
- 384 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La spedizione Donner
Informazioni su questo libro
Quella della Spedizione Donner è una storia vera che ancora oggi risveglia paure ataviche e curiosità morbose. Rimanda al 1846, quando una carovana di pionieri diretti in California rimase bloccata per mesi dalla neve nella Sierra Nevada. Alcuni di loro morirono di stenti dopo poco tempo. Altri, stipati nello spazio soffocante dei carri, portati alla follia dai morsi del freddo e della fame, si abbandonarono al cannibalismo. Quasi nessuno si salvò. Lo storico Clive Benton, lontano discendente di alcuni sopravvissuti a quell'orrore, è entrato in possesso del diario di uno dei pionieri, giungendo alla conclusione che sia finalmente possibile localizzare il campo perduto della Spedizione Donner e svelarne i misteri. È lui a convincere la dottoressa Nora Kelly, ricercatrice dell'Istituto di archeologia di Santa Fe e già direttrice di molte campagne di scavo sulla Sierra Nevada, a guidare una squadra sulle tracce dell'accampamento. Ma arrivati tra le montagne, i ricercatori scoprono che l'epilogo degli avventurieri della Donner nasconde verità sconvolgenti e atroci, che gettano un ponte tra passato e presente, allacciandosi a un'indagine su alcuni recenti casi di omicidio condotta dall'agente dell'FBI Corrie Swanson. D'un tratto, quella che doveva essere una spedizione scientifica si trasforma in uno spaventoso viaggio di abiezione e follia.
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Informazioni
Print ISBN
9788817147415eBook ISBN
97888318012011
13 ottobre
Il buio era sceso presto sulla Città delle Luci, che a mezzanotte inoltrata, la luna nascosta dietro fitte nubi, non era più all’altezza del suo nome. Anche qui, sulla riva del fiume, era cupa e vuota: per i residenti, troppo tardi per un giorno feriale; troppo fredda per turisti e romantici. A eccezione di un passante che si affrettava, il bavero dell’impermeabile alzato sul collo, e di una lunga imbarcazione dalle pareti di vetro che scivolava lentamente lungo il fiume diretta al porto – spettrale e vuota anch’essa, la cena servita a bordo – il panorama del lungofiume era tutto per lui.
«Panorama» era forse un termine troppo ambizioso per una passeggiata lastricata di pietre antiche che correva lungo la Senna appena sopra il livello del fiume. Eppure, anche a tarda notte quell’angolo offriva uno spettacolo notevole: l’Île de la Cité riflessa nello specchio d’acqua, la cupa mole del Louvre e le torri di Notre Dame, in parte oscurate dal Pont au Double, ad allungarsi verso un cielo incombente.
L’uomo era seduto su una stretta panchina vicino a un’impalcatura di legno montata per il restauro dell’antico ponte. Dietro di lui si ergeva un muro di pietra alto sei metri dal livello della strada. Sul Quai de Montebello si potevano sentire sporadiche vetture passare lungo l’arteria sud della Senna. Ogni quattrocento metri circa, una scalcinata scala in pietra conduceva al lungofiume. In alto, delle torce montate per l’occasione lungo il muro di sostegno gettavano stretti coni di luce gialla sui ciottoli bagnati. Quella vicina all’uomo seduto era stata rimossa per via dell’impalcatura sul Pont au Double.
In lontananza, avvolto in un impermeabile cerato, un poliziotto si avvicinava fischiettando una melodia di Joe Dassin. Sorrise e fece un cenno all’uomo, che gli rispose accendendosi una Gauloise e continuò a guardarlo con aria noncurante mentre proseguiva sotto il ponte, le note di Et si tu n’existais pas che riecheggiavano.
L’uomo fece un breve tiro di sigaretta, se la rigirò tra le dita e ne esaminò l’estremità accesa. I suoi movimenti erano lenti e stanchi. Sui trent’anni, indossava un completo di lana di ottima fattura; tra i piedi, calzati in eleganti scarpe italiane, una grossa borsa da viaggio di cuoio vissuto, del genere che avrebbe potuto appartenere a un avvocato molto impegnato o a un professorone di Harley Street. Appoggiato alla panchina, accanto a lui, c’era uno scooter nuovo fiammante. Niente lo avrebbe fatto distinguere tra mille altri uomini d’affari parigini, non fosse stato per i suoi lineamenti, vaghi in quell’oscurità , di un tocco esotico difficile da definire: forse asiatico, forse kazaco o turco.
Il brusio lontano del centro fu coperto dal rumore di una bicicletta che si avvicinava. L’uomo alzò lo sguardo mentre una figura appariva in cima alla scala più vicina: pantaloncini neri di nylon, una maglia scura da ciclista e sulle spalle uno zaino a strisce rifrangenti che brillarono ai fari di una macchina in transito. Tirò su la bici fino alla ringhiera, la assicurò con la catena, scese le scale e si avvicinò all’uomo in giacca e cravatta.
«Ça va?» chiese, sedendosi a sua volta sulla panchina. Malgrado il freddo pungente della notte, la tenuta da ciclista era chiazzata di sudore.
L’uomo in giacca e cravatta fece un’alzata di spalle. «Ça ne fait rien» rispose, e fece un altro tiro di sigaretta.
«Lo scooter?» continuò, sempre in francese, il ciclista, facendosi scivolare dalle spalle lo zaino coperto di schizzi di fango.
«È per mio figlio.»
«Non sapevo che fossi sposato.»
«Non ho detto che lo sono.»
«Giusto… Così imparo a chiedere» commentò il ciclista ridendo.
Il medio contro il pollice, l’uomo in giacca e cravatta fece volare la sigaretta nel fiume. «Com’è andata?»
«Molto peggio di come ce l’aveva prospettata il tuo uomo. Pensavo che sarebbe stato un parco sperduto e vuoto. Putain de merde, era proprio in mezzo tra Gare Montparnasse e le Catacombe!»
L’uomo in giacca e cravatta scrollò di nuovo le spalle. «Conosci Parigi.»
«Sì, ma non è esattamente il genere di cose che si vedono tutti i giorni.»
Restarono in silenzio e si misero a guardare una coppia che senza badare a loro passeggiava a braccetto di là dal fiume. Poi l’uomo in giacca e cravatta riprese.
«Ma era vuoto, giusto?»
«Sì. Con il posto sono stato fortunato, proprio di fronte al muro di Rue Froidevaux. Un po’ più avanti e mi avrebbero visto dal condominio dall’altra parte della strada.»
«È stato difficile?»
«Direi di no, tranne che non ho potuto fare un fiato per tutto il tempo. E per la maledetta pioggia di ieri. Guarda!» Si indicò le scarpe da corsa, anche più sporche dello zaino.
«Quel dommage…»
«Ma grazie mille…»
L’uomo in giacca e cravatta spaziò con lo sguardo sulla passeggiata: nessuno, a parte i due piccioncini, le cui sagome andavano rimpicciolendosi in lontananza. «Diamo un’occhiata.»
L’altro afferrò lo zaino e aprì la cerniera: altro fango e qualcosa avvolto nel pluriball e in una morbida pelle di daino. Ne salì un cattivo odore. L’uomo in giacca e cravatta tirò fuori una torcia, esaminò con attenzione il contenuto e fece un verso di approvazione.
«Ben fatto. Quanto ci hai messo ad arrivare qui con la bici?»
«Più o meno dieci minuti, per strade secondarie.»
«Bene, faremmo meglio a non andarcene in giro più del necessario.» L’uomo si chinò e aprì il borsone di cuoio. La parte superiore si afflosciò e per un attimo la luce illuminò obliquamente qualcosa che brillò al suo interno.
«Che cos’è quello?» chiese il ciclista sbirciando. «Niente carte di credito o preziosi.»
«Né carte né preziosi. I tuoi soldi sono qui.» Si diede una pacca sulla tasca della giacca.
Il ciclista aspettò che ci infilasse la mano. L’uomo, le mani ancora in tasca, alzò invece bruscamente lo sguardo.
«Un momento!» disse in un soffio, avvicinandosi. «Arriva qualcuno.»
Anche il ciclista gli si accostò istintivamente. L’uomo gli mise una mano sulla spalla, a segnalare un’intimità e per nascondere i loro volti al passante. Non fosse stato per il fatto che di passanti non c’era neanche l’ombra: la passeggiata era vuota. La mano libera emerse allora dall’altra tasca della giacca impugnando uno Spyderco Matriarch 2, un coltello tattico a serramanico la cui sottile lama a S inversa era stata pensata con un unico obiettivo. Il dorso, con la particolare sagomatura del sistema Emerson Wave, permetteva di aprirlo ed estrarlo in un unico movimento.
L’arma fu poco più di un’ombra scura mentre passava tra la seconda e la terza costola, la lama che andava più a fondo a mano a mano che, muovendosi, recideva le coronarie prima di scivolare di nuovo fuori. Poi l’uomo in giacca e cravatta pulì velocemente la lama sui pantaloncini del ciclista e se la rimise in tasca con fare disinvolto. Il tutto era durato non più di due secondi.
Il ciclista restò immobile, a metà tra la sorpresa e lo shock. Anche se il sangue stava già riempiendo la cavità toracica, la ferita era in realtà così piccola che dallo strappo nella maglietta ne stava colando davvero poco. Nel frattempo, l’altro si era allungato verso il borsone e ne aveva tirato fuori una pesante e lunga catena d’acciaio e un lucchetto. Nel borsone non c’era altro, a parte un involucro imbottito in lattice. Si alzò per assicurarsi che nei paraggi non ci fosse nessuno, quindi afferrò lo scooter con entrambe le braccia, lo spinse contro il petto del ciclista, vi legò intorno le sue braccia inerti e avvolse uomo e mezzo con la catena. Quindi tirò le estremità della catena e le chiuse. Ancora uno sguardo alla passeggiata e lungo il fiume, poi trascinò il ciclista a riva, sotto il ponte buio; sollevò le gambe dell’uomo oltre il parapetto, mollò la presa e lasciò che il corpo scivolasse piano nel fiume.
Erano trascorsi altri dieci secondi.
Con il respiro un po’ affannoso, guardò fino a che non riuscì più a scorgere il corpo, zavorrato da catena e scooter. Quindi tornò verso la panchina, trasferì con cautela l’oggetto avvolto dallo zaino al suo borsone e li chiuse entrambi. Ancora qualche istante per sistemarsi la cravatta e lisciarsi la giacca, poi partì a passo spedito verso la passeggiata, quindi su per le scale di pietra, superò la bicicletta, e senza fermarsi lasciò cadere lo zaino in un cestino per i rifiuti lì vicino.
Accese un’altra Gauloise e riaggiustò la presa sulla borsa prima di fare segno a un taxi in Place Saint-Michel.
2
Un’ora dopo
Clive Benton rallentò con la sua Ford Futura all’altezza di Wild Irish Road, svoltò in una strada secondaria e guidò adagio per un viottolo polveroso fino a che non fu più visibile dalla strada principale. Scese dall’auto, aprì il cofano e indossò uno zainetto. Scaricò sul telefono un’app per le escursioni, localizzò la sua posizione e si avviò nel bosco. Gli abeti e i pini delle dune, molto distanziati tra loro, gli consentivano di camminare agevolmente. Malgrado la stagione, non faceva per niente freddo; l’aria era carica di un ingannevole tepore. Guardando a est attraverso gli alberi, Benton poteva vedere le colline ai piedi della montagna svettare verso le cime della Sierra Nevada, aguzzi denti grigi contro il blu del cielo, che presto sarebbero stati coperti dalla neve.
Benton era uno storico, e come chiunque altro conosceva la storia di quel posto. Era stato il cuore della Corsa all’oro in California. Lui aveva potuto assistere all’erosione idraulica che un tempo aveva sfregiato le colline spianando il terreno con potenti getti d’acqua che schizzavano la sabbia aurifera negli scolmatori per la cattura di pagliuzze d’oro. Ma quei tempi erano andati e quelle colline al confine occidentale della Sierra, circa settanta chilometri fuori Sacramento, erano perlopiù spopolate. La riduzione del numero delle vecchie città minerarie – con nomi come Dutch Flat, Gold Run, Monte Vista, You Bet e Red Dog – era avvenuta in un momento difficile. Alcune erano sparite del tutto, mentre in poche altre una popolazione coraggiosa aveva restaurato le baracche minerarie e gli alberghi in legno come attrazioni per turisti o cottage estivi. E l’area stava iniziando, in effetti, ad attirare gli escursionisti e gente che cercava casa per le vacanze. Per anni si era predetto l’arrivo di un boom economico, e ora finalmente sembrava che si stesse avverando.
Era ancora possibile rintracciare qua e là , nascosti tra valli e pianure, gli edifici della Corsa all’oro, abbandonati e decadenti, dei pochi fortunati che ce l’avevano fatta. Benton si fermò a controllare la direzione. Si stava avvicinando a uno di quegli edifici in rovina, uno che aveva per lui un significato speciale. Secondo il GPS, era circa un chilometro a est rispetto a dove si trovava lui, su un basso crinale. Si chiamava Donner House ed era appartenuto alla figlia di Jacob Donner, della famigerata spedizione Donner.
Benton procedette con cautela, silenziosamente, tenendosi all’ombra del bosco. Superato il crinale, rallentò. Attraverso gli alberi vide sprazzi di arancio e di giallo, insieme a un lampo di metallo, che riconobbe come due grandi ruspe allineate su una vecchia strada di miniera pronte a calare sulla Donner House e a trasformarla in un mucchio di mattoni, calcinacci e travi di legno scheggiate per lasciare il posto a un nuovo campo da golf e a un condominio lungo il fiume Bear.
Mentre si avvicinava, i contorni delle ruspe e del camion che le aveva trasportate cominciarono a prendere una forma più distinta. Il camion era in folle, e lui poteva sentire l’odore del carburante che usciva dal motore, mescolato al fumo di sigaretta e al chiacchiericcio degli operai. Fece un ampio giro, affrettandosi ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- La spedizione Donner
- 1
- 2
- 3
- 4
- 5
- 6
- 7
- 8
- 9
- 10
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- 52
- Epilogo
- Nota per il lettore
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