccupare» disse Milou. «È solo…»
Sentì di nuovo quel brivido che le nasceva sulla punta delle orecchie. La sensazione si fece sempre più intensa, finché le sembrò di avere un migliaio di aghi che le si conficcavano nei lobi. Allarmata, Milou tirò Dita per un braccio e la spinse nella fila, accanto a Sem. Poi si sistemò di fianco all’amica, appena prima che un rumore familiare echeggiasse nel corridoio verso le Stanze Proibite.
Clic-clac-clic-clac.
I ventotto bambini si raddrizzarono all’istante, come tirati su da fili invisibili.
Clic-clac-clic-clac.
Ventotto bocche, una dopo l’altra, risucchiarono nervosamente l’aria.
Clic-clac-clic-clac.
Ventisette paia di occhi sbarrati fissarono la parete di fronte. Milou invece sbirciò in tralice il corridoio buio alla sua sinistra.
Della direttrice Gassbeek comparvero prima gli stivali dal tacchetto basso: due punte aguzze di vernice rosso sangue, taglienti quasi quanto l’espressione dipinta sulla sua faccia, una volta che apparve anche questa.
Tutti i mostri del repertorio di storie della buonanotte di Milou erano ispirati in un modo o nell’altro alla Gassbeek: lo spaventoso sogghigno del gargoyle, gli occhi senz’anima del licantropo, l’urlo stridulo della banshee. Se la direttrice non fosse stata una donna così incattivita e piena di odio, probabilmente non sarebbe stata diversa da qualunque altra signora di mezz’età, ma la malvagità aveva trasformato le sue fattezze in qualcosa di mostruoso.
La Gassbeek passò in rassegna la fila con lentezza esasperante, lanciando sguardi di scherno a ogni clic e parole di rimprovero a ogni clac. Milou abbassò lo sguardo e raddrizzò la schiena, tenendo le spalle né troppo incurvate né così alzate da toccarle le orecchie che non la smettevano di formicolarle. Infine la direttrice schioccò la lingua con disprezzo e pestò il piede sul pavimento.
CLAC!
Tutti e ventotto i bambini ebbero un sussulto.
Il campanello fece ding e poi dong.
«Sono arrivati i nostri ospiti. Non osate deludermi» gracchiò, anche se a dir la verità sembrava già delusa da tutti loro.
Con un’altra buona dose di clic e clac la direttrice arrivò alla porta, si diede un’aggiustatina allo strettissimo chignon e atteggiò le labbra a un sorriso che aveva del raccapricciante.
La porta si aprì e un turbine di neve vorticò all’interno. Milou non resistette. Si sporse dall’estremità della fila mentre gli aspiranti genitori adottivi salivano i gradini d’ingresso: due sagome scure in un mulinello di neve. Milou si strinse il pupazzo al petto, proprio sopra il cuore che le batteva all’impazzata. Le orecchie le pizzicarono di nuovo; il respiro si fece corto.
La porta si richiuse sbattendo forte, e la neve che cadde sul pavimento rivelò due alte figure incappucciate, avvolte in mantelle scure. Perfino dal suo posto all’altra estremità della sala, Milou riuscì a vedere che erano fatte di nero velluto di Amsterdam. Quel lieve luccichio era inconfondibile.
Con le dita cercò la scritta sulla ...