Il parco di Leibniz
Nella sua corrispondenza con Samuel Clarke, Leibniz racconta di come, nel parco di Herrenhausen a Hannover, alcune nobildonne in sua compagnia osservassero compiaciute le foglie d’acero che, cadute a terra, disegnavano magnifiche figure di colori diversi.1 Improvvisamente, la duchessa di Hannover pensò di aver trovato due foglie perfettamente identiche tra loro. Dopo l’iniziale entusiasmo, la duchessa dovette ammetterlo, a malincuore: nonostante la forte somiglianza, le due foglie non erano esattamente uguali.
Leibniz ricorreva a questo espediente narrativo, fondato su un aneddoto di vita vissuta, per esporre il principio ontologico, da lui teorizzato, dell’identità degli indiscernibili. Il principio recita che se non v’è modo di distinguere due enti, allora essi sono, in verità, un solo e identico ente. Con le parole del filosofo della monadologia: «eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate»,2 «le cose delle quali l’una può essere sostituita dall’altra mantenendone intatta la verità, sono le stesse».
Senza esagerazioni, e sempre consapevoli di quanto il concetto in questione sia labile e restio a ogni inquadramento esaustivo, potremmo anche qualificare la globalizzazione come la pulsione che mira a forzare il principio degli indiscernibili, per produrre una molteplicità indifferenziata di enti perfettamente e serialmente sostituibili tra loro. L’ordine del discorso mondialista, in effetti, si fonda sull’inclusione neutralizzante. Include ogni ente entro il paradigma del borderless world e, insieme, ne neutralizza le specificità: riduce il pluriverso delle identità culturali nell’universo dello sradicamento post-identitario.3 Coarta ogni ente a essere immagine del medesimo: e, dunque, a disidentificarsi da sé, per assumere le fattezze di una desolata terra nullius, di un neutro indistinto, omologato – diremmo con la figura concettuale kantiana – «in weltbürgerlicher Absicht», «da un punto di vista cosmopolitico».4
In nome del mercato unificato, il globalismo come pulsione verso l’essere-il-medesimo opera affinché ogni ente si muti in merce liberamente circolante nel piano liscio del libero scorrimento onnidirezionale senza frontiere politiche e geopolitiche, morali ed etiche, religiose e giuridiche. Come in un ipotetico parco di Hannover esteso quanto il pianeta, la ὕβϱις, la «tracotanza» del logo globalista amministrato dai guardiani dell’ortodossia e dai sacerdoti del politicamente corretto, vorrebbe individuare, sparse sul terreno, foglie tutte eguali tra loro, indistinte e reciprocamente interscambiabili, pronte a essere utilizzate e scambiate nei circuiti di un do ut des sconfinato.5
Dal punto di vista della ragione globalista, tutto deve essere il medesimo. Ogni cosa – con le parole di Leibniz – «potest substitui alteri», secondo la figura di quella scambiabilità universale mediata dal danaro che è il nuovo fondamento del mondo senza fondamenti della reificazione cosmopolitizzata. Come i discorsi di Zenone di Elea criticato da Socrate nel Parmenide (127 e), anche quelli del globalista non hanno altro obiettivo che mostrare «che il molteplice non esiste» (ὡς οὐ πολλά ἐστι). È per questa ragione che il cosmopolitismo liberista o, più in generale, quell’astrazione concretissima appellata capitalismo non può accettare la sopravvivenza delle identità e, dunque, delle differenze tra i non-identici.
Vocazionalmente eterofobo, il globalcapitalismo non ama il differente, che anzi prova in ogni modo a neutralizzare. In nome dell’indistinzione universale e dell’ovunque egemonico principio dell’essere-il-medesimo, nel regno dell’inautentico senza confini le identità chiedono di essere soppresse.6 Infatti, esse – nei popoli come negli individui – fanno valere una specificità che, comunque la si voglia concepire, differisce rispetto all’indistinto globale della forma merce. Già solo in ragione di ciò, le identità esercitano congenitamente una resistenza rispetto all’omologazione globalcapitalistica e ai suoi processi di inclusione neutralizzante.
È secondo questa chiave ermeneutica – il cui sviluppo costituisce il nucleo del presente studio – che si spiega l’inimicizia sempre più evidente tra il globalismo mercatista, da una parte, e la coppia dialettica di identità e differenze, dall’altra. Identità e differenze sono oggi sotto assedio, dacché il piano liscio del mondo ridotto a mercato vuole vedere e, insieme, produrre ovunque il medesimo: id est un’unica identità senza differenze, un unico profilo omologato e funzionale ai processi di scambio e di consumo. Identità e differenze sono, in tal guisa, sacrificate sull’altare del nuovo profilo dell’homo vacuus e post-identitario. Tale è il consumatore impersonale, che – marionetta amministrata dalla volontà di potenza – è soggetto e oggetto di un processo che lo impiega in vista di un obiettivo che sta al di sopra di lui:7 e che coincide, in ultimo, con l’illimitato autopotenziamento dell’apparato tecnocapitalistico.
Tra i paradossi che ne discendono, v’è quello, di ordine ontologico, in forza del quale la nuova identità unica globalisticamente corretta non è, invero, un’identità in senso proprio. Per sussistere, infatti, ogni identità necessita della differenza rispetto alle altre identità: è mediante il confine della differenza, infatti, che ogni ente può essere se stesso, delimitandosi e differenziandosi dagli altri enti che esso non è. Ove spariscano le differenze, si annichiliscono le identità: simul stabunt vel simul cadent. In luogo del nesso dinamico di identità e differenze – plurali le prime come le seconde –, trionfa il regno post-identitario dell’indistinto planetarizzato. Nei suoi spazi sconfinati, ogni ente non ha un’identità, poiché non si differenzia dagli altri. E decade, così, al rango di mero neutro utilizzabile, di ente sostituibile, che, alla stregua di tutte le altre merci, è incondizionatamente disponibile per i processi tecnocapitalistici fondati sulla volontà di potenza illimitatamente autopotenziantesi, che si accompagna alla svalorizzazione nichilistica dei valori e alla devastazione del pianeta, ridotto al livello di mero utilizzabile.
Per funzionare a pieno regime, la volontà di potenza non necessita se non di enti quantitativi e seriali, che non presentino altra caratteristica, se non l’arrendevole passività rispetto alla loro impiegabilità utilitaristica: non popoli radicati nella loro storia e nella loro terra, né soggettività dall’identità forte e capace di opporre resistenza, bensì consumatori dall’io minimo e narcisista, con identità liquide, gadgetizzate ed effimere, che si orientano in un orizzonte di senso saturato dalla produzione, dalla circolazione e dallo scambio di quegli enti «sensibilmente sovrasensibili»8 che sono le merci.
Il regno della forma merce coincide con un imperialismo monopolare planetario di tipo mentale e materiale.9 Il suo autosviluppo procede abbattendo ogni limite che possa essere d’ostacolo alla saturazione di qualsiasi spazio non ancora occupato.10 L’abusato e ormai logoro lemma «globalizzazione» altro non dice, se non l’americanizzazione geopolitica e militare del mondo, l’universalizzazione dei mercati finanziari e delle loro patologie coessenziali (alienazione e classismo, sfruttamento reificante e disumanizzazione dell’uomo) e, infine, l’omologazione di tutti i popoli, neutralizzati nella loro identità e inclusi nel nuovo ordine mentale del relativismo consumista e del liberismo cosmopolita politicamente corretto ed eticamente corrotto.11
Per questo motivo, la lotta culturale contro la civiltà del nichilismo e della morte di Dio deve, di necessità, fondarsi anche sulla gigantomachia in difesa delle identità e, dunque, delle differenze. E ciò a partire dall’aureo insegnamento ontologico che, dal parco di Hannover, ci ha trasmesso Leibniz: come le foglie di acero, così ciascuno di noi possiede una sua identità che, con i suoi confini stabili e non evanescenti, lo rende, ontologicamente, differente dall’altro e a lui non identico.
Il ragionamento, come cercheremo di adombrare, può valere, oltre che per la novitas che ciascuno di noi è in quanto soggetto, anche per i popoli: i quali esistono, come espressioni della razza umana in sé unitaria, nel prisma caleidoscopico delle identità e delle differenze, che solo la ragione globalista – avvezza all’uniforme e all’essere-il-medesimo e, au même temps, sempre più estranea all’umano e alla legge della vita – non è in grado di apprezzare. Con i versi di Danilo Dolci, «sono eguali due rondini / se non sei rondine».12
Il piano liscio e la logica liberale
Il presupposto antropologico del nouvel esprit du capitalisme13 è agevolmente individuabile: l’uomo si comporta razionalmente solo allorché è libero da pregiudizi e superstizioni ed è, dunque, nelle condizioni ottimali per poter perseguire il proprio interesse privato in qualità di homo oeconomicus. Ne segue sillogisticamente l’esigenza – sempre ribadita dall’ordine del discorso – di abolire tutto quello che, nell’ambito tanto dei costumi quanto delle leggi, delle tradizioni e delle altre sfere dello spirito (religione, arte, filosofia), ostacoli siffatta razionalità, innalzata a sola sorgente possibile di senso. È, dunque, di vitale importanza, per il cosmomercatismo imperante, fare tabula rasa di ogni figura del limite, sia essa tradizionale o razionale, morale o religiosa, giuridica o etica. In ogni sfera deve prevalere, illimitata, l’individualizzazione concorrenziale della società, ricondotta alla sfera «insocievolmente socievole» del cash nexus: la filosofia liberale ignora la mutua fedeltà come motivazione, tutto risolvendo nella relazione mercantile.
Come sottolineato da Michéa, «la logica liberale porta a distruggere qualsiasi comunità umana»,14 che non sia quella costruita sul fondamento dello scambio mercantile. Il contratto privato diventa la verità ultima di ogni relazione umana, abbassata al rango del nesso tra acquirente e venditore. Su tutto il giro d’orizzonte deve prevalere incontrastato il profilo antropologico dell’uomo robinsoniano, individuo egoista e calcolatore, cinico e agente solo in vista del proprio tornaconto privato (business is business).15 Tale individuo deve metabolizzare l’imperativo ultramercatista della flessibilità, concependo la propria vita come serie nomadica di traslochi e di rotture di ogni stabilità nei rapporti, nei progetti e negli impegni.16 Per questo, deve essere privato (e convinto che ciò sia un progresso) di ogni legame materiale e immateriale, figurando come un atomo globetrotter disponibile per la mobilitazione totale connessa ai processi della valorizzazione del valore.17
Fin dal suo sguardo aurorale, il capitalismo deve favorire l’incontro degli uomini sul mercato e, insieme, disincentivare ogni altra forma di relazione comunitaria: e questo secondo una traiettoria che porta dal birraio di Adam Smith all’odierno capitalismo «terapeutico» del Covid-19, il cui pr...