Il suo seno perfetto sotto al pizzo nero, l’intimo che preferisco, quello che quando la spoglio capisco che è lei ad aver portato a letto me e non viceversa.
La sua pelle liscia, che quando le stringo i fianchi altro che velluto, altro che seta. Il suo corpo è un mappamondo di forme e di stelle.
Perfetto, cazzo. Assolutamente divino.
E allora qualcuno mi spiega perché diavolo non riesco ad avere un’erezione?
«Luca, ma tutto bene?»
Noemi, sotto di me, mi guarda titubante, poi fa scivolare lo sguardo fino al mio pube, dove il mio pene giace addormentato, alienato dall’universo, e ignora sfacciatamente i segnali d’aiuto che cerco di inviargli dalla torre centrale: Mayday, mayday, stiamo precipitando. Anzi: ci siamo già schiantati.
Il punto è che non è mica una macchina telecomandata, quando mai si risolve con il cervello una questione di genitali? Niente, è come se mi fossi completamente dimenticato come si fa ad avere un’erezione. Tutto questo mi riporta a qualche anno fa, in ospedale, quando ero andato a fare una piccola operazione ai testicoli. Ricordo me stesso sdraiato sul lettino di ferro, coperto da un leggero strato di carta, sotto nudo come un verme, circondato da infermiere tutte bionde come amazzoni che mi studiavano dall’alto al basso. Quando è arrivato il medico, e hanno scoperchiato il vaso di Pandora, il mio coso era ancora sotto anestesia, così sottotono da sembrare uno scherzo, tanto che ho pensato fosse legittimo giustificarmi con i presenti: «Guardate che non è mica sempre così, eh» ho puntualizzato, con tanto di risata d’accompagnamento.
Il medico ha tossito, una delle amazzoni ha afferrato una siringa. «Faccia poco il simpatico ché se no la sediamo di nuovo.»
Sono stato zitto, e mi sono ricordato di essere in un ambiente sterile con persone umanamente sterili. Ma a parte l’operazione, in sette anni di rapporto, io e Noemi non abbiamo mai avuto problemi a letto. E ora il problema sono io.
«Luca, vieni qui. Può capitare, dài…»
Non fatelo mai. A un uomo sotto i trenta possono capitare tante cose, non questa. Se capita, be’: lasciateci perdere, dateci il tempo di metabolizzare. Non siate né compassionevoli né materne né ironiche. Ma soprattutto…
«Ma è per qualcosa che ho fatto io?»
Non fateci sentire in colpa. «Noemi, ma cosa dici?» rispondo mentre provo a farle capire che non è proprio il momento di intavolare una discussione su di lei, visto che qui il problema riguarda me soltanto.
«In realtà me lo aspettavo, leggo dappertutto che dopo anni di relazione può capitare un calo di passione, mi stavo solo chiedendo quando sarebbe successo… ecco… solo non pensavo… proprio oggi…»
Oggi, d’altra parte, è nientemeno che il giorno del nostro anniversario, e la mia mancata erezione è un po’ come perdere l’appetito il venticinque dicembre, o la vista il quindici agosto di ritorno dall’Autostrada del Sole.
Ho conosciuto questa meravigliosa ragazza al liceo, dove non ci siamo cagati manco per il cazzo, e sette anni fa magicamente ci siamo messi insieme, ancora non ci credo. Insomma, Noemi è uno spettacolo. È un tipo. Così c’è solo lei.
«Perché mi hai detto di sì?» le avevo chiesto, qualche anno fa, ripensando al mio invito al cinema al nostro primo appuntamento.
Non che fossi considerato uno sfigato, tutt’altro, con le ragazze ho sempre avuto un discreto successo, un certo savoir-faire, nulla di esagerato, ma sono il tipo occhi chiari lineamenti sottili un po’ francesi che piace molto alle fan di Timothée Chalamet, e anche alle loro madri. Solo che conquistare Noemi era un mistero per me, non sapevo come approcciarmi, era silenziosa, sulle nuvole, sembrava non far parte di questo pianeta, nemmeno a detta di Greta Thunberg.
«Ti ho detto di sì per il cinema perché volevo far ingelosire un altro» mi ha risposto, seria. E io, giuro, ho passato in rassegna tutti gli stronzi bellocci del liceo che poi sono diventati amici in comune.
«La tua faccia adesso vale la presa per il culo.»
Mi sono voltato verso di lei nel bel mezzo di un picnic alcolico al parco Sempione. «Dimmi che non era Daniel Fioretti, rappresentante d’istituto, un metro e novanta, tatuaggi da carcerato. Ti prego, Noemi, mi fa male il cuore.»
«Ti ho detto di sì perché hai proposto un film che poteva piacere solo a me, non a te, ho pensato fossi gentile… e poi vabbè, sei figo.»
«Il lato positivo è un film bellissimo, cosa dici?! Otto nomination agli Oscar…»
«Certo, storia d’amore tra un bipolare e una mezza ninfomane in fissa per la danza… ti avrà fatto venire il testosterone a mille…»
«Ma c’è Jennifer Lawrence! Ha vinto l’Oscar…»
«Davvero volevi vedere quel film?»
«Sì!»
Noemi mi ha guardato inclinando la testa di lato, i boccoli scuri le sono ricaduti sulle spalle dandole un’aria ancora più sensuale.
«Ah.»
I suoi occhi da lince nei miei, ho aperto la bocca per sussurrarle qualcosa ma lei è scoppiata a ridere e la stanza si è illuminata d’estate. La sua risata è contagiosa, è come una scarica elettrica, ti tira su da terra e ti aggancia al cielo. Le labbra le si sono distese in un sorriso timido, si è portata, delicata, una mano alla bocca.
Ho perso il conto delle volte che con quel gesto mi ha fatto innamorare di nuovo.
«Luca, perché non mi rispondi?»
Strizzo gli occhi nella penombra della stanza, sono ancora sopra di lei, immobile, le mani che affondano nelle lenzuola, vorrei urlare, darmi degli schiaffi in faccia.
«Non lo so, scusami, stavo pensando…»
«Ti vuoi levare? Mi sento soffocare.»
«Scusami.»
«Smettila di scusarti, ti ho detto che sono cose che capitano, non è un problema. Il problema lo crei tu se invece di parlarne con me pensi ai cazzi tuoi.»
Alzo un braccio e Noemi rotola di lato, sfugge da me, si siede sul letto dandomi le spalle.
«Buon anniversario» sussurra, sarcastica, mentre si riveste.
Buon anniversario, penso, ma non lo dico. Perché fuori ha iniziato a piovere, e io osservo la mia divisa di Glovo addormentata sulla sedia della stanza da letto, e penso che tra poco sarò là fuori a combattere contro il tempo delle consegne, che è sempre tiratissimo, e la tentazione di pensare che, se dopo sette anni di relazione festeggiamo il nostro anniversario con la mia impotenza, sono un completo fallimento.
Ordinare d’asporto quando fuori piove è da stronzi.
In realtà ci sono vari punti di vista sulla questione: chi sostiene che sia comunque un modo per farci lavorare, chi afferma che dovrebbero darci mance più alte e chi, come me, pensa che se non si ha voglia di uscire quando fuori infuria la tempesta è da sadici immaginare che lo faccia qualcun altro per noi, per una paga che non giustifica il tragitto.
Non so nemmeno io come sono finito a fare questo lavoro, il tutto è iniziato dopo aver finito l’università, ho studiato Scienze della comunicazione perché era l’unica facoltà in cui c’erano corsi sulla storia della radio, o sulla radio in generale.
Bene, dopo essermi laureato con il massimo dei voti sono finito nel “labirinto degli stage”, un percorso senza sbocchi lavorativi veri e propri. Così ho passato quasi due anni tra un ufficio stampa e l’altro con la prospettiva di non avere prospettive. Un po’ come la casa degli specchi al luna park, dove uno su mille esce in tempo.
Finché Noemi si è rotta il cazzo.
Ora vi spiego meglio, ma per darvi la possibilità di formulare un giudizio sincero e spietato sulle mie scelte di vita vi manca un tassello importante.
Mio padre.
Mio padre è ricco da far schifo, gestisce una concessionaria d’auto che fattura come se non avesse mai conosciuto la crisi, e io sono l’unico figlio maschio e possibile erede della sua grande fortuna. Ho rifiutato di lavorare con lui per perdermi nel labirinto degli stage perché, è vero, sono un coglione, ma mio padre è uno stronzo. E io, nel bene o nel male, ho sempre avuto un rigore morale da far invidia anche a un prete. Sono severo con me stesso peggio di una governante inglese. Lo faccio perché lo scopo della mia vita è non diventare come mio padre.
E giustamente Noemi, che invece lavora come maestra d’asilo e guadagna più di me, mi ha messo con le spalle al muro: «Tu ora ti trovi un lavoro, perché sei stato tu a chiedermi di convivere e mi sono rotta di mantenerti».
Quando ho detto di sì, che avrei mollato gli stage e mi sarei trovato un lavoro vero, lei non si aspettava che finissi da mio padre (mi conosce troppo bene) ma che almeno gli chiedessi qualche raccomandazione per finire a lavorare in un’altra concessionaria, o che mi dessi una mossa per trovare un lavoro per il quale ero sovraistruito, come il cassiere o l’inserviente, ma almeno stabile.
A mio padre non avrei mai chiesto aiuto. Al lavoro da commesso ci avevo seriamente pensato, anche se credo occorra un certo talento nel saper vendere le cose, e io non sono ancora riuscito a convincere mia madre che ho ventotto anni e non sedici.
Comunque sono andato a fare qualche colloquio in giacca e cravatta e devo dire che me la sono cavata anche piuttosto bene.
Ma le posizioni aperte erano tutte full time, e io avrei dovuto rinunciare al mio sogno. Sono un Cancro, quindi sogno sempre e costantemente, fa parte di me.
Il mio podcast, che registro tutti i giorni e che sono sicuro sarà il mio trampolino per la radio, è il mio sogno.
Così, uscito da un colloquio, mentre me ne andavo in giro per Milano con un completo color cammello ho visto lui, in divisa di Glovo: Amir, ora uno dei miei migliori amici.
Un senegalese che canta Venditti mentre va in bici mica si vede tutti i giorni, no? Gli faccio: «Ehi, tu, come hai fatto a lavorare per Glovo?». Mi ha risposto: «La mia ragaza è brava a fare le Kofta Meshweya».
Che detta così ho pensato fosse una versione mediorientale di qualche preliminare erotico. Poi ho scoperto essere degli ottimi spiedini di carne, perché anche se Danuwa vive ancora in Senegal, Amir ha imparato da lei a cucinarli e ne porta a bizzeffe per i colleghi al lavoro, a ogni festività, cristiana e non, presente sul calendario.
Così quel giorno sono andato a parlare con il capo di Amir e mi sono fatto dare il lavoro. Quando sono tornato a casa con la divisa di Glovo, Noemi non sapeva se piangere o ridere.
«Cosa c’è di più erot...