Roma, 8 luglio 1978.
Un anziano signore, piccolino e coi capelli bianchi, esce dalla minuscola mansarda in cui abita, quaranta metri quadri di fronte alla fontana di Trevi.
L’uomo cammina veloce nonostante i suoi ottantadue anni, durante molti dei quali ha fumato la pipa.
Le persone in strada lo fermano, gli stringono la mano, lo salutano, perché il suo viso è celebre, ha segnato la storia d’Italia in tanti modi diversi.
L’uomo si chiama, all’anagrafe, Alessandro Giuseppe Antonio e, nella sua lunga vita, ha usato anche diversi altri nomi falsi per non essere catturato. Ma tutti l’hanno sempre conosciuto come Sandro.
Sandro Pertini.
Nonostante sia basso di statura, Sandro ha attraversato la vita con i passi di un gigante.
Poco più che ventenne, è stato tenente durante la Prima guerra mondiale, distinguendosi in prima persona. Ha sparato con un mitragliatore dopo averlo mosso all’attacco da solo. Ha partecipato alla tragica battaglia di Caporetto; poi, intossicato dai gas durante un’azione, è stato salvato da morte quasi certa.
Ha combattuto, anche se non sopportava la guerra.
«Io ero pacifista, ma andai volontario in guerra perché se a combattere dovevano andare i figli degli operai e dei contadini, allora dovevo andarci anch’io.»
Dopo la guerra, Sandro è tornato agli studi, si è diplomato al liceo classico, è diventato avvocato e poi, nonostante abbia servito la monarchia in guerra, ha deciso di lottare senza quartiere contro il fascismo.
Quando Mussolini ha preso il potere in Italia e ucciso il suo oppositore Giacomo Matteotti, Pertini si è iscritto al Partito socialista e ha iniziato la sua attività antifascista.
Il regime lo ha perseguitato. I fascisti hanno distrutto il suo studio di avvocato, a Savona, e lo hanno pestato più volte: perché indossava una cravatta rossa, perché portava fiori nelle commemorazioni dedicate a Matteotti, perché partecipava a manifestazioni antifasciste. Durante una di queste gli hanno spaccato un braccio.
I tribunali lo hanno incriminato come “avversario irriducibile del Regime”.
Per non farsi arrestare, è fuggito in Francia e, anche se il Partito socialista gli offriva sostegno economico, ha preferito guadagnarsi da vivere con il suo lavoro: ha lavato i taxi, ha fatto il manovale, il muratore, persino la comparsa in bici in un film di produzione americana.
Mentre cercava di rientrare in Italia, per progettare un attentato a Mussolini, è stato riconosciuto, arrestato e condannato a oltre dieci anni di galera. Quando glielo hanno comunicato, in aula, si è alzato e ha gridato: «Abbasso il fascismo, viva il socialismo!».
Nei lunghi anni di prigionia ha cambiato molte carceri diverse, spesso è stato recluso in isolamento e si è ammalato di tubercolosi.
La madre, contro la sua volontà, ha domandato la grazia, ma lui si è rifiutato di accettarla.
«Mamma, mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà.»
Nell’agosto del 1943 lo hanno scarcerato, ma i compagni di prigionia hanno dovuto convincerlo a uscire perché lui rifiutava di abbandonare il carcere se non fossero stati rilasciati tutti.
“Puoi combattere meglio per la causa da fuori” gli hanno detto.
E infatti, appena scarcerato, Sandro ha ricominciato la sua lotta contro il fascismo, guadagnandosi una Medaglia d’Oro al Valor Militare nella battaglia in difesa di Roma. Ma la libertà è durata solo tre mesi e in ottobre lo hanno di nuovo arrestato insieme al compagno di lotta Giuseppe Saragat.
Praticamente senza processo lo hanno condannato a morte, e l’esecuzione sarebbe potuta avvenire per rappresaglia in qualsiasi momento.
«Di poca durata è stata la libertà concessami, ma anche a questo ero già preparato.»
Eppure, in carcere, Pertini lo hanno rispettato e temuto persino le guardie, per come resisteva, per come riusciva a mantenersi pulito ed elegante anche in prigione, mentre scriveva alla sorella: «Vedrai, Sandro risorgerà».
Ed è andata così. I partigiani lo hanno liberato attraverso falsi ordini di scarcerazione.
Pertini, tornato libero, è andato in Francia, quindi da lì è rientrato rocambolescamente in Italia attraverso i ghiacciai del Monte Bianco, usando ciaspole e sci, aiutato prima dai partigiani francesi e poi da quelli italiani.
In quell’occasione ha fumato la pipa per la prima volta, e non ha più smesso.
Ha attraversato il Nord-Ovest con documenti falsi per raggiungere Milano, dove il 25 aprile 1945 la sua voce ha proclamato alla radio lo sciopero generale insurrezionale.
«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.»
Ha anche proclamato la risoluzione del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia che stabiliva la condanna a morte di tutti i gerarchi fascisti, compreso Mussolini.
«Egli dovrà essere consegnato ad un tribunale del popolo, perché lo giudichi per direttissima. E per tutte le vittime del fascismo e per il popolo italiano dal fascismo gettato in tanta rovina egli dovrà essere e sarà giustiziato. Questo noi vogliamo, nonostante che pensiamo che per quest’uomo il plotone di esecuzione sia troppo onore.»
Eppure, quando il corpo morto di Benito Mussolini è stato esposto in piazzale Loreto, Pertini ha condannato la scelta di offenderne il cadavere.
«Ordinai che i corpi fossero rimossi e portati all’obitorio. Io, il nemico, lo combatto quando è vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando giace per terra.»
Finita la guerra ha partecipato alla Costituente della Repubblica ed è stato presidente della Camera, dopo aver sposato una giornalista che aveva conosciuto quando era partigiana, Carla Voltolina.
Anche nell’Italia del dopoguerra ha continuato a opporsi al fascismo e ai partiti che hanno cercato di riportarlo in vita, come il Movimento sociale italiano.
A Genova, nel 1960, già anziano, ha parlato davanti a centinaia di migliaia di persone per bloccare il congresso di questo partito, in un discorso che si chiudeva così: «Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi. Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, a impedire che ad essa si rechi oltraggio. Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi».
Le parole di Pertini hanno talmente incendiato la folla che il suo discorso è passato alla storia come ’U brichettu, che in genovese significa “Il fiammifero”.
Ancora pochi mesi prima dell’8 luglio 1978, Pertini ha sostenuto la linea dura contro le Brigate Rosse che hanno rapito il presidente della Democrazia cristiana e due volte ex presidente del Consiglio Aldo Moro, opponendosi a ogni trattativa con i terroristi per la liberazione di quel collega che lui pure ama e stima e definirà «un amico a noi tanto caro, un uomo onesto, un politico dal forte ingegno e dalla vasta cultura».
E dunque eccoci tornati a quello stesso 8 luglio 1978 in cui Sandro cammina per Roma.
È ormai vecchio, Pertini, ha ottantadue anni e tutto fa pensare che abbia concluso il suo incredibile percorso politico e sia destinato a un onorevole e progressivo ritiro dalla scena.
Invece non è così.
Il presidente della Repubblica in carica Giovanni Leone si è dimesso in seguito ad accuse di presunti illeciti e il Parlamento non riesce a trovare una figura su cui far confluire un consenso comune. Considerata la situazione di stallo, qualcuno inizia a fare un nome: Sandro Pertini.
Ma pare un azzardo, non è mica possibile, Pertini è troppo vecchio, troppo ribelle!
Senonché, una volta che le elezioni sono arrivate al quindicesimo scrutinio e nessun candidato ha ottenuto la maggioranza, i parlamentari hanno iniziato a pensare che questo piccolo e vecchissimo uomo, con la sua vita eroica e pulita, possa davvero rappresentare l’unità nazionale, la coerenza, la forza.
Fino all’ultimo nemmeno lui ci scommetterebbe, tanto che il giorno prima della nomina – il 7 luglio – Sandro si è comprato un biglietto per trascorrere qualche giorno di vacanza in quella Francia che così spesso lo ha protetto, considerando chiusa la questione presidenza. Ma alla fine non è partito, perché la voce – ora dopo ora – è cresciuta di forza: Pertini è il solo nome possibile per pacificare un paese diviso.
E va proprio così, Sandro Pertini viene eletto al sedicesimo scrutinio con 832 voti su 995, il maggiore consenso della storia repubblicana.
L’anziano signore coi capelli bianchi, l’ex perseguitato politico e carcerato, l’ex partigiano irriducibile, raggiunge il Parlamento, dove tiene il suo discorso di insediamento che finisce con queste parole: «Da oggi io cesserò di essere uomo di parte. Intendo essere solo il presidente della Repubblica di tutti gli italiani, fratello a tutti nell’amore di patria e nell’aspirazione costante alla libertà e alla giustizia. Onorevoli senatori, onorevoli deputati, signori delegati regionali, viva la Repubblica, viva l’Italia!».
Ed è proprio lui, il presidente vecchissimo, a svecchiare e rivoluzionare il suo ruolo.
Se, prima del suo insediamento, la figura del presidente è stata quella di un garante della Costituzione poco esposto, un ruolo molto formale ma poco sentito dalla cittadinanza, Sandro Pertini riscrive da zero il ruolo di capo dello Stato, al punto che a proposito del suo mandato si parlerà di “Repubblica pertiniana”.
Pertini rimane un uomo schietto, ironico, brillante, capace di essere amichevole con i cittadini quanto ruvido con i politici, anche quando riveste la più alta carica dello Stato.
Il vecchio combattente non prende alloggio al Quirinale, perché si sente «il primo impiegato dello Stato». Il Quirinale è il posto dove andare a lavorare, ma ogni sera Pertini torna nella sua piccola mansarda soppalcata, davanti alla fontana di Trevi, la casetta di quaranta metri quadri piena di foto e opere d’arte, dove lo aspetta la moglie Carla.
«Si chiacchiera, si discute, si guarda la televisione insieme.»
Ma Pertini viaggia anche molto, per essere dove c’è bisogno dello Stato nella sua massima espressione.
Pochi mesi dopo il suo insediamento, a Genova, le Brigate Rosse uccidono per la prima volta un uomo apertamente di sinistra, un operaio, un sindacalista di nome Guido Rossa, “colpevole” di aver denunciato un collega che sosteneva i terroristi.
La morte di Rossa scuote l’intero paese e in particolare Genova, città antifascista e storicamente schierata a sinistra.
Al funerale del sindacalista ci sono duecentocinquantamila persone e – nonostante il clima di paura e minaccia allo Stato – Pertini non può, non vuole mancare.
La presenza del presidente e le sue parole, in strada, sono un messaggio per il popolo italiano, chiamato a resistere a una nuova terribile minaccia.
«Io ho sempre sperato, nella vita, guai se mi avesse abbandonato la speranza. Ho sempre sperato perché credo nel popolo italiano.»
A Genova le Brigate Rosse sono forti di un consenso che viene anche da lavoratori che non sono terroristi, ma – al tempo stesso – non si sentono dalla parte dello Stato. Quando gli riferiscono che una parte dei portuali non prende davvero le distanze dalle posizioni estremiste che animano il terrorismo, Pertini manifesta la volontà di andare a parlarci nella loro “casa”, il porto.
«Presidente, potrebbe essere d...